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Paesaggio lavorato, paesaggio desiderato


Quella di Aosta non è una valle come le altre, soprattutto nel panorama delle Alpi occidentali italiane, afflitte da problemi di povertà ed emarginazione. Alla lunga tradizione autonomista, che ne ha decretato autodeterminazione e ricchezza, si aggiungono alcuni indubitabili caratteri di “bellezza” di conche, montagne e ghiacciai (non è vero che le Alpi sono tutte belle allo stesso modo), e dunque ancora di ricchezza, grazie a un turismo dapprima inadeguato e zoppo, poi incentrato acriticamente sullo sci di massa, infine cosciente dei propri limiti e finalmente diretto verso una fase di adeguamento professionale.
In Valle d’Aosta il territorio è (spesso) lacerato fra tre vocazioni primarie: quella industriale, oggi in crisi, che ha coinvolto soprattutto la bassa e la media valle, compreso il capoluogo di Aosta; quella agricola, sostenuta a onor del vero da una cultura dura a morire (l’unica vera cultura che rappresenti la “valdostanità”) e da generosi incentivi pubblici; infine la vocazione turistica, anch’essa incentivata e protetta, che ha stravolto in alcuni casi le alte valli (vedi Courmayeur e Cervinia) e si è inserita altrove in modo più equilibrato, soprattutto là dove erano presenti degli anticorpi sociali e culturali (le politiche ambientali del Gran Paradiso nelle valli tra Cogne e Rhêmes-Notre-Dame, la fiera tradizione walser nella Valle del Lys, eccetera). La fotografia del paesaggio valdostano costruito parla come un libro aperto, con gli agglomerati urbani della bassa valle che assomigliano in tutto a protesi urbane (Ivrea non è lontana, ma è mancato il lungimirante sguardo degli Olivetti), e le architetture di media e alta quota che si dibattono tra un modello rurale rigorosamente orientato su pietra e legno (con effetti generalmente equilibrati, ma sempre un po’ troppo monocordi) e un modello turistico dagli esiti altalenanti, soprattutto là dove le seconde case hanno stravolto piani, progetti e idee negli anni cruciali in cui bisognava avere il coraggio di scegliere uno sviluppo diverso.
La Valle d’Aosta comunque non è un’isola, nonostante una recente pubblicità; la Valle fa parte del ben più complesso e articolato impianto alpino, spina dorsale dell’Europa, e dunque risente della contingenza generale, dei problemi delle terre alte, delle domande comuni alle Alpi tutte, oggi pericolosamente in bilico tra una sterile conservazione del passato e un (ab)uso minaccioso della modernità. Come molte altre vallate alpine, soprattutto le più ricche e ricercate dai cittadini, la Valle d’Aosta è un luogo a mezza via fra un trascorso agricolo di difficile sopravvivenza nel mondo post industriale e un futuro incerto e problematico, poco coniugabile con il passato se non intervengono mediazioni culturali nuove.
Forse un ragionamento corretto deve partire sempre dalla terra. Un giorno hanno chiesto a Reinhold Messner se si considerasse prima di tutto un alpinista, un esploratore, un intellettuale, uno scrittore o un politico. Lui, spiazzando tutti come al solito, rispose «un contadino». Mettendo al primo posto l’orgogliosa appartenenza alla matrice contadina, Messner – uomo di mondo e uomo di frontiera – sottolineò quella relazione con la terra e con gli animali che è scolpita nel codice genetico del montanaro, il sapere materiale tramandato oltre ogni memoria d’uomo, la fedeltà simbolica agli attrezzi da lavoro, il rapporto di pelle – quasi di carne – con gli animali della stalla, la cultura stanziale dell’agricoltore di montagna. La risposta di Messner significava che l’uomo di montagna è legato alla terra e al paesaggio della terra, e che anche se costretto a emigrare lontano, anche se la transumanza lo ha portato in altre valli e in altri paesi, o il turismo lo ha scaraventato in “luoghi” non suoi, il montanaro non è mai un vagabondo, ma resta il custode dei terreni e dei pascoli che ha ricevuto.
Eppure questa sensibilità ancestrale che lega buona parte degli abitanti delle Alpi è insidiata dai nuovi stili di vita e mostra segni di crisi ormai congeniti, in un mondo globalizzato dove città e montagna fanno parte dello stesso sistema. In Alto Adige come in Valle d’Aosta, l’identità locale deve difendersi contemporaneamente dagli sterili arroccamenti dei tradizionalisti e dagli espropri brutali del libero mercato.
