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Lo stereotipo alpino


Se ci si domanda perché il romanzo di Johanna Spyri abbia avuto tanta fortuna nel mondo, al punto da rappresentare dall’Europa all’America al Giappone il mito della montagna, l’unico mito universalmente riconosciuto, non si può onestamente rispondere che il libro della Spyri sia un capolavoro, o che Heidi sia un personaggio letterariamente memorabile, e neppure che l’autrice abbia saputo dipingere in modo magistrale le Alpi e i loro abitanti. No, ci sono stati certamente autori molto più efficaci nel descrivere la misteriosa realtà dell’ambiente alpino (si pensi per esempio a Ramuz, svizzero anche lui, ma vero scrittore) e personaggi più riusciti della piccola Heidi, che in fondo è solo l’abbozzo di una figuretta per bambini, un’edificante icona infantile che sembra già destinata ai cartoni animati prima ancora che nascano il cinema e l’animazione.
La fortuna della Spyri e della sua ingenua creatura non va cercata nella complessità della trama o nella raffinata caratterizzazione dei protagonisti, bensì nell’esatto contrario: la semplificazione del messaggio e dello schema narrativo. Proponendosi di scrivere un libro per ragazzi in cui lo scopo pedagogico si coniugasse con la facile assimilazione del racconto, la Spyri è inconsapevolmente riuscita in un’impresa straordinaria, a tutt’oggi insuperata e probabilmente insuperabile: creare un mito leggibile e apprezzabile con i linguaggi di almeno tre continenti. Ciò che non era riuscito neppure alla leggenda eterna di Guglielmo Tell, eroe sì, ma soltanto per gli svizzeri e per la “vecchia” cultura mitteleuropea, è diventato possibile attraverso i gesti e le gesta della bambina di Dörfli, che non porta messaggi di redenzione e liberazione, ma si limita a incarnare lo stereotipo della buona pastorella fiduciosa in Dio, cresciuta con il latte delle pecore e l’acqua dei ghiacciai.
La storia di Heidi si basa sulla contrapposizione tra montagna virtuosa e città viziosa, l’antico paradigma della letteratura settecentesca. Il Settecento è stato il secolo chiave per la formazione dello stereotipo alpino: non ha solo sancito la supremazia delle capitali sulle periferie degli stati, dunque della città sulla montagna, ma è stato anche il secolo della scoperta illuminista e romantica delle Alpi, che paradossalmente, nonostante i successivi esiti di stampo colonialista, ha tratto ispirazione da una visione emancipata delle popolazioni alpine.
Fin dall’inizio il libero e buon “selvaggio” è contrapposto al cittadino corrotto:
«E voi, popolo felice, mai la stirpe nera dei vizi ha attecchito nei vostri animi – scrive lo svizzero Albrecht von Haller nel 1729, in un poema didattico (Die Alpen) che in cinquant’anni di fortuna raggiungerà l’undicesima edizione –, la natura vi è sufficiente con i suoi beni gratuiti… Nessun nemico si annida nei vostri petti, né mai il rimorso tardivo paga la gioia con il sangue; non vi sommerge nessun vortice di desideri sfrenati, contro cui la ragione ostenta vani insegnamenti… Costante è la vostra vita, e naturale così la morte».
E Rousseau rincara nel 1761 con le lettere a Julie ou la nouvelle Héloïse:
«Avrei trascorso tutto il viaggio immerso nell’incanto del paesaggio, se il commercio della gente (delle Alpi) non me ne avesse offerto uno anche più dolce… Non è possibile immaginare la disinteressata umanità, la premurosa ospitalità per lo straniero che il caso o la curiosità conducono tra loro… Tutti accorrevano con tale premura a offrimi la propria casa che non sapevo quale scegliere. Sono così disinteressati che in tutto il viaggio non ebbi modo di spendere un solo scudo».
