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Prefazione


Ogni scelta è figlia del suo tempo. La Scuola di alpinismo di Seregno nasce a metà degli anni Settanta del Novecento, quando il fervore culturale e sociale del Sessantotto ha ormai pervaso anche il mondo alpinistico tradizionale e finalmente si sogna e si vive una montagna a dimensione umana, ben lontana dal modello eroico dei duri e dei puri, un po’ caserma e un po’ sacrestia, che risale ancora alla Grande Guerra.
L’anno cruciale è il 1977; a Seregno si è inaugurato da qualche mese il primo corso di alpinismo. Nel 1977 c’è un tabù che si chiama “settimo grado”, e non è solo una questione di numeri. Settimo vuol dire uno più del sesto, ed è tabù perché per decenni gli alpinisti e le loro istituzioni hanno fissato nel sesto grado il limite massimo delle possibilità umane. Settimo è molto di più di un nuovo grado: significa innovazione, trasgressione, futuro. Eppure nel 1977, nonostante tutti freni e gli ostracismi possibili, arrivano ben tre “settimi” di difficile confutazione: la poetica relazione tecnica di Ivan Guerini sul Precipizio degli Asteroidi (Val di Mello), la dichiarazione di Renato Casarotto dopo la salita del diedro sud dello Spiz di Lagunaz (Dolomiti) e le impressioni di Reinhard Karl di ritorno dalla Pumprisse sul Fleischbankpfeiler, nelle Alpi del Tirolo. In proposito Karl scrive:
«Dato che in quelle terribili fessure ci siamo trovati a pompare come i maggiolini in volo nuziale, abbiamo deciso di chiamare la nostra via Pumprisse».
Nessuno si sarebbe espresso così negli anni Sessanta, e neanche nei primi Settanta. Bisogna onestamente ammettere che i tempi sono un po’ cambiati, anche perché gli arrampicatori della beat generation portano i jeans al posto dei pantaloni alla zuava, ascoltano la musica rock e respingono senza sensi di colpa il simbolo più inviolabile della storia dell’alpinismo: la vetta. I ragazzi del Nuovo Mattino hanno scoperto che può esserci addirittura più mistero in una placca di gneiss a due passi dal fondovalle che in una vetta consumata dai precetti sacrificali della conquista eroica, perché la montagna non si conquista ma si rispetta. È una rivoluzione. Agli obblighi della lotta con l’Alpe, al mito-espiazione delle cime ricoperte di croci, agli abiti grigi della festa, hanno rapidamente sostituito braghe di tela, magliette colorate, trasgressioni, scherzi e tante belle vie dai nomi allegorici: Tempi moderni, Cannabis, Sole e Luna nascente, Nanchez, La rivoluzione, Itaca nel Sole. Per sentirsi bene non servono gelide guglie perdute in fondo ai circhi glaciali, ma onde di pietra dove giocare a scalare fino a sera, catturare utopie, fondare complicità e disubbidire, sempre.
Il torinese Gian Piero Motti, scrittore, storico, alpinista di talento e accademico del Club Alpino Italiano, ha ispirato e guidato il traghettamento dalla cultura eroica dell’alpinismo – duramente segnata dalla Prima guerra mondiale, dal Ventennio e dal clima sciovinista delle spedizioni himalayane del secondo dopoguerra – verso un nuovo romanticismo alpinistico. Nel 1974 ha scritto sulla Rivista della Montagna il famoso articolo Il nuovo mattino, ricavando dall’alpinismo californiano e dalla famosa via di Harding e Caldwell The wall of the early morning light (El Capitan, 1970) una sorta di legittimazione domestica per rompere con il passato. Motti è riuscito a dar voce, forma e dignità letteraria a un fenomeno che forse sarebbe addirittura passato inosservato. La forza del pensiero!
Nei primi anni Settanta, a Torino, si è pensato che per liberarsi dai fardelli della tradizione fosse venuto il tempo di imitare il modello anglosassone: zaino leggero, pochi ferri e poche tracce in parete, descrizioni sommarie degli itinerari, rispetto della roccia, arrampicata “ecologica” secondo i ritmi di madre natura. Nell’autunno del 1972 Motti ha scalato con alcuni compagni la liscia parete di gneiss del Caporal, il domestico Capitan della Valle dell’Orco non lontano da Ceresole Reale. Sulla via dei Tempi Moderni le difficoltà non sono poi tanto superiori alle vie di roccia del passato, ma la concezione è eversiva:
«… è vero, – scrive Motti –, ai piedi della parete si estende la foresta e sopra, usciti dal verticale delle rocce, ti accoglie il verde e pianeggiante altopiano. Ma quando sei impegnato in parete vivi lo stesso istante che potresti vivere sul Petit Dru o sulla Civetta. È lo spirito dell’alpinismo californiano. Lo scopo non è raggiungere la vetta, e nemmeno affermare se stessi. L’arrampicata è un mezzo per vivere sensazioni più profonde».
