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Le guide alpine italiane delle Alpi occidentali


Il mestiere di guida non nacque certo per vocazione, se il narratore piemontese Giuseppe Giacosa – intorno al 1910 – si permetteva di scrivere nel suo “Novelle e paesi valdostani”: «La migliore industria nei paesi alpini è quella delle guide. Nelle Alpi nostre ne campano un centocinquanta persone. Quando non ci lasciano la pelle, o almeno non ce la lasciano tutta, fanno una “campagna” di trecento-quattrocento lire, e i più famosi, quelli raccomandati dai libri inglesi, arrivano alle cinquecento, fino alle seicento; ma bisogna aver tentato la Provvidenza, e se a stagione finita accendono un cero, credete pure che il Santo se l’è meritato». A diventare centocinquanta, le guide delle Alpi occidentali italiane ci avevano messo circa un secolo. Il primo polo di attrazione alpinistica, e quindi di motivazione professionale, era stato l’allora sconfinato massiccio del Monte Bianco, dove le guide di Chamonix e di Argentière accompagnavano i clienti sulle rotte più sperimentate. Le guide di Courmayeur avevano subito a lungo l’autorità e l’esperienza dei colleghi francesi, senz’altro favoriti da una maggiore facilità di accesso alla cima più alta e più famosa delle Alpi, e per tutta la prima metà dell’800 si erano limitati al giro del massiccio, un classico e facile itinerario già allora molto in voga, e all’ascensione del Colle del Gigante. Nel 1850, finalmente, si erano riuniti in società; tredici anni più tardi Julien Grange, detto “la Berge”, con l’inglese Head e i colleghi Perrod e Orset, aveva raggiunto il Monte Bianco dal versante di Courmayeur siglando l’autonomia e le possibilità delle guide valdostane.
Fin qui la storia ufficiale, che continuerà con l’epopea del Cervino (1860-1865) di Whymper e Jean Antoine Carrel, la più coraggiosa guida di Valtournenche. Le conoscenze tecniche dei montanari valdostani e piemontesi appartenevano ad una secolare tradizione di caccia e di contrabbando, ma di fatto sono stati gli alpinisti cittadini a dar vita al nuovo mestiere. E’ stata la legge della domanda e dell’offerta. C’erano abili scalatori in Val Pellice come nelle Valli di Lanzo, ma le cime famose stavano altrove, insieme ai ricchi signori di città.
Dunque a parte la Valle d’Aosta, culla delle prime guide, la professione si sviluppa soprattutto sul Monte Rosa, nei centri di Alagna e Macugnaga, dove opera il grande Mathias Zurbriggen di Saas Fee. E poco più tardi, con toni più familiari, il giovane mestiere compare anche sui monti cari ai primi alpinisti piemontesi. Così Claudio Perotti di Crissolo, guida stimata da Rey e Gastaldi, sale per 470 volte il Monviso; e Antonio Castagneri, autentico fuoriclasse di Balme, in Val d’Ala, si mette in luce sulla Ciamarella e sull’Uia di Mondrone, esportando poi le proprie capacità nel Delfinato e sul Monte Bianco fino a scomparirvi nel 1890 insieme a Jean Joseph Maquignaz di Valtournenche. I clienti più intraprendenti sono Baretti, Barale, Martelli e Vaccarone, ma anche i grandi pionieri inglesi Tuckett e Coolidge, sempre a caccia di “prime”, si fanno accompagnare volentieri dai riservati professionisti piemontesi.
Nel 1888 le sezioni occidentali del Club Alpino Italiano costituiscono il Consorzio intersezionale per l’arruolamento di guide e portatori, assicurandone i soci contro gli infortuni e garantendo loro una esigua previdenza. Si intende tutelare i diritti minimi dei professionisti, ma in qualche modo si intende anche limitare i “soprusi” di quello che l’Abbé Gorret aveva chiamato “il Lazzarone della montagna”: «(…) ben presto non fu concesso ai turisti di avere una volontà,; essi dovettero subire tutti i capricci delle guide per quanto riguarda alberghi, ore, montagne, prezzi, direzione e studi». Ormai archiviata la fase sperimentale, il mestiere della guida alpina è cresciuto e va elaborando una specifica, raffinata deontologia. Prima ancora che sul terreno alpinistico, le migliori guide si distinguono su quello dell’intuizione esplorativa e della comunicazione con il cliente. Sulla scia dei maestri stranieri, come l’Anderegg o gli Almer nell’Oberland bernese, anche le guide italiane prendono in mano l’iniziativa. Sul finire dell’800 ha inizio una collaborazione privilegiata tra il benestante cittadino e la guida valligiana, che a volte si prolunga non solo per la stagione estiva, ma per tutta la vita alpinistica. Tra la guida evoluta e il cliente capace si instaura un accordo di stima e amicizia, che spesso si estende anche oltre il puro scopo dell’ascensione. E’ il periodo d’oro delle guide, da Emile ad Adolphe Rey, da Jean Antoine a Louis Carrel. Tutti i grandi itinerari di fine secolo, come la cresta di Peutérey o il Dente del Gigante, sono il risultato di una simbiosi quasi perfetta tra le spinte intellettuali degli alpinisti e la pronta sensibilità dei propri capicordata, dove più che il patto economico valgono l’intelligenza e l’ambizione.
Le storie narrano di cittadini sognatori e romantici, perdutamente innamorati delle montagne, e di altri borghesi – ambiziosi e competitivi – in lizza tra loro per raggiungere un colle o una vetta. Le guide valligiane si inseriscono nel gioco con autorità ma senza “nevrosi da conquista”, soprattutto senza enfasi e senza retorica. Le montagne restano semplicemente l’ambiente nel quale sono nate, le rischiose scalate un mezzo per vivere meglio. Qualche volta per sopravvivere.
La guida vive l’alta quota come vive la vita stessa, forse senza esaltanti emozioni, ma certamente senza alienanti contraddizioni. E’ pronta a salire il Cervino dieci volte in un’estate, così come non esita a misurarsi sulla cresta di Furggen per tracciare una nuova via (Jean Joseph Carrel nel 1911). Economicamente alla fine non fa una gran differenza.
Questo periodo di grazia, che vede le grandi guide primeggiare soprattutto sul ghiaccio e sul terreno misto, ha termine intorno alla prima guerra mondiale, con la crescente affermazione dell’alpinismo accademico. Sulle Alpi occidentali è veramente la fine di un idillio. Tra le due guerre altre guide come Arturo Ottoz, Luigi Carrel o Ferdinando Gaspard porteranno avanti carriere esemplari, per serietà e fecondità creativa, ma la magica simbiosi che ha favorito uno dei capitoli più straordinari della storia dell’alpinismo non si ripeterà. Né oggi né mai.