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L’alpinismo torinese fra le due guerre

Annuario del CAI Torino

La storia dell’alpinismo torinese è quasi tutta da scrivere, e chissà che non sia già troppo tardi. Per fortuna per il centenario della Sezione, nel 1963, Armando Biancardi si assunse l’onere di ragionare con flash e brevi biografie sui momenti e sui personaggi più importanti, dando vita a un mosaico complesso e articolatissimo, in buona parte da decifrare, ma ricco di spunti e di dati.
Eppure non basta, perché si sa quasi tutto delle origini gloriose, da Quintino Sella ai primi alpinisti accademici, si sa molto del secondo dopoguerra, grazie soprattutto all’opera divulgativa di Gian Piero Motti, ma c’è come un buco nero, tra le due guerre, in cui i nomi e i fatti si accavallano in una successione così ricca e così complessa da dare le vertigini. A schiarire il cammino non ha certo contribuito la mitizzazione dei fuoriclasse, da Gervasutti a Boccalatte, che sono stati spesso isolati dal loro retroterra sociale e culturale per farne dei fari tanto luminosi quanto improbabili e sterili. È la classica dinamica dell’alpinismo di punta, che tende a stereotipare le gesta dei campioni come se prima e dopo di loro non esistesse altro che il deserto.
Due punti vanno subito evidenziati per diradare le nebbie. Primo punto: Boccalatte e Gervasutti non sono stati gli unici cardini dell’alpinismo torinese del Ventennio, anche se le loro imprese (e i loro libri) hanno reso celebre l’alpinismo cittadino e hanno indicato una via per molti anni a venire. Secondo punto: non si può “leggere” la storia alpinistica torinese come un fenomeno armonico e omogeneo: come altre città d’avanguardia (Trieste per esempio), Torino ha sempre condotto una ricerca fondata su spinte individuali e i gruppi nati dalle varie intuizioni si sono mossi in modo indipendente, impermeabile, quando non apertamente concorrente. Anche l’alpinismo ha risposto alla logica dei compartimenti stagni tipica delle aggregazioni subalpine.
Questo frazionamento ha condizionato anche l’informazione: ci sono personaggi dall’attività eccezionale come Agostino Cicogna che quasi nessuno conosce, mentre chi ha avuto in mano i “bottoni” della divulgazione alpinistica ne ha tratto indubbio vantaggio. Comunque a Torino hanno prevalso l’understatement e la norma non scritta di restare discretamente nell’ombra: per un Ugo De Amicis, un Adolfo Hess o un Massimo Mila, culturalmente accreditati a scrivere di sé, ci sono stati dieci, cento alpinisti di classe di cui soltanto gli amici sapevano: basta pensare a Francesco e Pietro Ravelli, a Paolo Fava, a Michele Rivero, a Leo Dubosc, ai fratelli Castelli: chi li conosce fuori città?
