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Moltitudine cerca casa


La montagna selvaggia di solito non sopporta i grandi numeri, ma ci sono delle eccezioni. In tempo di guerra le truppe alpine sono state costrette a colonizzare i severi territori delle cime, imparando a convivere in cento, mille soldati con un ambiente ostile dove il freddo e le valanghe reclamavano più vittime del fuoco delle armi nemiche. Durante la guerra all’eresia mille valdesi guidati da Enrico Arnaud scavalcarono le Alpi occidentali per riprendersi le proprie valli. In tempo di pace preti, boy-scout ed educatori vari hanno spesso popolato colli e montagne, protetti dal loro dio misericordioso. E così si faceva anche al tempo eroico della mia partecipazione alla Scuola di scialpinismo della Sucai di Torino, quando era normale partire in pieno inverno con quattro pullman carichi di allievi e istruttori, salendo e scendendo montagne con strategie semimilitari, e tornando a casa quasi sempre tutti interi, con alti, anzi altissimi margini di sicurezza.
Chi non l’ha provato inorridisce di fronte allo scialpinismo di massa, perché la dimensione collettiva uccide l’avventura – si dice – e diseduca le persone rendendole passive. Ma esiste un altro genere di avventura che consiste nell’adattarsi alle esigenze del più debole, e un diverso concetto di successo che significa sostituire le capacità individuali con quelle del gruppo. Forse non è scialpinismo nel senso classico del termine (ma chi lo sa che cosa sia poi il “vero” scialpinismo?), ma è certamente un’esperienza umana intensa, a volte generosa, a volte narcisistica, quasi sempre provocatoria perché impone di confrontare le proprie (in)sicurezze con quelle altrui.
Per dieci anni ho preso molto sul serio l’avventura della Sucai, barando sull’età per poter essere ammesso come allievo a quindici anni, diventando al più presto “distintivato”, poi istruttore e infine direttore a ventun anni appena compiuti, nell’autunno del 1978. Iniziavo il terzo anno di università.
Oggi, che ahimé di anni ne ho più del doppio, mi pare che dirigere un piccolo esercito come la Sucai a ventun anni sia un’impresa tra la follia e l’onnipotenza. Eppure non ero affatto incosciente, a quel tempo, e riuscivo a dominare le responsabilità e la passione anche meglio di quanto sappia fare oggi, con l’esperienza e la moderazione della mezza età. Alla fine la pagai con un esaurimento nervoso, ma questa è un’altra storia.
Il corso di scialpinismo dell’inverno 1979 non fu né particolarmente facile né particolarmente fortunato. Cominciammo bene con una classica Pitre de l’Aigle nei pressi del Sestrière, ma poi ci arenammo in un impasto di neve-cemento sotto la Croix de Chaligne nella valle del Gran San Bernardo, e ci dibattemmo tra “boschina” e bufera verso il Colle della Bicocca, in alta Val Varaita, dove era sceso improvvisamente un turbine bianco. Già magro di mio, sembravo un fantasma che contava altri fantasmi.
Alla quarta uscita, la Testa della Garitta Nuova ancora in Val Varaita, riportammo a valle ben due feriti con la benedizione del nuovo gommone gonfiabile. Due gambe rotte in un solo giorno. Giù fino a Becetto con un allievo, e poi su di nuovo verso la cima a recuperare il secondo infortunato, un istruttore amato e sfortunato. Andrea Bruzzone si ricorda ancora ogni gobba, ogni increspatura di quel pendio per noi dolcissimo e illuminato dall’incredibile sole di fine febbraio.
Alla quinta gita perdemmo un pullman nelle nebbie della pianura cuneese, ma raggiungemmo ugualmente l’ardita Rocca dell’Abisso sopra Limonetto, mentre quindici giorni più tardi la nebbia non perdonò e ci toccò rinunciare alla cima del Mongioie, dopo l’interminabile viaggio per Viozene e prima della lunga discesa su Bossea. Ci rifacemmo in Valle Stura con la traversata della Collalunga, un cocuzzolo disegnato per gli sciatori alpinisti nel vallone dei Bagni, ma il destino ci aspettava in Val Formazza alla fine di aprile. Era scritto.
Quando salendo al Passo del Vannino alla testa di cento sciatori mi imbattei in un rarissimo gallo cedrone, animale mitico e possente, non seppi se interpretare l’apparizione come un segno di augurio o un presagio funesto. Feci finta di niente e continuai a salire.
