Pubblicazione

Montagna, turismo sostenibile e olimpiadi

Semestrale dell’Istituto di Ricerche Economico-Sociali del Piemonte, n. 29, novembre 2005

Le Alpi come strumento di rinascita per il Piemonte? L’opportunità appare scontata e problematica allo stesso tempo. Scontata in tempo di olimpiadi, perché nessun’altra catena montuosa al mondo presenta un tale concentrato di ricchezze naturali e culturali, affiancando – per esempio – monumenti della natura come il Monviso alla minoranza linguistica occitana, e il Monte Rosa all’antica civiltà dei Walser. Problematica perché, precisamente in tempo di olimpiadi, le Alpi si presentano come un territorio fragile e minacciato, dove vivono milioni di persone (comprese le città pedemontane di cerniera, o i distretti alpini che orbitano sulla pianura) che rifiutano un destino di invecchiamento e di spopolamento, e dove un esercito di turisti sale ogni anno a usare, godere e abbandonare luoghi che rischiano di diventare “non luoghi”, cioè paesaggi patinati ma senz’anima.
Le Alpi sono il giardino e la spina dorsale dell’Europa, ma anche il corridoio dei Tir e dei più costosi transiti internazionali in termini di inquinamento e vite umane. Le Alpi sono imbrigliate da circa 12.000 chilometri di impianti a fune e sono attraversate da 4.000 chilometri di autostrade. Sulle Alpi, secondo una stima della Commissione internazionale per la protezione dell’ambiente alpino, si percorrono venti miliardi di chilometri a solo scopo turistico e le valli “ricche” (per esempio l’alta Valle di Susa) sfiorano il collasso a ogni fine settimana, mentre le valli “povere” (per esempio quelle del Cuneese, o quelle del Gran Paradiso sul versante piemontese) denunciano incuria e abbandono.
Si possono ipotizzare due fronti di riflessione e di azione. Da un lato la sfida del dialogo e della tolleranza, che significa restituire alle montagne la loro storica funzione di cerniera tra opposti versanti, la capacità di comunicare oltre le frontiere artificiali degli stati e la vocazione a proteggere le etnie e le lingue minoritarie dall’invasione della cultura omologante. Dall’altro lato la sfida – ancora più urgente che altrove – di inventare uno sviluppo capace di futuro, che sappia superare i gravi errori del dopoguerra (abuso delle seconde case, monocultura dello sci) e rifiuti l’insidiosa tentazione del modello unico e globalizzante. Prima ancora che di una questione ambientale, si tratta di un problema culturale: le Alpi possono diventare una sorta di periferia verde delle città, un immenso parco per i giochi dei cittadini, una colonia dei divertimenti, oppure possono rivendicare la propria cultura millenaria e aspirare a un ruolo alternativo a quello urbano, valorizzando il territorio, l’agricoltura e la pastorizia di qualità, la piccola industria, l’artigianato e soprattutto un turismo “morbido” fondato sulle ricchezze ambientali e storiche, un turismo “lento” che sappia recuperare i ritmi naturali della montagna, un turismo inserito nel tessuto sociale delle popolazioni alpine.
Gli antropologi insegnano che l’unica salvezza per la tradizione viene dalla sua capacità di trasformazione e dalla disponibilità a “contaminarsi” con altre culture senza perdere l’identità originaria. Tutto il resto è un passo verso la museificazione o l’estinzione. Questo significa che la cultura alpina, o quel poco che ne rimane, ha bisogno della cultura della città (ampiezza di visione, capacità di programmazione), esattamente come i cittadini hanno bisogno delle montagne per sperimentare cieli liberi e tempi liberati. La contrapposizione tra montanari rozzi e virtuosi e cittadini civilizzati e corrotti è un pregiudizio vecchio quanto il mito di Rousseau (“si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza”), un mito che sotto lo sguardo complice del romanticismo ha favorito due secoli di tentazioni colonizzatrici.
Di tutto questo si molto discusso, in modo anche critico e costruttivo, dopo l’assegnazione a Torino della candidatura olimpica, ma a giochi ormai fatti sembra che ancora una volta prevarrà la logica urbana che confina la montagna a ruolo di stadio o scenario privilegiato, tempio delle infrastrutture e dello sci di massa, e fatica a riconoscerle quel ruolo di alterità alla città che favorirebbe un turismo nuovo, sfaccettato, curioso e sensibile, in una parola “responsabile”.
