Pubblicazione

Le parole della vertigine


Data la specificità della materia, riesce un po’ difficile collocare la cosiddetta “letteratura dell’alpinismo” in un discorso sulla scrittura popolare. Di alpinismo scrivono solo coloro che fanno esperienza alpinistica, e generalmente – a eccezione dei diari e dei taccuini personali, in gran parte inediti, e fatta salva quella scrittura molto specifica che attiene ai libri di vetta e ai libri di rifugio – essi si rivolgono ai propri pari, vale a dire agli altri alpinisti, ai compagni di cordata, agli appassionati che conoscono la montagna e ne condividono la spinta ideale. Dapprima assai elitaria (nell’Ottocento), poi via via più popolare (dopo la Grande guerra), la “letteratura” o scrittura di alpinismo è sempre rimasta confinata in un circuito iniziatico, che proprio in quanto tale si è nutrito di parole e immagini assai stereotipate. L’obiettivo primario del racconto di ascensione non è il raggiungimento di un soddisfacente respiro letterario, bensì la comprensione e il coinvolgimento degli altri alpinisti.
Per inquadrare la “letteratura dell’alpinismo” in un giusto contesto storico bisogna partire dalla scoperta delle montagne, che è sempre una scoperta di città.
Nel tardo medioevo, precisamente il 24 aprile 1336, Francesco Petrarca decide di salire il Mont Ventoux, che domina la Provenza. La sua “Lettera del Ventoso” può essere considerata il primo compiuto récit d’ascension della storia, anche se il Petrarca non ha alcuna velleità alpinistica e il Mont Ventoux è già stato probabilmente salito anni prima dal filosofo francese Giovanni Buridano. Quello di Petrarca è un viaggio puramente interiore, che utilizza la montagna come luogo di meditazione e non certo come terreno di conquista. Non a caso, sulla vetta, il poeta si sofferma sulle parole di Sant’Agostino:
«“E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi corsi dei fiumi e l’immensità dell’oceano e le rivoluzioni degli astri, ma trascurano sé stessi”. Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello di non disturbarmi, richiusi il libro, irato con me stesso per l’ammirazione che tuttora dimostravo per le cose terrene».
Per Petrarca la montagna non rappresenta nulla in quanto tale, se non una porta socchiusa verso il sublime. E meno ancora rappresenterà per i teologi di scuola protestante che, nei secoli successivi, vi individueranno addirittura il lascito del diluvio universale. Scrive Gilbert Burnet tra il 1685 e il 1686:
«… (queste montagne) non possono essere il prodotto originario dell’Autore della Natura, non possono essere altro che rovine del primo mondo… A cosa servono in fondo le montagne? Se si potessero sopprimere cosa perderebbe la natura se non un peso che grava inutilmente sulla Terra?».
All’alba del Settecento, i geologi inviati dagli Stati a studiare le Alpi non lasciano ancora trapelare la minima simpatia per le cime e i ghiacciai, ma cominciano a dubitare che le montagne siano l’apocalittica eredità del diluvio. Lo spirito illuminista “addormenta” gli antichi tabù delle cime e spinge cartografi, fisici, geologi e botanici nelle valli e sui colli. È la prima scoperta. Ma perché le Alpi diventino qualcosa di pìù di un oscuro oggetto di studio da “maneggiare” con sospetto e cautela, serve un salto di qualità culturale, serve una nuova visione, servono gli occhi inquieti dei viaggiatori e degli scrittori romantici.
A iniziare dall’Inghilterra, che conosce da più tempo i fumi e il rumore delle fabbriche, i borghesi colti cominciano a stigmatizzare i limiti dell’urbanizzazione. Le città chiassose e inquinate sono viste come la nuova Babilonia, mentre i rozzi abitanti dei luoghi allo stato “naturale” (le Alpi, innanzi tutto) diventano i simboli dell’innocenza e delle virtù perdute:
«Avrei trascorso tutto il viaggio immerso nell’incanto del paesaggio – scrive Jean-Jacques Rousseau dopo la metà del Settecento –, se il commercio della gente non me ne avesse offerto uno anche più dolce… Non è possibile immaginare la disinteressata umanità, la premurosa ospitalità per lo straniero che il caso o la curiosità conducono tra loro… Tutti accorrevano con tale premura a offrirmi la propria casa che non sapevo quale scegliere. Sono così disinteressati che in tutto il viaggio non ebbi modo di spendere un solo scudo».