Il primo giorno navigammo tra iceberg e marosi di ghiaccio fino alla cima della Punta d’Arbola e ritorno, in una luce indecifrabile da limbo dantesco. Tornammo felicemente al rifugio Mores, più soddisfatti che preoccupati, come succede nelle gite di più giorni. Mangiai in compagnia, bevvi del vino e cercai di rilassarmi, ma un tarlo mi rodeva. In un angolo del cervello avvertivo che i giochi erano apparecchiati per il terzo giorno, che prevedeva la traversata del Blindenhorn e la discesa sull’insidioso Griesgletscher, una specie di Mer de Glace in formato walser. Mare di ghiaccio, per chi non sa il francese.
Le previsioni parlavano chiaro: bel tempo fino a mezzogiorno e poi rapido peggioramento sulle Alpi, con nevicate nel pomeriggio.
«Ce la possiamo fare – concordammo la sera davanti a un piatto di minestrone –, basta che entro le dieci siano tutti su al colle, tassativamente entro le dieci, e chi non c’è lo facciamo tornare indietro.»
Oggi mi sembrano i proponimenti di Krakauer e compagni al colle Sud dell’Everest, ma noi eravamo ben più numerosi di Krakauer e compagni, e il Blindenhorn – razionalmente – faceva meno paura della Dea madre della Terra.
Sta di fatto che non chiusi occhio. Tirammo giù allievi e istruttori dalle brande a notte fonda, accelerammo i riti della colazione, forzammo l’andatura, incitammo con la radio il gruppo di chiusura, salimmo in vetta in pochi e, sotto i primi veli di nubi, ritornammo al colle come falchi. C’erano ancora il sole e due-tre ore di tempo clemente a disposizione, ma, dannazione!, gli ultimi gruppi non spuntavano mai dalla valle e la perturbazione avanzava, anzi ormai galoppava da ovest, puntuale come un orologio svizzero.
«Che si fa? Si va, non si va?»
Il Griesgletscher era ancora perfettamente visibile, piatto e sinuoso, e potevo spingere lo sguardo nella valle in basso, verde di primavera. Le nuvole alte e grigiastre uccidevano le nostre ombre sulla neve, ma quante altre volte ci eravamo mossi sotto quel cielo, e poi chissà quando saremmo ritornati lassù, alla fine del mondo, dove le Alpi sembrano un pezzo di Antartide? Cinque anni? Dieci? Forse mai.
«Andiamo» dissi per scaricare il peso insopportabile della decisione, e iniziai a scivolare verso il ghiacciaio seguito dai pochi che avevano compreso la situazione.
Tutti gli altri si avviarono desolatamente lenti sul pendio, chiacchierando, scherzando, tergiversando, irridendo la mia pena. Qualcuno scese con lo zaino ancora aperto, o chiuso alla meno peggio, lamentandosi perché non aveva potuto completare lo spuntino.
Cascammo in trappola come topi. Cento persone in fila indiana su un ghiacciaio piatto quanto l’Olanda, sotto una nevicata natalizia, brancolanti in una nebbia totale, assoluta, kafkiana. Ognuno seguiva il compagno che aveva davanti con la rassegnazione del naufrago, mentre il primo della fila brancolava nel nulla come un astronauta sperduto nello spazio.
Tutti smisero di parlare nello stesso istante e sul ghiacciaio calò un silenzio di tomba. Solo il fiato rappreso dei dispersi, ansia in forma di nuvole di vapore, il monotono strisciare delle solette degli sci e il ticchettio molesto dei chicchi di neve sulle giacche di nailon. Nient’altro.
Ore e ore di esercitazioni di topografia e di navigazione strumentale si infrangevano contro l’impotenza degli strumenti e di tutte le teorie, perché l’altimetro segnava sempre la stessa quota e la bussola traguardava soltanto spettri bianchi: oltre la punta degli sci ogni cosa era stata inghiottita da una cortina di latte senza luci, senza ombre, perfino senza rumori.
Non so se fu il fiuto o la fortuna a tirarci fuori dal Griesgletscher. Certamente fu l’ombra scura di una roccia – forse un sasso, forse una parete – che con un atto di fede quasi obbligatorio collegammo a un piccolo sperone indicato sulla carta in scala 1:25.000, proprio in direzione del passo del Gries. Puntammo allo sperone e scorgemmo delle impercettibili tracce di sci, così leggere da confondersi con un’allucinazione ma così umane da apparire come una liberazione. Avrei baciato quelle rotaie sperdute nella tempesta, che non solo ci portarono al colle delle nostre speranze, ma ci accompagnarono anche verso Bettelmat, il Lago di Morasco, le case di Riale, la maglia asciutta e le scarpe di ricambio.
Giunti alle auto ci contammo: non mancava nessuno.