Da pattumiera del mondo fisico, da lascito informe e reietto del diluvio universale, in pochi decenni le Alpi sono promosse a oggetto delle indagini illuministe e a rifugio della spiritualità romantica. Da un lato gli scienziati iniziano una capillare opera di esplorazione del territorio alpino per fare luce sull’origine dei fossili, sulla nascita dei fiumi e sulle teorie leggendarie dei ghiacciai, risolvendo contemporaneamente molti problemi cartografici, dall’altro lato gli uomini d’arte e di lettere influenzati da Haller e da Rousseau cominciano a rovesciare la visione negativa delle alte quote, scoprendo nei luoghi malfamati del passato il segno del bello e del sublime. Le cascate e i ghiacciai alpestri diventano ricercate mete di escursioni, destando la meraviglia dei viaggiatori e impreziosendo con i loro “deliziosi orrori” i taccuini dei borghesi e degli artisti che hanno la ventura di addentrarsi nelle vallate.
All’inizio dell’Ottocento l’interesse per l’ambiente alpino si spinge fino al punto da indentificarsi con l’invenzione letteraria, come nel capolavoro romantico di Mary Shelley, Frankenstein, che si avventura tra i crepacci della Mer de Glace:
«Il silenzio solenne di questo magnifico salone delle udienze di Sua Maestà la Natura era rotto solo dal rumoreggiare delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l’opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e si spaccavano come fossero stati giocattoli nelle loro mani. Queste scene sublimi e magnifiche mi donarono tutto il conforto che potevo ricevere…».
La descrizione romanzesca sembra coincidere con il racconto autobiografico di una vacanza sulle Alpi, inesauribile fonte di emozioni scaturite dalla solitudine, dalla verticalità e dal mistero delle vette. Le cupe bellezze che fino a pochi decenni prima mettevano in fuga i montanari e tenevano lontani i cittadini, si sono trasformate in rimedi dell’anima.
Dunque la creatrice di Heidi, nel 1880, non fa altro che applicare il mito nato cent’anni prima dai turbamenti del Romanticismo e assestatosi attraverso un secolo di Grands Tours, i fantastici viaggi tra colli e ghiacciai di cui ogni intellettuale ottocentesco dotato di un minimo spirito di osservazione ha lasciato almeno un’ode o un frammento di diario. Ma la vicenda della pastorella di Dörfli è così esemplare, così convincente, così didascalica che il mito sembra inventato ex-novo per i giovani animi di fine Ottocento, certamente più disincantati e meno colti dei loro bisnonni, ma ugualmente bisognosi di uno sfondo edificante, potremmo azzardare di un alibi romantico, nel momento in cui si apprestano a “riconquistare” le Alpi con la villeggiatura e il turismo. Heidi nasce nel preciso momento in cui il mito delle Alpi avverte la necessità di una consacrazione popolare, per scivolare dalle fragili vette della poesia nelle solide braccia del mercato promozionale turistico.
Nel 1864, quattordici anni prima che Heidi venisse concepita, l’albergatore Badrutt di St. Moritz propose ai suoi affezionati ospiti estivi di provare un soggiorno invernale nell’ormai nota località di villeggiatura dell’Engadina. Promise loro che, se non avessero gradito il soggiorno, sarebbero stati ospitati gratis per tutto il periodo corrispondente al presunto disagio. Aggiunse che quando splendeva il sole, d’inverno a St. Moritz faceva così caldo che si poteva girare in maniche di camicia. Quattro impavidi turisti vollero provare e scoprirono sulla propria pelle che Badrutt aveva ragione. Uno di loro annotò entusiasta sul registro degli ospiti:
«In media siamo stati fuori quattro ore al giorno, camminando, pattinando sui laghi, andando sullo slittino o rimanendo seduti a leggere in terrazza. Abbiamo anche pranzato in terrazza… A St. Moritz mi sono sentito molto più forte alla fine dell’inverno che all’inizio».
È la conferma che il mito benefico delle Alpi si era già esteso a tutte le stagioni, tanto che nel 1866 A. W. Moore, celebre alpinista e aristocratico membro del Club alpino inglese, scrisse sull’Alpine Journal:
«Credo che in inverno le Alpi, per il turista dilettante che in tutta sincerità considera che salire sulla cima di una montagna sia un errore, offrano altrettante grandi attrattive che per l’entusiasta al quale l’alpinismo puro e semplice interessa di più che il pittoresco… A condizione che il tempo sia buono, sono convinto che tutti coloro che vogliano tentare l’esperimento torneranno, come ho fatto io, ansiosi di ripeterlo a ogni occasione».
