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Nuova vita per le montagne?


La mia generazione ha assistito a una trasformazione fulminea e radicale delle terre alte. Non era mai successo alle generazioni precedenti. Per esempio cinquant’anni fa le montagne di tremila metri erano bianche di neve e adesso sono grigie e stempiate. La Terra ha la febbre e i ghiacciai la misurano. Con un ulteriore aumento di temperatura di due gradi nel 2050 ci resteranno dei ricordi di ghiaccio a quattromila metri. Sotto avremo le foto d’epoca. Il paesaggio innevato che lucidava gli occhi dei viaggiatori romantici sarà uno scenario mediterraneo.
Cinquant’anni fa cominciava l’ultimo capitolo dell’emigrazione montanara denunciata da Nuto Revelli, ma la civiltà montana era ancora perfettamente impressa nel paesaggio e nella cultura. Ora abbiamo cimiteri di case contadine e la vegetazione si è mangiata i terrazzamenti, i pascoli e le memorie.
Cinquant’anni fa l’industria dello sci era una promessa di benessere per tutti, adesso lo sci è uno sport elitario e un po’ contro natura, le piste s’imbiancano a colpi di cannone e i poveri pagano la neve finta dei ricchi.
Cinquant’anni fa il turismo portava la città in montagna e crescevano condomini ovunque, adesso i proprietari dei monolocali li ridarebbero indietro perché quasi nessuno vuole più svegliarsi in un guscio di cemento.
Cinquant’anni fa una gita in montagna era un viaggio incerto, adesso si parte sapendo che tempo fa e che maltempo farà. Possiamo chiamare l’elicottero in ogni istante: «Sono stanco, venitemi a prendere». Reclamiamo certezze. Siamo nel tempo dell’avventura programmata, che è un evidente controsenso.
Per fortuna gli studiosi a cavallo tra il Novecento e il Duemila osservarono con grande attenzione il cambiamento in quota e già nel 1991, grazie ad alcune menti illuminate, avevamo la Convenzione delle Alpi, uno strumento politico attento e lungimirante. Bastava applicarla su scala europea. Nel 2002, quando le carte erano sul tavolo ma bisognava leggerle con gli occhiali giusti, ho pubblicato un libro che s’intitola “La nuova vita delle Alpi”. Era il momento di crederci. Eppure se oggi dovessi ristamparlo ci metterei un punto interrogativo. Non perché gli argomenti di allora non siano più validi ma, al contrario, perché lo sono ancora in tutto e per tutto, come se il tempo si fosse fermato. Diciassette anni fa il mondo alpino era già cambiato e sapevamo molto bene dove saremmo andati a parare. Avevamo gli strumenti per valutare la tendenza in atto e progettare tempestivamente il futuro delle montagne italiane. Bastava volerlo.
Dunque non tratta d’inventare niente, semplicemente di scegliere. Vogliamo seguire i modelli fallimentari del passato oppure ci interessa un futuro ambientalmente ed economicamente sostenibile per le aree interne del paese, e per le terre alte in particolare? In tal caso credo che i nodi della questione siano tre. Il primo riguarda il popolamento della montagna, che non ha quasi più niente a che fare con la tradizione. Andare a vivere in montagna è una scelta, non un destino, e poiché è scelta scomoda bisogna sostenerla con servizi adeguati e sagge politiche territoriali. Non potremo mai più abitare dappertutto come si faceva nell’Ottocento, bisogna puntare su alcuni luoghi, è ovvio, ma se una famiglia decide di vivere in una valle non può sobbarcarsi cinquanta chilometri di auto al giorno per portare il figlio a scuola, e altri cinquanta per farlo giocare con i bambini della sua età. Servizi e vita di comunità sono i requisiti irrinunciabili.
Il secondo punto riguarda il turismo, in particolare lo sci. Altre strade possono essere intraprese senza affossare un mercato che dà lavoro a molte persone, è indubbio, anche se ha plasmato irreparabilmente intere valli orientandole al turismo di massa e chiudendo tutte le vie di fuga. Nessuno si sogna che posti come Sestriere, Pila o Marilleva si trasformino da stazioni sciistiche in qualcos’altro, perché non hanno più scelta, ma dovremmo reclamare che si cambi rotta altrove, e molto in fretta. Innanzitutto che non si parli più di nuovi impianti di risalita, come prescrive da quasi trent’anni la Convenzione delle Alpi. Che si dia retta alle previsioni della comunità scientifica internazionale rinunciando alla pratica dello sci sotto i 1800-2000 metri, dismettendo gli impianti a quota inferiore e ripristinando l’ambiente che c’era prima. Che si cominci a godere della neve quando c’è e di altri piaceri quando non c’è, preparandosi all’evento. Che si rivalutino le forme di sci storiche e strutturalmente ecologiche, che non hanno bisogno degli impianti e della neve artificiale. In definitiva, che si slittino progressivamente gli investimenti pubblici verso il turismo dolce e sostenibile, creando nuove professionalità e nuovi posti di lavoro.
Il terzo punto riguarda l’agricoltura. È evidente che la montagna non può e non deve competere con la pianura, perché ha già perso prima ancora di cominciare. In montagna si può e si deve fare solo agricoltura di alta qualità, anche perché una delle maggiori attrattive del turismo è proprio quel paesaggio coltivato che senza l’agricoltura è perso per sempre. Ma anche qui servono tre requisiti: bisogna aiutare l’agricoltura montana come si farebbe con un talento fragile e fantastico; bisogna porre dei veri marchi di qualità, senza confondere continuamente ciò che è prodotto in montagna a costi altissimi con ciò che, con lo stesso nome, utilizza materie e terreni di pianura; bisogna imparare a raccontare il prodotto della montagna in modo che il pubblico lo distingua e se ne prenda cura.
Come sempre a monte di tutto s’impone una trasformazione culturale. Per troppo tempo il mercato e i media hanno divulgato un’immagine patinata e falsa della montagna invernale, come non esistesse un’altra montagna, o non fosse abbastanza degna per la gente che conta. Per troppo tempo si è oscillato tra la montagna del bel tempo andato e la montagna dello sport estremo, trastullandosi in anacronistiche nostalgie attraversate da strani gesti elitari. Invece la vera protagonista di domani sarà la montagna estiva, il corridoio ecologico più vicino alle città e il più lontano dall’afa e dall’inquinamento urbano. Sarà una montagna più verde che bianca. Un posto per tutti, se sapremo crederci.

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