Pubblicazione

Prefazione


Enrico Rosso racconta un’avventura fantastica, una storia che supera l’immaginazione. Ci sono anche le difficoltà, i rischi, gli incidenti di percorso e un finale che sembra un giallo del terrore, ma l’aggettivo fantastico si riferisce proprio alla fantasia, cioè a quella capacità visionaria che è dei giovani, degli incoscienti e degli innamorati. Di nessun altro.
Siamo negli anni Novanta del Novecento, prima di internet e dell’alpinismo in diretta. Vuol dire che la fantasia galoppa ancora su fotografie imperfette, relazioni misteriose, consigli vaghi, suggestioni e voci. Scalare in Himalaya è un salto nel vuoto, un’avventura totale, anche perché i soccorsi sono praticamente impossibili. I protagonisti di questa leggerissima spedizione allo Shivling, tra le montagne più belle e difficili del mondo, inseguono lo spirito anni Settanta di Joe Tasker e Peter Boardman sul Changabang, una scalata pazzesca e un libro magnifico, imitandoli per un soffio, prima che i computer e gli elicotteri cambino le regole e sfumino gli orizzonti. Tasker e Boardman sono tra i primi ad affrontare grandi difficoltà in stile alpino e i protagonisti di questa storia sono tra gli ultimi, non tecnicamente, culturalmente, con quell’animo indocile e ribelle che si nutre di solitudine e mistero.
Negli anni Ottanta del Novecento l’alpinismo è già completamente cambiato sulle Alpi, dove lo spirito sportivo ha preso il sopravvento. Si frantumano i record di difficoltà e velocità, spazzando inibizioni e tabù. Atleti come Profit ed Escoffier riescono a concatenare in una manciata di ore le pareti nord di Eiger, Cervino e Grandes Jorasses spostandosi con l’elicottero. In Himalaya non è così, soprattutto nelle zone meno frequentate. Non sono più i tempi dei pionieri ma esiste ancora un approccio pionieristico, nel senso che si tentano avventure mai tentate, si sperimenta, s’inventa, si rischia di sbagliare. I progressi tecnici e i nuovi materiali aiutano, ma il contesto è antico, decisamente avventuroso.
Il libro di Rosso è un classico racconto di spedizione che si legge come un libro di avventure, uno di quei libri con la copertina di cartone che lasciavano i ragazzi inchiodati alle pagine impedendogli di staccare gli occhi. Non sono i virtuosismi letterari, non è la sceneggiatura sofisticata, è quello spirito di incertezza e mistero che ha segnato la storia dell’alpinismo e che probabilmente è la sua sostanza, la sua unica forza, l’incorreggibile vocazione.
In questo senso il libro di Rosso ci porta anche a riflettere sul nostro tempo e sulla crisi dell’avventura, o sulla sua banalizzazione. Ha ancora un senso la parola avventura? Le prime voci che escono su internet sono “parco avventura”, un percorso artificiale, e “Avventure nel mondo”, un’agenzia di viaggi. Il patinato mondo della safety and security non prevede zone d’ombra. L’unica “avventura” prevista è quella programmata e sicura, cioè il suo contrario. Sarebbe il caso si rifletterci, perché è la prima volta che l’uomo si trova a corto di avventure.