Pubblicazione

Le Alpi tra nuove e vecchie identità

Atti del convegno internazionale “Rete Montagna”, Tolmezzo 16-17 novembre 2006

Introduco la mia riflessione con una citazione del documento sottoscritto a Prazzo, in Val Maira (una delle valli che appartennero al Mondo dei vinti di Nuto Revelli), il 12 febbraio 2006, non a caso all’apertura dei giochi olimpici invernali di Torino. Firmato da ventidue rappresentanti delle vallate, dunque ventidue ‘montanari’, si intitola Patto delle Alpi piemontesi e prende forza da questa premessa:
«In Piemonte ci troviamo di fronte a una situazione paradossale: una pianura quasi completamente antropizzata è circondata da un territorio che si sta sempre più desertificando e la linea di demarcazione tra queste due realtà corre poche centinaia di metri a monte della fascia pedemontana, zona tra le più densamente abitate, quasi una città diffusa che traccia il confine tra la Grande Pianura e le Alte Terre; in questo contesto vanno comprese alcune ‘porzioni di valli’ che, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, hanno subito un ‘percorso di sviluppo’ legato a un modello di turismo non sostenibile e nelle quali si sono riprodotte dinamiche tipiche dello sviluppo urbano.
Tale modello, pur avendo ‘arginato’ in queste aree il fenomeno dello spopolamento favorendo l’inserimento di persone attratte dalle nuove opportunità economiche, ha lasciato impatti pesanti sul territorio compromettendone per sempre le qualità ambientali, naturalistiche e paesaggistiche.
La montagna era stata, se non fiorente, sicuramente forte quando le persone che la abitavano facevano riferimento anche a una seconda scala di valori oltre a quella personale, e una scala di valori comuni è ancora condivisa dalle comunità che vivono la montagna.
Per le popolazioni delle vallate alpine non è possibile accettare un approccio contrattuale alla vita, perché ci sono cose che sono sentite come patrimonio collettivo e che costituiscono l’essenza stessa e il motivo d’essere della comunità […]. Se l’approccio liberal ha funzionato in pianura, bene o male che sia, in montagna ha dimostrato tutti i suoi limiti».
Il linguaggio del Patto delle Alpi piemontesi è innovativo perché non si fonda sull’atavico vittimismo delle popolazioni alpine afflitte dalla prepotenza urbana, o sulla sterile difesa di una presunta tradizione rurale ormai più vicina al luogo comune che alla realtà della montagna, ma entra finalmente nel cuore del dibattito contemporaneo, citando la (disattesa) Convenzione delle Alpi, sottolineando i veri termini dello (sbilanciato) rapporto tra città e montagna, dichiarando soprattutto una vocazione alternativa di quest’ultima, decisa a respingere – più per ragioni storiche che ideologiche – l’approccio liberal della pianura, l’illusione dello sviluppo illimitato, la cultura del consumo che sovrasta ogni valore e ogni solidarietà.
È una lettura che, rovesciando molti stereotipi, potrebbe ricollocare la montagna al centro del dibattito contemporaneo, candidandola a sperimentare quello sviluppo sostenibile che non è riuscito alle città, e che di norma resta sulla bocca degli stessi politici e amministratori alpini, proponendo le Alpi come luogo di riflessione alta, onesta e riformista, reinventandone il ruolo nei termini di un ‘laboratorio di futuro’, giovane cuore dell’Europa che verrà e non stanca periferia dei vecchi Stati nazionali. In due parole, trasformando l’immagine delle Alpi da terra abbandonata a luogo capace di innovazione.
Su questa linea si può portare un altro esempio significativo, anch’esso proveniente dalle Alpi piemontesi: la lunga e tuttora irrisolta vicenda della TAV, o linea ad alta velocità, che dovrebbe collegare Torino e Lione attraversando la bassa Valle di Susa. L’ormai decennale resistenza dei valsusini alla linea ad alta velocità non è solo la lotta romantica di Davide contro Golia, dove Golia è incarnato da un potere di destra che risponde da sempre con l’arroganza della polizia e da un potere di sinistra che in questo caso ha ignorato per anni le idee diverse con l’arroganza del pensiero. Non è neanche la becera difesa dell’orticello come ha sostenuto sgradevolmente la presidente della Regione Piemonte, Bresso, perché i valsusini – in dieci anni e oltre – sono passati dalla legittima protezione della salute in casa propria a una visione assai più larga del problema, che spazia dalle criticità ambientali alle innovazioni tecnologiche, dalle politiche dei trasporti alle strategie energetiche internazionali. Non è nemmeno una battaglia degli ambientalisti contro chi ambientalista non è, altrimenti non si spiegherebbe la partecipazione di forze così eterogenee (operai, insegnanti, contadini, preti, amministratori e sindaci, soprattutto), accomunate trasversalmente da un sussulto di dignità che non cede ai condizionamenti ideologici e non si riconosce in nessun partito. Infine la lotta anti TAV non è solo una contrapposizione tra città e montagna, anche se la montagna – in questo caso la Valsusa – avrebbe tutti i diritti di reclamare un risarcimento nei confronti di una storia a senso unico che, nella seconda metà del Novecento, ha visto l’alta Valle trasformata dalle infrastrutture dello sci di massa, la media Valle sostanzialmente abbandonata e la bassa Valle oggetto di un’industrializzazione spesso problematica, latrice di lavoro, disagio e conflitto sociale, poi corridoio di transito per oleodotti, strade, ferrovie e autostrade, infine polmone residenziale della nuova Torino.
