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Persi sul ghiacciaio del Gries


Oggi, che di anni ne ho più del doppio, mi pare che dirigere un piccolo esercito come la Sucai a ventun anni sia un’impresa tra la follia e l’onnipotenza. Eppure non ero affatto incosciente, a quel tempo, e riuscivo a dominare le responsabilità e la passione anche meglio di quanto sappia fare oggi, con l’esperienza e la moderazione della mezza età. Alla fine la pagai con un esaurimento nervoso, ma questa è un’altra storia.
Il corso di scialpinismo dell’inverno 1979 non fu né particolarmente facile né particolarmente fortunato. Cominciammo bene con una classica Pitre de l’Aigle nei pressi del Sestrière, ma poi ci arenammo in un impasto di neve-cemento sotto la Croix de Chaligne nella valle del Gran San Bernardo, e ci dibattemmo tra “boschina” e bufera verso il Colle della Bicocca, in alta Val Varaita, dove era sceso improvvisamente un turbine bianco. Già magro di mio, sembravo un fantasma che contava altri fantasmi.
Alla quarta uscita, la Testa della Garitta Nuova ancora in Val Varaita, riportammo a valle ben due feriti con la benedizione del nuovo gommone gonfiabile. Due gambe rotte in un solo giorno. Giù fino a Becetto con un allievo, e poi su di nuovo verso la cima a recuperare il secondo infortunato, un istruttore amato e sfortunato. Andrea Bruzzone si ricorda ancora ogni gobba, ogni increspatura di quel pendio per noi dolcissimo e illuminato dall’incredibile sole di fine febbraio.
Alla quinta gita perdemmo un pullman nelle nebbie della pianura cuneese, ma raggiungemmo ugualmente l’ardita Rocca dell’Abisso sopra Limonetto, mentre quindici giorni più tardi la nebbia non perdonò e ci toccò rinunciare alla cima del Mongioie, dopo l’interminabile viaggio per Viozene e prima della lunga discesa su Bossea. Ci rifacemmo in Valle Stura con la traversata della Collalunga, un cocuzzolo disegnato per gli sciatori alpinisti nel vallone dei Bagni, ma il destino ci aspettava in Val Formazza alla fine di aprile.
Quando salendo al Passo del Vannino alla testa di cento sciatori mi imbattei in un rarissimo gallo cedrone, animale mitico e possente, non seppi se interpretare l’apparizione come un segno di augurio o un presagio funesto. Feci finta di niente e continuai a salire.
Comunque il secondo giorno navigammo tra iceberg e marosi di ghiaccio fino alla cima della Punta d’Arbola e ritorno, in una luce indecifrabile da limbo dantesco. I giochi erano apparecchiati per il terzo giorno, che prevedeva la traversata del Blindenhorn e la discesa sull’insidioso Griesgletscher, una specie di Mer de Glace in formato walser.
Le previsioni parlavano chiaro: bel tempo fino a mezzogiorno e poi rapido peggioramento sulle Alpi, con nevicate nel pomeriggio.
«Ce la possiamo fare – concordammo la sera davanti a un piatto di minestrone –, basta che entro le dieci siano tutti su al colle, tassativamente entro le dieci, e chi non c’è lo facciamo tornare indietro.»
Oggi mi sembrano i proponimenti di Krakauer e compagni al colle Sud dell’Everest, ma noi eravamo ben più numerosi di Krakauer e compagni, e poi il Blindenhorn fa un po’ meno paura della Dea madre della Terra.
Sta di fatto che non chiusi occhio. Tirammo giù allievi e istruttori dalle brande a notte fonda, accelerammo i riti della colazione, forzammo l’andatura, incitammo con la radio il gruppo di chiusura, salimmo in vetta in pochi e, sotto i primi veli di nubi, ritornammo al colle come falchi. C’erano ancora il sole e due-tre ore di tempo clemente a disposizione, ma, dannazione!, gli ultimi gruppi non spuntavano mai dalla valle e la perturbazione avanzava, anzi ormai galoppava da ovest, puntuale come un orologio svizzero.
Cascammo in trappola come topi. Cento persone in fila indiana su un ghiacciaio piatto come l’Olanda, sotto una nevicata natalizia, brancolanti in una nebbia totale, assoluta, kafkiana. Tutti seguivano il compagno che avevano davanti con la rassegnazione dei naufraghi, mentre il primo della fila brancolava nel nulla come un astronauta sperduto nello spazio.
Ore e ore di esercitazioni di topografia e di navigazione strumentale si infrangevano contro l’impotenza degli strumenti e di tutte le teorie, perché l’altimetro segnava sempre la stessa quota e la bussola traguardava solo fantasmi bianchi: oltre la punta degli sci ogni cosa era stata inghiottita da una cortina di latte senza luci, senza ombre, senza rumori, perfino senza odori.
Non so se fu il fiuto o la fortuna a tirarci fuori dal Griesgletscher. Certamente fu l’ombra scura di una roccia – forse un sasso, forse una parete – che con un atto di fede quasi obbligatorio collegammo a un piccolo sperone indicato sulla carta al 25.000, proprio in direzione del passo del Gries. Puntammo allo sperone e scorgemmo delle impercettibili tracce di sci, così leggere da confondersi con un’allucinazione ma così umane da apparire come una liberazione. Avrei baciato quelle rotaie sperdute nella tempesta, che non solo ci portarono al colle delle nostre speranze, ma ci accompagnarono anche verso Bettelmat, il Lago di Morasco, le case di Riale, la maglia asciutta e le scarpe di ricambio.
Giunti alle auto ci contammo: non mancava nessuno.Scendemmo tutti insieme incontro alla primavera.