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L’immagine delle Alpi: evoluzione di un mito

Atti del convegno organizzato dal Comitato scientifico Ligure-Piemontese del Club Alpino Italiano, Torino 25-26 ottobre 2008

Le scienze storiche e sociali delle Alpi sono figlie del Romanticismo, o meglio del diciottesimo secolo, ma si sviluppano solo nel Novecento, sulla scia degli studi di Coolidge e dei primi etnografi. Si può dire che le scienze storiche e umane siano figlie delle altre scienze, ma con più di un secolo di distacco.
Come noto, l’interesse dei cittadini per le terre alte nasce nel Settecento, quando il fenomeno artistico della scoperta del “sublime” si intreccia con l’esplorazione scientifica voluta dai nuovi stati-nazione dopo Utrecht, allo scopo di definire quei confini-spartiacque che prima non avevano nessun significato politico («A ogni stato le acque che vi scendono»).
Si può partire proprio dai sette ragazzi di Gressoney (1778):
«A misura che si avanzava, scrive il Beck, l’aria si faceva sempre più rarefatta e questo oltre a darci dei dolori di testa ci rendeva il respiro affannoso e difficile per cui dovevamo fare delle frequenti fermate per ingerire degli alimenti atti a tonificare il nostro organismo debilitato. Ma lo stomaco rifiutava qualsiasi cibo e solo il pane e le cipolle erano vivande che ci appetivano…».
Il racconto ingenuo rende l’idea delle (scarse) conoscenze dell’alta quota, e anche dello spirito con cui i montanari, in questo rarissimo caso, affrontavano l’ignoto. Sono ancora assenti sia le motivazioni alpinistiche che quelle scientifiche, e l’avventura nasce a mezza via tra il gusto di scoprire (il futuro) e una non ben definita nostalgia per il passato dell’epopea walser, precisamente per quella Valle dei padri che – anche biblicamente – coincide con il mito del Paradiso perduto.
Recenti ricerche storiche si sono rivolte proprio al fenomeno della “scoperta” delle Alpi, propendendo per le motivazioni romantiche negli studi risalenti agli anni Ottanta (primo tra tutti Philippe Joutard ne “L’invenzione del Monte Bianco”, 1986) e in seguito recuperando il senso e la forza della scienza nei confronti dell’arte (Marco Cuaz, articoli vari; Marco Ferrazza: “Il Grand Tour alla rovescia”, 2003).
La prima interpretazione, ben sintetizzata da Paola Giacomoni ne “Il laboratorio della natura” (2002), sfocia in una prevalenza delle lettere e dell’arte, da quando – come scrive la Giacomoni stessa – i colti amanti del Grand Tour cominciarono ad aprire le tende delle carrozze e scoprirono il paesaggio dell’alta montagna.
La seconda interpretazione implica connessioni politiche di più larga scala, perché l’interesse dei cartografi, dei geologi, dei glaciologi e dei fisici è fortemente motivato, anche economicamente, dalle necessità degli stati-nazione di studiare le creste, i colli, le montagne poste sulla nuova linea di confine, allo scopo di conoscerle per difenderle.
Da entrambe le strade si arriva al turismo e all’alpinismo. Turismo e alpinismo sono figli della “scoperta”, sia essa artistica o scientifica, e spesso l’alpinismo è motore diretto di quell’industria dei forestieri che trasformerà l’economia alpina. Il caso del Matterhorn/Cervino (luglio 1865) è emblematico: si sale da un lato per ragioni esplorative e dall’altro per motivazioni di patria e di campanile, ma i veri “vincitori” sono gli albergatori di Zermatt e del Breuil. Marco Cuaz ha dedicato un libro importante alla nascita del turismo in Valle d’Aosta, spiegando i meccanismi che sottostanno alla scoperta e alla valorizzazione (“Valle d’Aosta. Storia di un’immagine”, 1994).