Questo è il primo impoverimento dell’agricoltura alpina, la perdita di identità, che non va solo pensata in senso tecnico (il Fontal dei supermercati tende a uccidere la vera Fontina), ma anche e soprattutto in senso culturale. Se i terreni coltivati scompaiono viene a mancare anche quel paesaggio, quella tipicità territoriale, quel significato antropologico che per quasi mille anni ha fatto sentire i montanari come parte di un mondo specifico, e verso la fine del Settecento ha attratto i viaggiatori romantici, che avevano un bel dire sulla natura incontaminata e sulla wilderness, ma in realtà erano e sono ancora affascinati da un territorio che è indistricabile fusione di paesaggio naturale e paesaggio umano, lavorato e abitato.
Possono sembrare distanti la percezione del montanaro e quella del cittadino, ma in fondo si sorreggono a vicenda. I valligiani (intesi come gente che sceglie di vivere in montagna) hanno bisogno di un paesaggio lavorato (anche in modo moderno e innovativo), per riconoscersi in un ambiente frutto del loro lavoro, obiettivo irraggiungibile se la montagna diventa periferia e surrogato della città. I cittadini, specularmente, cercano una montagna che non sia mera protesi urbana, ma offra invece requisiti di qualità paesaggistica, culturale e produttiva in quantità superiore alla città. Agricoltura e turismo si tengono insieme, sono l’una nelle mani dell’altro e viceversa.
Il riscatto dell’agricoltura di montagna è ipotizzabile solo nei termini di un’elevata riconoscibilità del prodotto e di una collocazione diretta sul mercato locale attraverso un circuito virtuoso con il mercato turistico: agriturismi, coltivazioni biologiche, marchi tipici, prodotti estremamente differenziati e assolutamente caratterizzati in base alla zona e addirittura all’azienda di provenienza. Non c’è alternativa. La montagna è costretta a seguire questa direzione.
D’altra parte esistono già alcuni successi che testimoniano la bontà della scelta. In Valle d’Aosta, per esempio, fino agli anni ottanta del Novecento il vino era di cattiva qualità o importato. Tutto si poteva dire della Vallée, tranne che fosse la regione del buon vino. E invece, attraverso il recupero dei vecchi vitigni, il ripristino dei terreni coltivabili, l’importazione di nuovi vitigni da altre regioni, una lavorazione enotecnica di alta qualità, e soprattutto con oculate operazioni di promozione e riqualificazione del prodotto, oggi – da Donnas a La Salle – la valle offre una vasta gamma di vini rossi e bianchi in grado di accontentare ogni palato. Nei ristoranti valdostani si consuma quasi solo vino locale e il turista può avvicinarsi al Monte Bianco percorrendo la Route des Vins e scegliendo tra decine di etichette.
Ma è ipotizzabile e auspicabile un sistema di contributi diretti verso l’agricoltura di montagna con il solo scopo della manutenzione del territorio e della cura del paesaggio?
Perché no! Se la qualità del paesaggio è presupposto indipensabile per la sopravvivenza della montagna, risulta più che lecito sovvenzionarne i “giardinieri”, cioè gli agricoltori, cioè coloro che concorrono a mantenere “sano” il territorio alpino a benificio (culturale ed economico) di chi ci abita e di coloro che vi salgono per soggiorno. In una società e in un’economia sempre più orientate verso la produzione di beni immateriali, dovrebbe essere naturale attribuire un valore al paesaggio, anche se la cultura corrente è ancora ben lontana da questa prospettiva, e spesso si confonde la difesa dell’agricoltura con strade e sbancamenti fuori luogo, assai più vicini alla cultura della scavatrice che a quella del trattore.
Non vanno sottostimate le ricadute sociali di un simile investimento, perché il primo problema della montagna (anche quella ricca) è l’emorragia di identità delle popolazioni, la perdita di modelli aggreganti, lo smarrimento dei cicli di vita e di lavoro che non portavano i giovani a invidiare la città, ma offrivano un senso e uno scopo a ogni generazione alpina.
Purtroppo le vallate più ricche e più trasformate dal turismo (ancora Courmayeur e Cervinia) mostrano in modo drammatico gli effetti dello sradicamento giovanile, le ferite dello straneamento e dell’emarginazione, mentre là dove il tursimo morbido, il cosiddetto “turismo rurale”, ha saputo pilotare un cambiamento morbido e graduale, si tendono a ricreare ruoli e modelli capaci di futuro, a tutto beneficio del paesaggio e di coloro che lo abitano.