Alla fine Motti precisa che «se poi qualcuno dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi». Gli fa eco Andrea Gobetti, nipote di Piero ucciso dai fascisti, un contestatore ispirato dalla speleologia e dall’arrampicata:
«…quando passai dalle grotte alle pareti era il 1974 e lì trovai in piena fioritura un’acuta analisi sul perché si va in montagna, su come goderne anziché soffrirne. L’inutilità dei monti era ancora rispettata come il loro tesoro più grande. Era un mondo emozionante in cui potevi migliorare la tua vita reale e spirituale di tutti i giorni riflettendo e risolvendo problemi di pietra. Ritrovai così quello che mi era stato portato via davanti al naso troppo presto durante la contestazione studentesca».
Il movimento torinese del Nuovo Mattino dura il tempo di un sogno. Si conclude poco dopo la metà degli anni Settanta, quando le più belle pareti della Valle dell’Orco sono ormai esplorate e il sole è nato e tramontato sul Caporal. Motti si accorge che la trasgressione è compiuta: insistere equivarrebbe a istituzionalizzare i nuovi principi facendone delle regole e dunque ricominciando da capo. Ma alla “rivoluzione” dei piemontesi segue quella dei lombardi – Milano, Sondrio, la Val Masino – che inventano meraviglie in Val di Mello, il paradiso di granito ai piedi del Cengalo e del Badile. La primavera valtellinese si compie nell’estate del 1977 con la leggendaria salita dei milanesi Ivan Guerini e Mario Villa sul Precipizio degli Asteroidi. Poi vengono la Pace con l’Alpe degli emiliani e la scalata mediterranea dei romani, altri soli e altre utopie…
In quel tempo sbarazzino nasce la Scuola di alpinismo di Seregno, nel preciso momento in cui gli alpinisti hanno imparato a prendersi un po’ meno sul serio e a pensare un po’ di più agli altri. È bello arrampicare per il proprio piacere, legandosi con il compagno forte e affiatato, ma è altrettanto bello, e certamente più nobile, insegnare l’arrampicata ai giovani (e non solo) e condividere la passione. Per dirla con Ligabue, le scuole di alpinismo servono a mettere in circolo l’amore per la montagna, ma anche a condividere l’amore e il rispetto per la vita, insegnando la tecnica, la prudenza e la sicurezza. Non a caso la Scuola di Seregno è dedicata a un ragazzo che ha perso la vita in montagna: Renzo Cabiati. Inoltre la Scuola è ispirata e diretta da un giovane Giuliano Fabbrica che, con i duri di Valmadrera, ha sofferto quanto basta i gelidi rigori dell’alpinismo invernale e ora, con l’innata generosità degli umili, cerca calore nell’amicizia e nella trasmissione dei valori.
Una scuola di alpinismo non si fa per soldi e neanche per ambizione personale. Chi insegna l’alpinismo per mostrare in giro la patacca da istruttore è sempre un pessimo insegnante, e chi cerca il guadagno è meglio che scelga la professione della guida alpina. È molto più onesto. Le scuole di alpinismo sono un fantastico anacronismo postmoderno, un delicato insieme di volontariato e professionalità (il professionismo è un’altra cosa) e naturalmente corrono il rischio di snaturarsi nella competizione, nell’arrivismo e nell’improvvisazione. Per questo sono avventure difficili, precari equilibri tra passione e prudenza, gratuità e mestiere, voglia di scalare e necessità di insegnare (e pazientare). Sono stato per qualche anno istruttore della Scuola di Alpinismo Giusto Gervasutti di Torino e ho verificato quanto sia facile sbandare, esagerare, inorgoglirsi e perdere la strada. Ma quando funzionano, le scuola di montagna sono una cosa bella e necessaria, forse la migliore espressione di un Club alpino che oggi fatichiamo a leggere con la lente dei valori e troppo spesso scambiamo con il dopolavoro d’alta quota, o con la tessera per risparmiare sull’assicurazione. Se le scuole riescono a conciliare le ragioni della tecnica con quelle della montagna, allora hanno raggiunto il loro scopo. Come a Seregno, mi pare di capire.