Il turismo responsabile è l’opposto del modello unico urbano. Consiste nel valorizzare le differenze e le peculiarità di ogni località, dal dialetto alla cucina, dai colori agli odori, consiste nello scambio di culture esogene ed endogene, consiste nel graduale e morbido inserimento del visitatore nella realtà locale, rispettandone i tempi, i riti, gli usi, perfino le imperfezioni.
Il primo esercizio degno di un visitatore sensibile dovrebbe consistere nel decifrare il luogo delle sue vacanze, nel cogliere scampoli di verità e bellezza (ma anche di contraddizione) dietro il sipario asettico dell’apparato turistico. Per ottenere qualche risultato bisognerebbe imparare a guardare oltre la rustica consolle dell’immancabile Bar delle Alpi, le tovagliette ricamate del Ristorante Belvedere, i campi da tennis seminascosti dai Cedri del Libano, la pizzeria camuffata da rascard o il rascard trasformato in discoteca. Bisognerebbe cominciare a parlare con la gente del posto, sgretolare con pazienza il muro della diffidenza e dell’omertà, rispettando i tempi della montagna che, ahimé, sono assai diversi dal concitato 2006 che verrà.
“Sinora – ammoniva Alexander Langer – si è agito all’insegna del motto olimpico “citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in “lentius, profundius, suavius” (più lento, più profondo, più dolce), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso e semplicemente disatteso”.
Ecco la sfida per Torino. Una prima provocazione mossa alla tradizione torinese dell’auto, oggi giusto motivo di preoccupazione e nostalgia, è individuare e applicare mezzi di spostamento alternativi, più coraggiosi e innovativi, proprio a cominciare dal territorio alpino. Le montagne non sono terre aperte come i deserti, o le campagne, o i litorali, dove gli orizzonti scorrono nel finestrino e scivolano via. Le Alpi sono terre anguste e complesse, luoghi dell’impervio, insiemi di paesaggi diversi, mutevoli, misteriosi: attraversarli in automobile è come ascoltare un vecchio long playing alla velocità di settantotto giri, cogliendo solo l’allucinazione di un suono e brandelli di parole senza senso. Quella mezz’ora di auto che porta dai mille ai duemila metri di altezza corrisponde – in orizzontale – ai mille chilometri che separano i boschi dell’Europa centrale dalle piante pioniere della tundra.
Ne consegue che anche il turismo domenicale “mordi e fuggi via” ha poco senso nella dimensione alpina. Non c’è forse contraddizione se, per respirare qualche boccata di aria buona, produciamo altrettanta aria cattiva con i gas di scarico delle nostre automobili, sottomettendoci a stress da viaggio e code da rientro in perfetta sintonia con il quotidiano logorio della vita urbana? L’illusione di una fuga non ci rende meno prigionieri.
A chi taccia di romanticismo tale visione si può rispondere con lo straordinario successo (anche e soprattutto economico) del movimento “slow food”, che ha applicato al cibo filosofia della qualità e della lentezza. La riscoperta della gastronomia autoctona è storia recente, perché fino a dieci, vent’anni fa molti ristoratori alpini erano ancora convinti che i cittadini preferissero mangiare come a casa loro. Era il tempo delle pizzerie napoletane, delle tagliatelle alla bolognese, del pesce di mare servito nei ristoranti a quattro stelle. I piatti di montagna venivano considerati piatti poveri e li si rinnegava continuamente. Camion carichi di scorte di pianura rifornivano gli alberghi delle Alpi e altri camion scendevano a valle con i prodotti della montagna. Niente di più autolesionista: i prodotti locali vanno consumati sul posto, per accrescerne la tipicità e invogliare i turisti a scegliere una meta e a ritornarvi.
Lasciare la città vuol dire anche questo: accettare che una parte del mondo contemporaneo possa risiedere altrove, lontano dai “centri” tradizionali, fuori dalle rotte del mercato globale. Accettare l’alterità come ricchezza insostituibile e scoprire che esistono cose che non si vedono in televisione e non si comprano ai grandi magazzini.
Su questo bisognerà lavorare nei mesi e negli anni a venire, affinché il Piemonte si candidi veramente come meta di un turismo unico e inimitabile. Resta il dubbio che le Olimpiadi, proponendo un modello esportabile in tutto il mondo, abbiano concentrato i riflettori su un Piemonte ancora confuso e indistinto, alla ricerca di una rinnovata identità.