Dal sentimento classico dell’arcadia, quando l’aratro era considerato il redentore della natura, il viaggiatore settecentesco passa a una progressiva valorizzazione della natura incontaminata, dei silenzi e degli spazi su cui non è ancora calata la mano civilizzatrice dell’uomo. In termini moderni, nasce il sentimento della “wilderness”.
La percezione estetica evolve dal “pittoresco” al “sublime”. Dalla bellezza classica regolata dall’ordine e dall’armonia, si sfocia in una nuova idea di bellezza non più intrinseca nell’oggetto, ma affidata agli occhi dell’osservatore. Così anche il disordine acquista dignità e anche l’orrido diventa “bello”. La nuova soggettività trasforma l’approccio al paesaggio, alla natura e al viaggio. Le montagnes maudites, le cime maledette che rappresentano le ultime isole inesplorate nel cuore del continente più civilizzato della Terra, acquistano il fascino delle terre ignote e si caricano di nuove interpretazioni simboliche.
All’inizio dell’Ottocento l’interesse per l’ambiente alpino si è già spinto al punto da estrinsecarsi nell’invenzione letteraria, come nella famosa pagina del capolavoro romantico di Mary Shelley, “Frankenstein”, ambientata tra i crepacci della Mer de Glace:
«Il silenzio solenne di questo magnifico salone delle udienze di Sua Maestà la Natura era rotto solo dal rumoreggiare delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l’opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e si spaccavano come fossero stati giocattoli nelle loro mani. Queste scene sublimi e magnifiche mi donarono tutto il conforto che potevo ricevere…».
L’identificazione tra la giovane autrice e il suo personaggio è così completa che in alcune parti del romanzo si fatica a separare l’invenzione letteraria dall’ispirazione autobiografica. È evidentemente la stessa Mary Shelley che riceve “conforto” e consolazione dalle “sublimi” e catastrofiche manifestazioni di potenza del Monte Bianco – le cascate, le frane, le valanghe, il crollo dei seracchi sul ghiacciaio –, che per millenni generarono il terrore delle popolazioni alpine e l’assoluta indifferenza degli abitanti delle pianure.
La nuova rappresentazione della montagna suggellata dai “deliziosi orrori delle cime” apre ai viaggiatori ottocenteschi le porte di quel mondo dei “precipizi” da cui Rousseau, pur manifestando attrazione, si era sempre tenuto a debita distanza. Nascono l’alpinismo e il récit d’ascension, il racconto di scalata, un genere che per lungo tempo troverà la sua stessa ragione di vita nella reinterpretazione romantica delle cime.
Fino all’affermazione dell’alpinismo sportivo, che risale agli ultimi vent’anni del Novecento, la letteratura alpinistica mitteleuropea reinterpreta ininterrottamente la “religione” settecentesca della montagna, in perenne contrapposizione al mondo pagano e superficiale della pianura, umiliato dall’ozio e dal denaro:
«Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza» scriveva Rousseau nelle “Lettere a Giulia”.
«Diedi ancora uno sguardo all’infinita natura purissima e ridiscesi anch’io nell’infinita e pietosa miseria umana» scrive Ugo De Amicis, figlio di Edmondo, dopo una notte in alta montagna.
«L’idea dell’azione vicina suscita in me strane sensazioni e contrastanti pensieri. Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini che penano rinchiusi nel recinto sociale… Domani sarò un gran signore che comanderà alla vita e alla morte, alle stelle e agli elementi» scriverà Giusto Gervasutti prima di scalare il Cervino nel Natale del 1936.
Ogni conquista alpinistica è la sublimazione di un sogno, ma non c’è pace sulla vetta perché il traguardo è sempre inadeguato, deludente, illusorio. Solo nella sfida l’alpinista romantico trova conforto, come confessa lo stesso Gervasutti dopo la scalata della parete est delle Grandes Jorasses, la vittoria più sofferta e più bella:
«Raggiungiamo la vetta alle 11. Ci arrestiamo su una larga terrazza di roccia. Fa caldo e abbiamo una gran voglia di dormire. Niente fremiti di gioia. Niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai».