Credo che la vera novità degli studi storici di fine Novecento, certamente influenzati e favoriti dagli studi antropologici, stia in una complessità dello sguardo che non si ferma ai protagonisti e agli eventi, ma cerca di capire e spiegare le motivazioni profonde che li precedono. Per far questo occorre separare con forza il punto di vista dei cittadini (turisti, alpinisti, imprenditori) da quello dei montanari, scrivendo per così dire due storie parallele, o meglio complementari. Bisogna imparare a leggere le Alpi come un mondo storicamente “aperto” alla città, e non come una terra chiusa, separata e distante. In altri termini, bisogna recidere i lacci romantici.
All’inizio del Novecento, gli studiosi definivano le Alpi «musei di antichità sociale» (Ellen Semple, 1911) o «un meraviglioso luogo di conservazione» (Robert Hertz, 1913). Che si trattasse della visione idillica risalente ad Albrecht von Haller («Distanti dal vacuo affanno degli affari, e dal fumo delle città, essi vivono in pace…», 1729), oppure dello sguardo colonialista degli alpinisti («Lo spettacolo di tanti esseri cretiniformi è tale da disgustare lungamente della specie umana», Felice Giordano, 1864), si voleva con tutta l’anima che le Alpi restassero un mondo a parte, isolato, incontaminato, “altro”.
Profondamente influenzato dal dogma romantico, lo sguardo sulle Alpi – che è sempre sguardo di città – perpetua per buona parte del Novecento la visione di un universo a se stante, anche quando quello stesso mondo si sgretola sotto la pressione della cultura consumistica urbana, e i montanari sono costretti a scendere in fabbrica lasciando paesi abitati solo da ricordi. Nel 1972 il fotografo-etnografo biellese Gianfranco Bini dà alle stampe l’album di immagini Lassù gli ultimi, immortalando i tradizionali modi di vivere della società contadina della Val d’Ayas. Molti si illudono che il libro rappresenti il grido di una civiltà minacciata, ma in realtà quella di Bini – pur altamente meritoria – è la ricostruzione di un ambiente che non esiste più.
Passano altri anni e finalmente gli studiosi delle Alpi sono maturi per un salto di qualità. Il Sessantotto degli studi antropologici alpini arriva con circa vent’anni di ritardo, ma è determinante nel cambio di prospettiva. Harriet G. Rosenberg spiega che una comunità come quella di Abriès, nel Queyras, rispose all’egemonia dello Stato nazionale francese con inedite strategie di resistenza e autorappresentazione (“Un mondo negoziato”, 1988) e Pier Paolo Viazzo dimostra che la povertà e l’autoreclusione delle valli sono solo miti del passato, perché il grado di istruzione delle terre alte era spesso così elevato che la montagna imprestava i precettori alla pianura (“Comunità alpine”, 1989). Crollata la visione di un mondo alpino chiuso, succube e ignorante, si scopre che i montanari seppero viaggiare, negoziare e soprattutto imparare dalla città, importando nelle valli quelle visioni e quei saperi che, opportunamente elaborati, hanno permesso alla civiltà alpina di raggiungere risultati soprendenti in fatto di architettura, arte e cultura. Come ha successivamente confermato lo storico Jon Mathieu, le Alpi non vanno viste come un mondo contrapposto o alternativo alla pianura e ai centri politici ed economici europei (“Storia delle Alpi 1500-1900. Ambiente, sviluppo e società”, 1998), ma piuttosto come un luogo da sempre abituato alle “contaminazioni virtuose”, cioè agli scambi tra il basso e l’alto, e viceversa.
Su questa premessa si sviluppano le nuove ricerche storiche.
Nel campo dell’alpinismo c’è un prima e un dopo Motti. Il prima si chiama soprattutto Claire-Eliane Engel, con un corposo studio storico penalizzato dai sentimenti antigermanici dell’autrice, ma arricchito delle conoscenze letterarie (1950). La “Storia dell’alpinismo” di Gian Piero Motti (1977) è sicuramente figlia della cultura romantica, ma si pone il problema di criticarla e superarla, se possibile. Motti distingue nettamente l’alpinismo dei cittadini da quello dei montanari, senza nascondere le nevrosi degli uni e i limiti degli altri. Senza aprirsi ancora a una visione sociale della storia alpinistica, riesce a definire con successo le connessioni tra chi scala e chi fa la Storia, quella vera, aprendo la via a studi sempre più liberi dall’agiografia e dallo stereotipo.
