Pubblicazione

Prefazione


Quando, all’inizio del secolo scorso, gli studiosi definivano le Alpi «musei di antichità sociale» (Ellen Semple, 1911) o «un meraviglioso luogo di conservazione» (Robert Hertz, 1913), non facevano altro che assecondare quella cultura romantica che, da quasi duecento anni, regolava i rapporti tra città e montagna. Che si trattasse della visione idillica risalente ad Albrecht von Haller («Distanti dal vacuo affanno degli affari, e dal fumo delle città, essi vivono in pace…», 1729), oppure dello sguardo colonialista degli alpinisti («Lo spettacolo di tanti esseri cretiniformi è tale da disgustare lungamente della specie umana», Felice Giordano, 1864), si voleva con tutta l’anima che le Alpi restassero un mondo a parte, isolato, incontaminato, «altro». Con l’anima e con la spada, si potrebbe aggiungere, dal momento che lo stesso Giordano architettò la scalata del Cervino dal versante italiano per rispondere con la bandiera del Regno alla supremazia inglese sulle Alpi. L’anima, la spada e il portafoglio, visto che un Cervino scalato significava fama, turismo e denaro.
Profondamente influenzato dal dogma romantico, lo sguardo sulle Alpi – che è sempre sguardo di città – perpetua per buona parte del Novecento la visione di un mondo separato, anche e soprattutto quando quello stesso mondo si sgretola sotto la pressione della cultura consumistica urbana, e i montanari sono costretti a scendere in fabbrica lasciando paesi abitati solo da ricordi. Nel 1972 il fotografo-etnografo biellese Gianfranco Bini dà alle stampe l’album di immagini Lassù gli ultimi, immortalando i tradizionali modi di vivere della società contadina della Val d’Ayas. Molti si illudono che il libro rappresenti il grido di una civiltà minacciata, ma in realtà quella di Bini – pur altamente meritoria – è la ricostruzione di un mondo che non esiste più, se non nella memoria dei vecchi o nelle aspettative dei villeggianti, che calzano i sabot nel rustico ossequio a una società che non conoscono e non vogliono conoscere.
Passano altri anni e finalmente gli studiosi delle Alpi sono maturi per un salto di qualità, così rivoluzionario che forse solo oggi ne apprezziamo la portata. Il Sessantotto degli studi antropologici alpini arriva con circa vent’anni di ritardo, quando per esempio Harriet G. Rosenberg spiega che una comunità come quella di Abriès, nel Queyras, basò per secoli il proprio benessere sull’allevamento ovino, l’emigrazione stagionale e il commercio, condividendo le risorse vitali, e nel Settecento rispose all’egemonia dello Stato nazionale francese con inedite strategie di resistenza e autorappresentazione, comprando se necessario azioni della ferrovia Transiberiana o vendendo ombrelli di seta a Bogotà (Un mondo negoziato, 1988). Oppure quando Pier Paolo Viazzo dimostra che la povertà e l’autoreclusione delle valli sono solo miti del passato, e che il grado di istruzione delle terre alte era spesso così elevato che la montagna imprestava i precettori alla pianura (Comunità alpine, 1989). Crollata la visione di un mondo alpino chiuso, succube e ignorante, si scopre che i montanari seppero viaggiare, seppero negoziare e soprattutto seppero imparare dalla città, importando nelle valli quelle visioni e quei saperi che, opportunamente elaborati, hanno permesso alla civiltà alpina di raggiungere risultati soprendenti in fatto di architettura, arte e cultura. Come ha successivamente confermato lo storico Jon Mathieu, le Alpi non vanno viste come un mondo contrapposto o alternativo alla pianura e ai centri politici ed economici europei (Storia delle Alpi 1500-1900. Ambiente, sviluppo e società, 1998), ma piuttosto come un luogo da sempre abituato alle «contaminazioni virtuose», cioè agli scambi tra il basso e l’alto, e tra popolazioni con culture e stili di vita assai diversi.
Paradossalmente le strade, le automobili, i computer e la modernità, in poche parole le Alpi a un’ora dalla città, hanno infranto questa consuetudine, nel senso che la cultura urbana dominante sembra aver ridotto o annullato la capacità di dialogo, confronto, ibridazione, appiattendo le Alpi e i montanari su una posizione di acritica sottomissione alla civiltà globale, oppure di nostalgica difesa di un passato che non c’è più. Paradossalmente le Alpi sono per molti versi più isolate oggi che nel secolo scorso, o nei secoli precedenti, oscillando tra la tentazione del rifugio e il destino della colonia.
Ed eccoci all’ultimo tassello degli studi sulle Alpi, lucidamente riassunto in questo libro di Annibale Salsa che affianca competenze antropologiche e psicologiche. Fatte sue le conquiste degli anni Ottanta del Novecento, dunque ridefinito il concetto di identità alpina tradizionale, Salsa affronta la contemporaneità, vale a dire la crisi di tale identità e i processi di spaesamento e disagio creati dalle trasformazioni di fine secolo: emigrazione permanente, turismo di massa, affermazione del modello consumistico urbano, crisi e scomparsa della cultura del limite e della solidarietà. Se, come sostiene l’Autore, «il relativismo culturale dei saperi tradizionali contadini viene a confliggere, fino a soccombere, di fronte al sapere scientifico-tecnologico, tarato sui paradigmi universalistici della scienza e della modernizzazione del costume», e se «gli stili di vita dei montanari appartenenti alle società tradizionali pre-moderne non possono che entrare in una crisi letale e irreversibile di fronte all’avanzata degli stili di vita urbani e industriali», è giunto il momento di chiedersi quali possano essere il «montanaro» e le Alpi di domani.
Ancora una volta la risposta non può venire da una visione della montagna separata da quella della città, e nemmeno dal vecchio idealismo romantico contrapposto alle degenerazioni della globalizzazione. Per «salvare» le Alpi bisognerà essere molto aperti sul piano delle nuove culture (anche migratorie) e dell’innovazione (anche tecnologica). Ma soprattutto occorrerà far propria una visione del mondo capace di valorizzare le differenze ed eliminare le separazioni, specie se – come conclude Salsa – nella relazione con la montagna si realizza la pienezza del rapporto a tre livelli fra natura, relazioni sociali e interiorità soggettiva… La montagna può realizzare anche sul piano psichico quell’esperienza olistica che altre visioni alla moda hanno eluso o apertamente confutato».
Chissà che, dopo tanto sognare e tanto ridimensionare, non si impari a vedere le Alpi come un pezzo del nostro mondo, solo più fragile e più bisognoso di intelligenze.