Moore fu un buon profeta. Dieci anni più tardi, dunque giusto quattro anni prima della nascita di Heidi, St. Moritz vantava già più di trecento visitatori nella “cattiva” stagione. Che non era più considerata cattiva, tanto che i turisti crebbero in modo esponenziale e, dopo il mito settecentesco delle Alpi «pittoresche e sublimi», alimentarono un nuovo mito: quello della «meravigliosa ed eccitante» montagna innevata.
Ma ascoltiamo Heidi dopo il primo giorno passato al cospetto dell’alta montagna:
«Raccontò dello splendido ghiacciaio che al tramonto era diventato di fuoco, prima, poi di color rosa per scolorire infine nel grigio.
“Conosco anche quello” replicò il nonno. “È il Chesaplana. Dunque ti è piaciuto, lassù al pascolo.”
Heidi si lanciò nella descrizione della giornata, disse che tutto era stato splendido, ma quello che più l’aveva colpita era stato il divampare dei colori, al tramonto, come un immenso incendio.
“Da dove viene quel fuoco, nonno? Peter non ha saputo spegarmelo.”
“Ecco, è un effetto del sole. Per dare la buonanotte alle montagne, manda loro i suoi raggi più belli perché non lo dimentichino, durante la notte.”
Heidi, entusiasta, avrebbe voluto che presto fosse di nuovo sera per dare la buonanotte alle montagne in quel trionfo di colori. E invece era ora di andare a dormire.
E dormì per tutta la notte nel suo letto di fieno, profondamente, sognando monti rossi e rosa in mezzo ai quali la capra Bianchina zampettava, felice».
Nel 1880 Johanna Spyri è solo un’inconsapevole complice di quel complesso passaggio culturale che dal mito romantico delle Alpi andrà a sfociare nell’industria turistica, ma nel suo sforzo pedagico rivolto alle nuove generazioni trova il modo di rappresentare l’ambiente alpino esattamente secondo le immagini, o i miti, che il pubblico (il grande pubblico), in quel preciso momento, si aspetta da lei o da qualche altro inteprete della tradizione alpestre.
La protagonista della sua storia incarna l’animo puro e incantato della natura in contrapposizione alla cultura tortuosa e fallace della ricca famiglia di Klara Sesemann, alter ego borghese di Heidi, triste fanciulla di città costretta da anni sulla sedia a rotelle. La malattia di Klara è diretta (anche se non dichiarata) conseguenza dell’aria viziata di Francoforte (da cui non si vedono neppure le montagne), sede del potere economico e finanziario tedesco, mentre le gote rosse di Heidi anticipano il valore taumaturgico dell’aria delle Alpi che guarirà l’inferma.
Anche l’austero Nonno, colpito molto tempo prima dalla tragedia familiare, reso arido dal senso di colpa, incapace di comunicare con la bontà spontanea della nipote, viene infine riscattato dalla generosità che il mito riconosce, fin dai tempi di Rousseau, agli animi semplici cresciuti sotto il libero cielo.
«La contrapposizione tra la natura e la società umana – ha notato Annibale Salsa (Il mito delle Alpi, Cipra, Igls 1996) – viene rappresentata allegoricamente nell’antitesi tra l’universo virtuoso (la Natura educatrice) e l’universo vizioso (la Società corrotta). La montagna alpina acquista il significato sublime di un topos liberatorio dalle nevrosi del moderno ambiente urbano. La grande borghesia illuminata, attivissima nel milieu ginevrino, completerà la metamorfosi degli orientamenti di valore integrando l’interesse scientifico con le nuove modalità del gusto e del costume… La popolazione alpina osserva sbigottita la corsa alla montagna come espressione di una nuova febbre dell’oro».