Guido De Rege ci ha parlato della SARI, e dalla SARI partiamo per una panoramica sociale dell’alpinismo torinese del primo dopoguerra. Nel 1908 Eugenio Ferreri fonda la “Società Alpina Ragazzi Italiani”, che nel 1911 diventa il gruppo studentesco SARI della Sezione di Torino. A cavallo della guerra si organizzano uscite tra studenti sulle palestre della provincia (Rocca Sella, Lunelle, Picchi del Pagliaio) e sulle cime più comode delle Valli di Lanzo e di Susa: gruppo Barale-Servin, Cristalliera, Orsiera, eccetera. Tra gli animatori dell’attività, che assume larvate sfumature didattiche e divulgative, figurano Luigi Bergera (presidente per vari anni), Guido Tonella e Paolo Daviso, caduto prima dei vent’anni sulla Bessanese. Ogni tanto si uniscono di propria iniziativa accademici come Michele Grivetto e Francesco Ravelli, e sono il collante che unisce non tanto le generazioni, quanto due modi di intendere la montagna: da un lato il duro e solitario alpinismo occidentale, fieramente emancipatosi dalla tutela delle guide, dall’altro la nuova goliardia che avanza, in una dimensione socializzante e disinibita che apre le porte addirittura alle signorine. C’è una fotografia del campeggio SARI al Purtud del 1924 che dice tutto: in prima fila sorridono tre studentesse con gonna e trecce lunghe, in mezzo si staglia un bellimbusto con cravatta e camicia bianca, in piedi ammiccano i veri alpinisti, tra cui un solare Guido De Rege e un pensieroso e timido Gabriele Boccalatte. Chi è andato in montagna sul serio sa cosa significhi aprire alle signorine…
La SARI si scioglie di fatto nel 1927, con la consacrazione della SUCAI come unico distaccamento studentesco del Club Alpino Italiano; poco più tardi la stessa SUCAI viene inglobata nei GUF, i Gruppi Universitari Fascisti, e il regime stende le sue ali. Nel 1932 c’è una coda di orgoglio “sarino” con un corso di arrampicamento al rifugio Bezzi, diretto dal valdostano Renato Chabod e condotto da De Rege, Dubosc, Caviglione, Ravelli, Lupotto e Antoldi: ma è l’ultimo atto di una bella storia che ha visto crescere personaggi come Franco Grottanelli, Gabriele Boccalatte e naturalmente Guido De Rege, tutti figli della borghesia subalpina. Il CAI apparteneva alla borghesia: Michele Rivero era magistrato, di Massimo Mila è inutile dire e il tonante avvocato Chabod, sempre pronto a unirsi sulla via per il Monte Bianco, conferma l’estrazione colta e di buona famiglia.
Più problematica, semmai, è la paternità politica, in anni in cui il fascismo metteva le mani anche sull’apolitica montagna e, proprio in montagna, avrebbe di lì a poco incontrato la resistenza partigiana. Mila e Chabod non scesero a patti con il regime, mentre l’avvocato Alfonso Castelli – che con il magistrato Michele Rivero scalò nel 1935 lo spigolo Sud delle Petites Jorasses – fu fucilato dai partigiani nei giorni della Liberazione in quanto avvocato del Tribunale Speciale. Il fratello Giulio, ingegnere, più tiepido ideologicamente, è morto cinque anni dopo per il distacco di un seggiolino della seggiovia del Colle Bercia, sopra Cesana.
Ma forse proprio Giusto Gervasutti, nel suo aristocratico distacco, impersona meglio di tutti l’atteggiamento diffuso tra gli alpinisti, soprattutto tra quelli che potevano permetterselo: il Fortissimo nell’agosto del 1942 sale con Giuseppe Gagliardone la parete Est delle Grandes Jorasses, in barba al fascismo, alla guerra e alle prossime scintille resistenziali. Mila ha scritto di lui con un pizzico di indulgenza: «Nelle faccende interne al CAI era sempre stato dalla parte buona, con quelli che avevano resistito sordamente alle usurpazioni del fascismo, in difesa della vecchia tradizione subalpina. Non aveva mai rinnegato un amico, per battuto o perseguitato che fosse. Durante il periodo dell’occupazione tedesca aveva tranquillamente acconsentito ad ospitare nel suo ufficio una cellula comunista. […] Ci aveva tenuto a farmelo sapere, con una certa fierezza, e diceva “i miei comunisti” con la tenerezza affettuosa di un pratico uomo d’affari verso un pugno di ragazzi utopistici che giocavano un gioco incomprensibile, ma bello e pericoloso» (Scritti di montagna, Einaudi 1992).
Alpinisticamente, si sa, Gervasutti rappresenta il ponte con le Dolomiti. Non è un caso che anche gli alpinisti torinesi degli anni Trenta inizino una frequentazione abituale del calcare, a cominciare dalle pareti vicine come la Militi in Valle Stretta. I più privilegiati si muovono già in automobile (la milanese Pietrasanta e Boccalatte, per esempio), mentre per i più i Serous restano i Monti Pallidi fatti in casa.