Nel campo della storia delle Alpi c’è un prima e un dopo Guichonnet. Il prima risale a opere pionieristiche come “Le Alpi nella natura e nella Storia” di William Augustus Brevoort Coolidge, oppure a trattati di geografia come “Les Alpes Occidentales” di Raul Blanchard (1938-56) e “Le Alpi” di Giotto Dainelli (1963). L’opera collettiva “Storia e civiltà delle Alpi” a cura di Paul Guichonnet (Univ. di Ginevra, 1980) apre le porte a una lettura corale e multidisciplinare del divenire storico, fisico, geografico, etnografico e antropologico. Dopo tanti studi settoriali, finalmente l’universo alpino trae vantaggio da una visione complessa, che di lì a poco potrà definirsi “europea”.
Il seguito è fatto di lavori più individuali ma di rinnovato profilo, soprattutto dal punto di vista della storia sociale.
Le ricerche sulla preistoria alpina, frenate da limiti di specializzazione territoriale e tecnica, prendono respiro sotto l’impulso di antropologi come Francesco Fedele (Univ. di Napoli), di ritrovamenti come la “mummia del Similaun” e di rappresentazioni come quella del Museo archeologico dell’Alto Adige, dove si può leggere l’evoluzione del montanaro delle Alpi dalla preistoria al medioevo, in un unico processo evolutivo.
Sempre sulla scia delle aperture antropologiche, si sviluppano studi sull’emigrazione alpina, con il confronto di antropologi (Raul Merzario, Dionigi Albera) e storiche (Patrizia Audenino e Paola Corti, Univ. di Torino). Il tema delle emigrazioni diventa cruciale per definire i movimenti stagionali tra montagna e pianura, e la crisi definitiva della civiltà alpina illustrata da Nuto Revelli ne “Il mondo dei vinti” (1977).
Anche la collaborazione tra geografia e storia apre nuove prospettive di ricerca: per esempio lo studio di Giuseppe Dematteis sulle “città delle Alpi” (1975), che prende spunto da Utrecht e dalla formazione degli stati-nazione per ridefinire il ruolo delle città-cerniera all’interno dell’arco alpino. Anni dopo (1984) è indubbio il contributo di Werner Bätzing e del suo “Ambiente alpino” nell’analisi per un’ecologia complessa della contemporaneità.
Se il lavoro di Guichonnet e dei suoi collaboratori ha risolto molti problemi in tema di società alpine, e molto altro hanno fatto gli antropologi negli anni a venire, la storia sociale e associazionistica dell’alpinismo è rimasta a lungo limitata alla sensibilità di alcuni studiosi (per esempio Massimo Mila nei “Cento anni di alpinismo italiano”, 1964). Sempre, negli studi interni alla materia, è prevalsa la visione individualistica dell’“eroe” o del campione, in gran parte slegata dal periodo storico e dal contesto sociale di riferimento. Quasi sempre gli alpinisti hanno raccontato ad altri alpinisti la propria “storia”, tollerando al massimo l’ingerenza dei divulgatori-storici-alpinisti, tra cui Dino Buzzati, lo stesso Mila, lo stesso Motti.
La visione cambia sul finire del Novecento, anche se in modo abbastanza sporadico e sparso. Alcuni studiosi, più storici che alpinisti, iniziano a indagare i rapporti tra alpinismo e società, alpinismo e guerra, alpinismo e regimi, alpinismo e Chiesa cattolica. Ne esce un quadro molto diverso della montagna e dell’andar per monti, dove le motivazioni ideologiche e di gruppo prevalgono su quelle personali, e dove i significati indotti sono molto più importanti di quelli interiori. In un certo senso si capovolge la mitologia dell’alpinismo.
