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C’è un rapporto misterioso tra Torino, la fabbrica, la politica, la montagna. Misterioso e unico.
Non è quel legame quasi obbligatorio che unisce le città subalpine alla loro fetta di Alpi come un porto al mare; no, è un vincolo molto più profondo e sfuggente, un impasto di dovere e passione, pragmatismo e fantasia, disciplina e anarchia, una religione laica che trova nell’understatement la sua forma e nell’impegno la sua sostanza.
C’è perfino una consonanza di colori tra il grigio della fabbrica (che è il grigio vivo della città) e le tinte sobrie, un po’ opache e per nulla appariscenti delle nostre montagne, Cozie e Graie, con le loro nebbie malinconiche e i loro slanci nascosti. Ma c’è anche la stessa aria leggera in una giornata ben spesa al servizio del lavoro e in una giornata dedicata a rivisitare le vecchie amiche delle vallate piemontesi: la Loretta, la Rossa, la Piccola, l’Uia, la Tribolazione.
Certo ci sono anche i giorni e i monti a colori forti -Cervino 1952: “ubriachi di sole, di calore, di vita” -, ma una vocazione alpina la si costruisce domenica dopo domenica, alba dopo alba, anno dopo anno, con il sole sulla testa, la pioggia nella schiena, il temporale, le occhiaie del mattino e le vesciche della sera.
21 maggio 1997, Monte Croce, quarantacinque anni dopo: “venti minuti ed è la vetta, bella, bellissima. Siamo entusiasti, euforici, fanculo tutto il resto, questa è una benefica droga!”. A leggere gli appunti del sindacalista Franco Gheddo senza conoscere certe abitudini, e soprattutto certe persone, c’è da credere a una passione maniacale, altro che benefica droga! E invece dietro ogni riga, dietro ogni aggettivo, si può scorgere un amore onesto verso la vita, la dedizione alle piccole cose che – per fede – talvolta diventano grandi.
I termini sono importanti e fanno parte di quel lessico esclusivo degli alpinisti piemontesi che, senza darlo a vedere, amano sentirsi un po’ unici. Non superiori, ma diversi. “Grippare” vuol dire aver paura, “bandare” o trovare lungo” significa incontrare delle difficoltà, la “buschina” è il bosco fitto (dove si ritorna bambini strisciando tra i rami e le spine), un “beté” è un incompetente, il “pesce” è una nuvola lenticolare che porta il brutto tempo, “ruscare” significa lavorare ma anche faticare in montagna sotto il peso dello zaino.
Lavoro e montagna, ecco che ritorna il binomio: “primo novembre 1980, finisce vertenza FIAT, il tempo è splendido da settimane, speriamo di bucare le nebbie verso la Punta del Vallone”.
Una buona gita è un po’ come un lavoro fatto bene. All’evasione (sacra e rituale) si affiancano altri ingredienti fondamentali: la capacità artigianale degli alpinisti, l’esperienza dei luoghi, la scelta dell’itinerario, il tempo di esecuzione della gita (quante volte Gheddo cita gli orari nei suoi diari!), la metodicità dell’ impegno. Il tutto, però, condito con quel sentimento primordiale che Primo Levi ha simbolizzato nella “carne dell’orso” assaggiata con Sandro Delmastro nel Sistema periodico e che, in altre parole, corrisponde alla sana anarchia di chi ha il diritto di perdersi, di cambiare percorso, di “trovare lungo” e perfino di fare tardi. In montagna si può.
E cosi, di stagione in stagione, le amate montagne scandiscono i tempi della vita, restando immobili a segnare la nostra provvisorietà: “porto i miei nuovissimi 61 anni su un colle splendido, tra i vapori che si intrecciano, si sciolgono, viaggiano, in una giornata bellissima. Nebbie e vapori coprono e scoprono alte montagne nevate e severe, che ben conosciamo. Mario ha portato due fette di torta per l’occasione dei 61, che vengono messe a conclusione di un bel pranzetto. Alle 11,30 ce ne andiamo, dopo aver soddisfatto la vista; 13,15 alla macchina. Avevamo proprio goi di una giornata così”.
Goi vuol dire piacere: l’onesto piacere di tutta una vita.