Si potrebbe paradossalmente affermare che il problema dell’alpinismo, più che nella salita, sia insito nella discesa, come ha intuito l’alpinista sudtirolese Hans Kammerlander in un libro dal titolo significativo: “Discesa al successo”. Scrive Kammerlander:
«Questo continuo cammino verso l’alto può essere considerato l’Olimpo per l’uomo? Solamente la discesa dalla Torre di Babele, simbolo di un’umanità senza limiti, potrà garantire il successo…».
Dunque la “letteratura”, o scrittura di alpinismo, è figlia della cultura urbana e discende dalla sorgente romantica, almeno per i primi duecento anni. Considerato che l’alpinismo nasce ufficialmente sul Monte Rosa nel 1778 (Colle del Lys), il modulo romantico resiste più o meno invariato fino agli anni settanta del Novecento, seppure mitigato da ripetuti tentativi di demistificazione (Daudet, Cagna, Mazzotti), oppure appesantito dalla retorica eroica di regime tipica del Ventennio (Lammer, Rudatis). Per circa duecento anni il modulo si replica sempre fedele a se stesso, nonostante gli straordinari progressi delle tecniche alpinistiche e l’espansione a macchia d’olio del fenomeno nei paesi europei a cavallo delle Alpi, sia nelle città sia nelle valli.
Da sempre, dunque dagli esordi dell’esplorazione alpina, esiste innanzi tutto l’alpinismo dei cittadini. Molto dopo viene l’alpinismo dei montanari (guide alpine), che per loro natura, prima dell’avvento del turismo, non mostrarono mai interesse per le cime. I valligiani comunque scrivono pochissimo, salvo rare eccezioni: Tita Piaz nelle Dolomiti, Christian Klucker in Engadina, Mattias Zurbriggen sul Monte Rosa. Sono tutte guide di montagna, e le loro autobiografie risultano interessanti perché trattano anche faccende “di valle” e di paese, ma nelle descrizioni delle ascensioni non si discostano nettamente dalle autobiografie di matrice cittadina. Risentono delle stesse influenze culturali, ricalcano il medesimo stile.
A lato delle autobiografie ci sono i carteggi tra cittadino (cliente) e montanaro (guida): Theodor Curtius con lo stesso Klucker, Julius Kugy a Trieste e Anton Oitzinger sulle Alpi Giulie, Giovanni Bobba a Torino e Casimiro Thérisod a Rhêmes Notre Dame; Bobba e Thérisod si scrissero per tutta la vita, come due amici di vecchia data, ma ci mancano purtroppo le lettere di Bobba perché sono andate perdute. Fine della storia: tutto il resto è letterattura di città, “colta”, “riservata”, “iniziatica”, scritta dagli alpinisti per gli altri alpinisti. La vertigine e il suo racconto sono intrattenimenti urbani, di matrice inguaribilmente romantica.
D’altra parte la fedeltà al modulo romantico si spiega con la natura stessa della scalata. Non c’è niente di necessario nella pratica dell’alpinismo, tutto è gratuito, inutile, insensato. Un libro famoso di Lionel Terray si intitola appunto “Les conquerants de l’inutile” (I conquistatori dell’inutile). Ma c’è di più, soprattutto se si confronta la pratica alpinistica con altri “sport” o attività all’aria aperta. In alpinismo il racconto sembra quasi una conseguenza necessaria della scalata, la sola cosa che sappia dare spessore al gesto, all’azione, al rischio. Il racconto è la sola cosa che resta, di un passaggio in parete e del superamento di una cresta.

La “letteratura alpinistica”, che è quasi sempre autobiografica, appare come lo sforzo ininterrotto di liberare la scalata dalla forza di gravità, eliminare la fatica di salire e la paura di cadere, raggiungere la leggerezza dell’essere, dare un senso a ciò che senso non ha. A partire dal Settecento, quando ancora si confondevano spinte illuministe e romantiche, e poi nell’Ottocento, da Whymper (Cervino, 1865) in avanti, tutta la letteratura di genere è intimamente legata all’esperienza, all’azione, come se la scalata stessa attingesse senso dalla successiva rielaborazione sulla carta. Penna e piccozza non sono un binomio retorico, ma le due facce della stessa medaglia, i due termini con cui le montagne prendono spessore e memoria nello sguardo, nell’esperienza e nella rielaborazione intellettuale di chi sale le pareti e le cime. Henri Beraldi, grande bibliofilo francese, sosteneva che un alpinista esiste veramente solo se scrive, oltre ad arrampicare. In questa provocazione c’è del vero, perché in assenza di regole e testimoni (l’alpinismo è un gioco fondato su regole non scritte, e continuamente mutevoli secondo la cultura del tempo) l’unica certificazione della scalata sta nel suo racconto. Altrimenti, storicamente ma anche culturalmente, l’impresa non esiste.