Così, proseguendo nella lettura del romanzo della Spyri con la tecnica delle antitesi, troviamo il povero cibo montanaro (latte e formaggio, perlopiù) contrapposto al ricco desco della famiglia Sesemann, il letto di paglia di Heidi e i morbidi cuscini di Klara, la rustica baita di legno e i saloni stuccati di Francoforte, le preziose conquiste del lavoro contadino e la scontata dovizia dei beni di città, su cui la rigida cultura protestante interviene comunque con l’arcigna, e talvolta comica, intransigenza dei precettori e dell’inflessibile governante Rottenmeier.
«D’improvviso Heidi ricordò che era a Francoforte e ricordò anche le istruzioni della governante. Allora saltò giù dal letto e fece toilette. Si avvicinò prima a una finestra, poi all’altra per godere la vista del cielo, del sole, ma le tende gielo impedirono, non riusciva a tirarle. Vi strisciò dietro come poteva, e qui l’aspettava un’altra delusione: il davanzale era così alto che lei lo sfiorava appena con la testa. Riuscì a dare una sbirciatina e quello che vide la piombò nella desolazione: muri e altre finestre, finestre e muri.
L’ansia le strinse la gola. Come un uccellino chiuso per la prima volta in gabbia corse qua a là, avida di libertà. Tentò più volte di aprire una delle finestre: voleva guardare dabbasso. Ci doveva pur essere da qualche parte un po’ di verde, qualche fiore, qualche chiazza di neve non ancora sciolta!».
Ed ecco, per contrappasso, le parole di Klara dopo la salita all’alpe:
«“Quanti fiori! Interi cespugli di fiori rossi, e là quelle campanule che si dondolano alla brezza”.
Heidi scappò via per tornare quasi subito con un gran mazzo variopinto tra le braccia che depose sul grembo di Klara.
“E questo è niente!” esclamò. “Dovresti vedere il pascolo! Lassù ci sono centauree rosse, campanule più belle e grandi di quelle che crescono qui e roselline selvatiche a migliaia, gialle, che scintillano come oro puro, rose più grandi con bei petali che sembrano di velluto e occhi di sole, quei fiorellini tondi e scuri che profumano, oh come profumano! Quando ci si siede, su al pascolo, è così bello che non si vorrebbe mai andar via”.
Heidi parlava con tanto calore, tanta convinzione, da affascinare Klara che l’ascoltava con aria rapita, lo sguardo sognante».
Il quadro è corredato da tutti quei dettagli che meglio rappresentano lo stereotipo alpino: i fiori alle finestre, la verde valle, i liberi uccelli del bosco, il profumo del legno, i bianchi ghiacciai, i sani principi contadini, la magia delle stagioni, i ritmi lenti dell’inverno, l’arcobaleno dei colori estivi. Ma dietro la scontata conclusione a lieto fine, infarcita di riscatti esistenziali, una condizione resta immutabile: la povertà (anche culturale) della montagna contrapposta alla ricchezza (anche intellettuale) della città. In altre parole alla montagna sono riconosciute le virtù morali, ma la supremazia politica ed economica resta saldamente in mano alla città.
Al piccolo Peter, colpevole per gelosia di aver distrutto la carrozzella di Klara, l’anziana signora Sesemann domanda generosamente e in buona fede:
«Vorrei lasciarti un ricordo. C’è qualcosa che vorresti avere?».
«Vorrei una moneta da dieci centesimi» risponde il ragazzo.
«Frugò nella borsa, ne trasse una lucente, grande moneta da un tallero e due, piccole da dieci centesimi e disse: “Adesso facciamo un po’ di conti. Questo denaro equivale a tante monetine da dieci centesimi quante sono le settimane dell’anno. Potrai spenderne una per ogni settimana”.
“Finché vivrò?” chiese Peter avidamente.
“Ma certo figliolo! Scriverò un’aggiunta al mio testamento: a Peter, guardiano delle capre, una moneta da dieci centesimi per tutta la sua vita”».
Questo è l’unico riscatto concesso alla montagna: la sovvenzione della gente di pianura, che è stata guarita ma – dichiarando riconoscenza e rimpianto – mantiene saldi il controllo e il potere. La montagna è solo retoricamente libera.