Tra gli studi più recenti si possono ricordare Michel Mestre con “Le Alpi contese. Alpinismo e nazionalismi” (2000), Alessandro Pastore con “Alpinismo e storia d’Italia” (2003), che si spinge fino alla Resistenza, ancora Cuaz con “Le Alpi” (2005), che approfondisce soprattutto la simbologia eroica e di patria nata con la Grande Guerra, Marco Mondini con “Alpini, parole e immagini di un mito guerriero” (2008), Andrea Zannini con “Tonache e piccozze. Il clero e la nascita dell’alpinismo” (2004), nonché le analisi sull’associazionismo alpinistico piemontese di Giuseppe Garimoldi e quelle sull’associazionismo religioso di Cuaz. Non ultimi, anche se più circoscritti territorialmente, i corposi lavori di Enrico Rizzi sulla storia dei Walser (1981, 1992).
Infine gli storici si interessano alle Alpi contemporanee, usufruendo dei suggerimenti demografici dei geografi (Bätzing, Debarbieux, Bartaletti) e delle indagini degli antropologi (Sibilla, Viazzo, Albera, Aime, Allovio, eccetera). Le riflessioni sulla storia del presente sono influenzate dagli studi sui cambiamenti climatici (Mortara, Mercalli, Cat Berro) e dal nuovo quadro politico europeo, dove le Alpi si delineano come una possibile spina dorsale o cintura verde del continente. Luigi Zanzi pubblica nel 2004 “Le Alpi nella storia d’Europa”. Due anni prima il sottoscritto ha affrontato il tema ne “La nuova vita delle Alpi” (Camanni, 2002).
Ci si può chiedere quale sarà il prossimo obiettivo degli studi storici alpini. Credo che sia il momento di confrontare e mettere insieme le materie e i punti di vista, per tentare la ricostruzione corale di un divenire complesso e ad almeno due sensi di marcia. Se per esempio si riuscirà ad accostare la storia dell’alpinismo e la storia delle popolazioni, nasceranno spunti e novità di sicuro interesse. Se si tenterà di incrociare i fenomeni sportivi e le motivazioni sociali, verranno altre suggestioni. Se, su un piano diverso, si proverà a studiare la crisi della civiltà alpina nel quadro della crisi globale del capitalismo avanzato, che – superando il vecchio “confine” culturale – coinvolge montagna e città insieme, probabilmente si fugheranno gli ultimi stereotipi per far luce su quello che ci aspetta.

Il caso: Le Alpi uniscono o dividono?
Perché, ci si chiede novant’anni dopo la fine della Grande Guerra, i comandi italiani e austriaci furono così ottusi e crudeli da mandare i loro ragazzi a combattere per un pezzo di pietra, sapendo che lo spuntone di una cresta è più inespugnabile di un castello medievale e che, anche se conquistato, un torrione di calcare non serve a niente e a nessuno, perché inabitato e inabitabile in tempo di pace? Centottantamila uomini morti per dei pezzi di roccia inutile.
La risposta va cercata molto più lontano, nello spazio e nel tempo, risalendo al significato di quelle chiuse medievali che, controllate da torri più che da castelli, servivano a riscuotere i dazi e a fermare il passaggio degli indesiderati nei punti in cui le valli si stringevano, offrendo una difesa “naturale”. Alcune di quelle strettorie, in età moderna, videro la sostituzione delle torri in castelli e poi in forti, come accadde per esempio a Bard, all’imbocco della Valle d’Aosta. Nel 1800 gli strateghi di Napoleone superarono a fatica lo sbarramento della rocca di Bard, aggirando il forte con le truppe leggere e foderando nottetempo le ruote dei carri con la paglia per ingannare il presidio. Napoleone distrusse successivamente tutti i forti alpini piemontesi tranne la muraglia di Fenestrelle in Val Chisone, ma gli architetti di casa Savoia li ricostruirono negli stessi posti a dimostrazione che, in pieno Ottocento, i militari ritenevano ancora fondamentale la difesa delle basse e medie vallate, là dove la natura aveva suggerito il luogo in cui asserragliarsi per puntare i cannoni contro il nemico.