In questo quadro si inserisce la protesta anti TAV, che ha spiazzato tutte le forze politiche perché invoca una pausa di riflessione di fronte allo stolto modello dello sviluppo a tutti i costi, incrina lo stanco ritornello del ‘sempre più veloce, sempre più alto, sempre più forte’ (che paradossalmente corrisponde al motto olimpico), scardina la favoletta delle ‘sorti magnifiche e progressive’ che fin che c’erano autostrade da costruire decantava la necessità dei nastri d’asfalto e ora che è venuto il tempo dei tunnel ferroviari, con un salto mortale degno dei grandi equilibristi, fa proprie le ragioni di chi combatté contro le autostrade invocando lo spostamento delle merci dalla gomma alla rotaia.
Certo i valsusini si sono caricati una bella gatta da pelare: sono e saranno presi di mira dai tecnocrati in quando luddisti, dai cittadini in quanto montanari, dagli altri valligiani (quelli dei centri sciistici) in quanto nemici del turismo, dai progressisti in quanto conservatori, dai conservatori in quanto… Però, avendo avuto la forza (e la cultura) per non cedere alle ragioni localistiche, essendo riusciti a coinvolgere la ‘meglio società’, quella disposta a dubitare e discutere, sono diventati gli inconsapevoli ambasciatori di una voce nuova, di uno scandalo e una protesta che affondano le radici nel cuore della nostra cultura, nei suoi mali oscuri, anche se erano – a detta di molti – solo montanari ottusi che si oppongono al progresso. Anche in questo caso la montagna ha saputo assumere un ruolo di avanguardia, di consapevolezza più ampia, di visione più autonoma di quella della pianura.
Montagna e città, locale e globale. Il geografo Eugenio Turri recentemente scomparso ha scritto:
«Difendere la valle, la sua identità oggi si può non tanto chiudendosi in una Heimat senza speranza, ma coltivando le passioni locali e nel contempo dialogando con l’esterno, quindi con la megalopoli. Come dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere nel difficile mondo della complessità che ci assedia».
Ecco il punto fondamentale: una cultura sola non basta più. Chi si illude di salvare e rilanciare la montagna con una pur nobile difesa della sua memoria, della sua autonomia, delle sue tradizioni, ignora che il nostro mondo – almeno il mondo europeo – vive ormai di un’unica cultura, quella urbana, e che ogni alternativa può nascere solo all’interno di essa e non a chimerica difesa di un passato autarchico che non esiste più (o non è mai esistito affatto). In altre parole l’identità alpina non può porsi come un ‘locale’ impermeabile al ‘globale’, ma può rivendicare forza e dignità solo se impara a misurarsi con il ‘mondo di fuori’, facendone emergere i limiti e le contraddizioni. Chi saranno dunque i ‘montanari’ di domani? Ecco un altro punto cruciale: valligiani disillusi che sognano la strada della città, oppure cittadini intraprendenti che decidono di salire in montagna per rilanciare ‘vecchie’ attività con idee nuove, beneficiando delle tecnologie – computer e modem – che riducono i tempi e le distanze. Sono forse più ‘montanari’ questi pionieri che scelgono di vivere in un ambiente difficile spinti da una forte motivazione etica ed ecologica, o i nativi che non hanno scelto di venire al mondo nel chiuso di una valle e dall’età della ragione non sognano altro che scappare via? Si è montanari per nascita o per vocazione?
Credo che nel prossimo futuro, per il bene delle persone e per il bene dell’ambiente alpino, si sarà sempre più montanari per scelta. Tanto più la montagna sarà capace di comprendere la cultura globale reinterpretandola, tanto più la montagna sarà padrona di sé. Naturalmente non penso a chi imita acriticamente lo stile di vita urbano e non fa altro che estendere le patologie della città alla montagna. Penso al montanaro consapevole, che ha sperimentato i benefici e i limiti del modello urbano, e che sulle Alpi sogna di tentare nuove vie: l’agricoltura biologica, l’allevamento a misura d’uomo e di animale, la sobrietà dei consumi, la qualità dell’abitare, una felicità ‘sostenibile’. Non penso all’‘eremita tecnologico’ che si isola in una centralina computerizzata per lavorare fuori dal mondo (molte esperienze di questo genere, soprattutto nei Paesi di lingua tedesca, hanno dimostrato che l’automazione accresce la solitudine fino a soglie inaccettabili). Penso a donne e uomini sufficientemente colti e sufficientemente creativi per unire tradizione e innovazione, esperienza di ieri e tecnologia di domani, gusto per il bello che è stato e il bello che sarà. Perché vivere sulle Alpi nel terzo millennio sarà anche una questione estetica e una scelta di stile.