Se il CAI e le Dolomiti appartenevano ai benestanti, gli altri appassionati stavano altrove. De Rege ci ha riferito una battuta tipica, che circolava già ai tempi del Duce e ha continuato a circolare almeno per altri cinquant’anni. Dialogo tra un ingegnere del CAI e un operaio dell’UGET: «Piacere, Paolo… della …». «Molto piacere, Mario dIa Spinetta». Se aprite “Scàndere” 1963, a pagina 74 trovate una fotografia che è come un emblema. Davanti al Monte dei Cappuccini, nel 1937, posano diciannove signori che potrebbero uscire da un’inquadratura del Padrino di Coppola: giacca a righe, soprabito lungo, cravatta scura e scarpe di vernice. Soltanto Mario Piolti porta il cravattino e sembra diretto a una prima del Regio. I due fratelli Castelli, con De Petro, si confondono sullo sfondo buio della notte. Quello era il CAI di Torino prima della guerra, e un po’ anche quello del dopoguerra. Chi può negare che la connotazione elitaria si respiri ancora oggi tra i giovani della SUCAI, in confronto con la “volgare” concretezza della Gerva o dell’UGET?
UGET vuoi dire Unione Giovani Escursionisti Torinesi, ma l’alpinismo si fa strada rapidamente nello spirito del gruppo. Fondata nel 1913 da Giovanni Ferraris, durante una gita al Musiné, l’Unione incappa quasi subito nella bufera della guerra e perde dodici amici della prima ora. Torna fortunatamente dal fronte Nino Soardi, la figura chiave del dopoguerra, che presiederà l’UGET fino al 1934 e rassegnerà le dimissioni per non sottostare all’obbligo di iscrizione al Fascio, imposto a tutti i dirigenti delle associazioni. Il rinnovamento operato da Soardi nei primi anni Venti accresce rapidamente la popolarità dell’UGET: 1536 iscritti nel 1924, 1822 nel 1925 e 2156 nel 1927. In quell’anno a Torino le associazioni della montagna hanno già coalizzato un totale di 9000 tesserati: oltre al CAI e all’UGET, operano l’Unione Escursionisti Torinesi (UET), la Giovane Montagna e la SATTI.
All’UGET si respira un radicato spirito di gruppo, che viene prima di ogni affermazione personale sulla montagna. Le cifre parlano di 655 partecipanti alla cardata del 1922 e di 300 soci alla “gita del rimboschimento” del 1927 sul Monte Momello: 4000 piccoli larici piantati in poche ore. L’assemblea annuale del 1920 registra oltre 400 presenze, un numero vicino alla totalità degli iscritti.. In occasione dell’80° anniversario dell’Unione, Marziano di Maio ha intervistato un’anziana socia, Lina Cavallo, che esprime la mentalità del tempo: «Si andava piuttosto dove c’erano treni e corriere, il treno della Valsusa era il preferito, poi il fascismo ha istituito i treni popolari anche per la Valle d’Aosta. Eh sì, con lo sconto e in terza classe si potevano prendere solo gli accelerati, si partiva alle 5,30-6 ed erano sulle tre ore e mezza per Bardonecchia, il posto più vicino. […] Ah sì, pur di andare in montagna, bello o brutto, non si aveva paura di saltare la notte, tra viaggio e marcia di avvicinamento, e magari anche la notte successiva. Una volta, guidati da Felizia, siamo partiti in treno per Ceres, poi con l’ultima corriera a Margone che era già notte, e per andare a Malciaussia abbiamo preso il temporale. Li siamo andati all’ostu di Vulpot, ci siamo asciugati al fuoco e in piena notte siamo ripartiti per il rifugio…» (“Liberi Cieli”, 1963). Gli animatori non sono alpinisti famosi – Soffietti, Ivaldi, Zucchetti, Matis, Bordone, Morello, Rol – ma conoscono il mondo dell’alpinismo tanto da creare con Pietro Ravelli, nel 1926, il primo corpo di soccorso alpino delle Alpi Occidentali. Due squadre permanenti, con turni che durano un mese. Lo spirito popolare e fieramente indipendente dell’UGET, antielitario, antistituzionale, spontaneamente progressista, talvolta dichiaratamente antifascista, avrebbe dato molti altri frutti se il regime non avesse deciso di regolamentare tutta l’attività alpinistica attraverso i gangli organizzati del Club Alpino. Il diktat fascista è stato categorico: o rimanere nell’Opera Nazionale Dopolavoro come associazione escursionistica, rinunciando all’alpinismo, o passare sotto la tutela del Club Alpino. L’UGET è riuscita a mantenere la propria autonomia sezionale, ma ha dovuto scendere a patti con l’istituzione e trasformarsi in CAI-UGET l’8 ottobre del 1931.