Il giornalista e storico Sylvain Jouty ha affrontato la questione in un articolo interessante, “Elogio della dissimulazione”, apparso su Passage, cahiers de l’alpinismo n. 3 alla fine degli anni settanta e tradotto da Alberto Paleari per la Rivista della montagna. «L’alpinismo riposa su una finzione, quella della differenza radicale fra il mondo delle altezze e il piano… L’alpinismo riposa su una finzione, ma il saperlo non gli impedisce di funzionare… L’alpinismo nasce con la coscienza di conquistare e con la necessità di raccontare» scrive Jouty. Per questa ragione le imprese di Rotario d’Asti sul Rocciamelone (1358) o di Antoine de Ville sul Mont Aiguille (1492) non sono alpinismo, mentre è alpinismo la prima ascensione del Monte Bianco (1786), anche se coincide con la prima falsificazione storica, quando nel nome del “buon selvaggio” si attribuì tutto il merito dell’impresa all’ingenuo Balmat e si negò il ruolo fondamentale di Gabriel Paccard, medico e uomo di scienza.
Coscienza di conquistare e necessità di raccontare: «Per la stessa ragione – continua Jouty – il racconto alpinistico stenta a uscire dal realismo. In realtà il racconto alpinistico è parente stretto della pornografia: vi si trova, anche se in misura diversa, lo stesso desiderio di aderire alla realtà e la poca cura per lo stile e per l’opera. Che sia bene o mal scritto, il racconto ha lo stesso valore poiché il suo effetto non è propriamente letterario ma è prodotto dall’identificazione del lettore alla situazione descritta. La descrizione, iperrealista, funziona solo operando una scelta stretta, monotona e ripetitiva delle situazioni possibili». Come nella pornografia, appunto.
Questa povertà espressiva è controbilanciata, ma non risolta, dal sentimento romantico, idealista, talvolta eroico e altre volte visionario, che pervade tutta la letteratura di genere e si dispiega in un continuo balletto di compensazioni tra la “volgarità” del gesto e la sublimazione dell’esperienza: da un lato spiego al lettore – iniziato come me al gioco dell’arrampicata – che cosa fa il mio corpo per superare le difficoltà, arto dopo arto, movimento su movimento, dall’altro sublimo i gesti grossolani del corpo con gli slanci dello spirito, proiettato verso il sogno, la visione, la vetta. Questo doppio, si badi bene, è vitale e irrinunciabile, perché se manca il corpo (Petrarca, Rousseau, Ruskin, oppure il Buzzati del “Barnabo delle montagne”) non è alpinismo, ma se manca lo spirito non c’è letteratura.
Ed eccoci al passaggio finale, che potrebbe rivelarsi conclusivo ma anche aprire nuove vie, lontane dalla vecchia “pornografia” della scalata. Dopo gli anni settanta del Novecento, che vedono una radicale contestazione dell’alpinismo eroico e del mito-espiazione delle cime, l’avvento dell’arrampicata e dell’alpinismo sportivo portano a un drastico ridimensionamento, se non alla fine, della “letteratura” di genere. Come ogni sportivo che si rispetti, l’atleta delle falesie o delle montagne di fine Novecento non sente alcun bisogno di raccontarsi, se non usando – con estrema asciuttezza di linguaggio – i nuovi canali di internet, che servono a divulgare pillole di esperienza strettamente incrociate con indicazioni tecniche. Il tutto in tempo reale, o quasi.
La lunga relazione romantica tra l’alpinismo e il récit d’ascension si incrina con la dimensione sportiva, sempre presente e sempre rimossa nel passato, che rende tutto più visibile, più manifesto, più sincero, forse più banale. Quella dissimulazione che sorreggeva l’azione e il suo racconto, pervadendo di mistero la sfera alpinistica, scompare come la nebbia del mattino e ci apre lo sguardo su pareti fatte di roccia e alpinisti fatti di carne. Oggi l’alpinismo è in cerca di nuovi miti.