Pubblicazione

Prefazione


Dolomiti, sesto grado, Prati, Videsott, Graffer: queste pagine trattano di luoghi, tempi e uomini straordinari, raccontano quell’inimitabile cenacolo alpinistico che s’incontrò e si perse a Trento in mezzo alle due guerre del Novecento, dopo un conflitto devastante e liberatorio per le Alpi orientali, in una terra ebbra di promesse perché da poco restituita all’Italia.
Non è facile studiare il periodo. Ci sono dei pericoli. Dietro ogni riga si cela il rischio di leggere quegli anni e quelle vite in modo univoco e corale, come troppe volte è stato fatto dai biografi celebrativi delle gesta alpinistiche, molto attenti a valorizzare i successi del campanile, della città, della scuola, del collettivo, ma altrettanto reticenti nell’evidenziare le incertezze, le differenze, i chiaroscuri che sottendono i risultati. È come una luce talmente forte da uccidere i contrasti, con effetto simile alle lampade degli studi televisivi che, imbiancando le piccole dive del piccolo schermo, cancellano rughe e imperfezioni restituendocele infine tutte uguali, di una bellezza algida e inutile.
Per fortuna l’analisi di Riccardo Decarli usa luci sfumate. È una ricerca capillare, trasversale, documentatissima. Descrivendo i luoghi e le persone nella loro complessità, senza reticenze e senza veli, l’autore scopre e dimostra che gli “alpinisti-eroi” del Ventennio trentino (secondo la definizione cara al regime) non erano per niente uguali e non soffrivano di conformismo. Alla fine non erano neanche eroi, o non sapevano di esserlo.
Erano figli del loro tempo, certo, ma ognuno a modo suo.
L’intellettuale Pino Prati fu il più attratto dalle teorie estreme di Lammer e dal pensiero esoterico di Rudatis; morendo troppo giovane sul Campanile Basso di Brenta inseguendo le tracce verticali di Paul Preuss, incarnò suo malgrado la visione idealistica dell’alpinista che duetta con la morte.
Renzo Videsott fu arrampicatore geniale e istintivo, efficacissimo risolutore di problemi dolomitici, per alcuni anni “imprestato” all’alpinismo benché proiettato verso studi e missioni più alte delle montagne: l’università, la protezione della natura italiana, la difesa dello stambecco, il Parco nazionale del Gran Paradiso.
Infine il più ragazzo di tutti: Giorgio Graffer. I vari testimoni raccolti da Decarli concordano nel descriverlo come un insieme di azione pura e talento innocente. Graffer è il Sigfrido dagli occhi azzurri che non si accorge di essere bello, lo sciatore perfetto che non cerca il gesto da campione, lo scalatore audace che sogna altre ali e l’aviatore impavido che solca altri cieli. Nei racconti di scalata Videsott lo chiama “la cara testa bionda”, con l’imbarazzato affetto del maestro eguagliato e superato dall’allievo di montagna.
Graffer eccelle su ogni terreno, dalla neve alla roccia; Graffer ama ogni elemento, dall’acqua all’aria; ogni impresa gli riesce facile perché non sa di fare l’impresa. Sale probabilmente mezzo centinaio di vie nuove sulle Dolomiti, soprattutto nell’amatissimo gruppo del Brenta, ma molte scalate restano solo ricordi privati, o neanche. Per uno come lui conta il presente.
Io un ricordo l’avrei. Risale al giorno che ho ripetuto la sua via allo Spallone del Campanile Basso. La mattina ho detto a Detassis “vado alla Graffer” e lui ha risposto “va bene”. Non servivano dettagli aggiuntivi, perché la Graffer era un logo, un marchio di qualità. Tutti conoscevamo quella scalata, anche noi piemontesi; andavamo, salivamo, tornavamo e dicevamo “è bella”, come da copione. Nessuno conosceva Graffer e le sue parole:
“Se proprio vuoi sarà di sesto grado – confidò a Videsott dopo l’impresa sul Basso –, ma ti ricordi com’erano saporite, quando si ritornava dalle giornate dolomitiche, le pesche di sesto grado? Sì, c’era veramente gusto a fare quel sesto grado”.
Non è un linguaggio da alpinisti, e nemmeno da eroi; è solo un gioco tra ragazzi, come spiega Videsott:
“Conoscevo quei suoi saldi piedi, perché erano quasi prensili, quando camminava in equilibrio sui fili di ferro tesi fra i pergolati del suo frutteto, per andarmi a prendere le pesche di sesto grado, come le chiamava con sottile ironia, quelle più mal disposte per essere colte”.
Le mele di sesto grado: questo era Graffer, il fuoriclasse delle Dolomiti, l’uomo del duello aereo su Torino in fiamme. C’è da chiedersi se questa specie di angelo che confidava ogni intimità alla madre dandole del Lei, redigendo lunghe lettere da innamorato, sarebbe mai sopravvissuto in un mondo meno indulgente verso i portatori di coraggio. Ma è una domanda retorica, perché Graffer non è sopravvissuto: è morto a vent’otto anni in un cielo straniero, mentre sull’Europa infuriava la guerra.