Era naturalmente un errore di prospettiva, frutto di miopia storica, perché nel frattempo il mondo era cambiato. Erano cambiate (e continuavano a progredire) le armi da assalto, che con l’aumento di gittata, potenza e precisione costringeranno le fortificazioni a salire sempre più in alto, rintanandosi fino a scomparire nella pancia delle montagne, ed era cambiato soprattutto il concetto di frontiera:
«Un’ulteriore provocazione della modernità nei confronti del territorio alpino – scrive l’antropologo Annibale Salsa ne “Il tramonto delle identità tradizionali” (2007), riassumendo una posizione largamente condivisa tra la fine del Novecento e il nuovo secolo – è stata quella di erigere la linea spartiacque, cioè il paradigma idrografico, a fondamento delle società alpine, quando per secoli il fattore caratterizzante della civiltà delle Alpi è stato il paradigma etnografico, per quel ruolo di cerniera che la catena alpina svolge tra versanti contigui…
Ci troviamo così a riflettere su quello che mi piace definire “l’errore di Cartesio”: la geometrizzazione dello spazio geografico, a scapito della plasticità antropica e sociale. Il dogma della cosiddetta ligne de partage des eaux (linea di spartiacque) attraversa i secoli influenzando le scienze geografiche e la geopolitica. Lo spartiacque diventa il punto che delimita lo spazio certo (oro-idrografico) dallo spazio incerto (socio-etnografico)».
Dunque le Alpi, che a partire dal Settecento vengono promosse a sbarramento e confine dei nuovi stati, diventando simbolo di frontiera, si portano dentro i segni e i significati storici di vicinanze e separazioni ben più sfumate e sofferte, con ripetuti esempi di “contaminazione” culturale e linguistica, incorporazione di tecniche e condivisione di stili di qua e di là dei crinali. Basti pensare alla transumanza che, eludendo lo spartiacque, barattava con i poteri locali l’uso dei pascoli più favorevoli nelle varie fasi dell’estate. Oppure ai commerci, che vedevano degli specialisti come i Walser di Gressoney dirigersi oltre il Monte Rosa con le loro stoffe, in terra «straniera» e «sconsacrata», poiché sedotta dalla dottrina protestante.
Eppure le Alpi sono oggi (come dimostra la spinosa questione dei transiti internazionali), e sono sempre state, barriera naturale tra un versante e l’altro, ostacolo per i pellegrini, i commercianti e i soldati, separazione visiva, oltre che fisica, per chi osserva l’arco alpino dalla pianura. Le Alpi hanno spezzato in due parti le ambizioni dell’Impero romano, le Alpi hanno ostacolato la marcia di Annibale, le Alpi hanno costretto a faticose peripezie i cultori del Grand Tour. Se si legge la storia dal punto di vista esterno, delle città o delle pianure, la suggestione delle Alpi-cerniera si scontra con il più urgente, e storicamente presente, problema delle Alpi-barriera.
Dopo la bombardante propaganda dei regimi sul ruolo delle Alpi e degli Alpini a baluardo dei confini, dopo la successiva scoperta della funzione di mastice delle montagne per popolazioni accomunate dagli stessi punti di vista, oggi alcuni storici come Giuseppe Sergi (“Alpi da scoprire”, 2008) ridimensionano la visione univoca delle Alpi-cerniera e ci mettono in guardia dal pericolo di facili generalizzazioni:
«Gli uomini del passato antico e recentissimo (con la mentalità sociale allargata, la religiosità, le decisioni politiche di vertice) hanno via via scoperto/pensato l’ambito alpino in modo diverso e con diverse estensioni. Agli estremi si pongono i monaci medievali di Cluny, spaventati dal transito alpino (e che concepivano le Alpi solo come un sistema di crinali ostici e di valichi agevolanti, pronti a sentirsi già fuori dalle Alpi quando arrivavano a Susa) e le recenti Olimpiadi che, propagandisticamente ma con qualche buona ragione, hanno considerato “Alpi” anche Torino».