Accanto all’ispirazione borghese (SARI-CAI Torino) e a quella proletaria (UGET), non poteva mancare l’ispirazione cattolica. La Giovane Montagna nasce nel 1914, soltanto un anno dopo l’UGET e un anno prima della guerra. I dodici amici fondatori, i “dodici apostoli”, vengono dall’associazione “Il Coraggio Cattolico” e si chiamano Bersia, Fontana, Filippello, Jorio, Lazzero, Milanesio, Macciotta, Peluffo, Rocco, Reviglio, Sansalvadore e Seimandi. Scrive Ernesto Denina sulla rivista dell’associazione: «L’alpinista cristiano non deve certo disconoscere il valore dell’alpinismo, ma le sue ascensioni devono soprattutto arricchirgli l’anima di impressioni profonde, di sentimenti mistici. Egli deve saper interpretare nel monte l’impronta dell’Artista che lo creò: le sue relazioni debbono quindi vibrare di quel senso cristiano, che migliora, eleva, giustifica ad un tempo i rischi corsi e le ore distolte da altri doveri…» (AA.VV., 75 anni di Giovane Montagna a Torino, 1989).
Fin dalla prima estate la Giovane Montagna organizza una settimana alpina, che col tempo si chiamerà accantonamento estivo, a cui prendono parte i soci più attivi e volenterosi. Scrive Natale Reviglio: «Convennero i più evoluti e accanto ad essi i saggi, i già padri di famiglia, le signorine ardimentose e le sentimentali, chi per trovarsi in un impareggiabile centro di alta montagna e cimentarsi con successo al Cervino, e chi per accontentarsi della facile, se pur faticosa, bianca altitudine del Breithorn…» (op. cit.). Tra il 1920 e il 1924 partecipa all’attività sociale (e di preghiera) il giovane Pier Giorgio Frassati, alpinista entusiasta e generoso, che la poliomelite si porterà via nel 1925 prima che possa scalare anche lui il suo Cervino.
Le numerose fotografie dei primi anni Venti lo ritraggono con gli amici nei luoghi canonici, dal Rocciamelone alla Grivola alla conca di Cheneil, dove si poteva già arrivare in tempi ragionevoli. Negli anni seguenti la Giovane Montagna si legherà particolarmente al gruppo del Gran Paradiso grazie all’attività esplorativa di Giuseppe e Sandro Delmastro con Carlo Pol, finché il povero Pol rimarrà vittima di una mitragliatrice tedesca nel 1944.
Ma intanto la nuova guerra, e prima ancora la morte di Gabriele Boccalatte sul Triolet nel 1938, hanno chiuso definitivamente un’epoca e l’alpinismo torinese attende già un altro rinascimento.
Il dopoguerra comincia nel modo più crudele, con la caduta di Giusto Gervasutti sul Mont Blanc du Tacul nel 1946, ma proprio la scuola intitolata al Fortissimo segna l’aurora del nuovo corso.