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L’alpinismo da conquista a valore formativo


La matrice settecentesca dell’alpinismo, e più in generale del turismo alpino, risale a due motivazioni solo apparentemente in contraddizione tra di loro: la spinta illuministica e la spinta romantica. Si è sempre sostenuto che il ginevrino Saussure indusse Balmat e Paccard a scalare il Monte Bianco per motivi scientifici, raggiungendo lui stesso in seguito la cima per compiervi le prime misurazioni fisiche alla soglia dei 5000 metri. Si è argomentato che le origini del fenomeno alpinistico andrebbero complessivamente ricondotte alla fiammella della scienza, tanto più che il primo attore della celebre ascensione, il dottor Paccard di Chamonix, si spinse fin sulla vetta “proibita” anche in ragione della sua formazione professionale, mentre il cercatore di cristalli Balmat, apparentemente più preparato del compagno ad affrontare i rigori dell’alta montagna, sarebbe stato sopraffatto dall’angoscia e dalla paura proprio a causa della sua cultura montanara carica di pregiudizi. Eppure, in quella speciale estate del 1786, tre anni prima che a Parigi la rivoluzione rovesciasse la monarchia, si viveva nella suggestione di un nuovo, incantato, dotto, raffinato e urbanissimo sentimento della natura e della montagna, espresso trent’anni addietro da un altro ginevrino, Jean- Jacques Rousseau, nelle celebri “Lettere a Giulia”: «Lassù, nella purità di quell’aria, riuscii a districare sensibilmente la vera cagione del mio umore mutato e del ritorno di quella pace interna che avevo smarrito da tanto tempo. E’ infatti un’impressione generale che tutti gli uomini risentano anche se non tutti se ne rendono conto: sulle alte montagne dove l’aria è pura e sottile, la respirazione è più agevole, il corpo più agile, lo spirito più sereno, i piaceri meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni assumono lassù non so che carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, una non so che voluttà tranquilla che non ha niente d’acre e di sensuale. Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza!». Allora la ragione scientifica non basta a giustificare l’ascensione delle prime vette delle Alpi, perché essa va onestamente inserita in una scoperta che darà origine al fenomeno del turismo e romperà per sempre l’incanto (e la miseria) dell’isolamento alpestre. Anzi, se si guarda al seguito della storia, la motivazione scientifica di matrice illuminista appare più un alibi contingente che un autentico fondamento dell’alpinismo (come peraltro anche la presunta vocazione esplorativa, che non ha raffronti per esempio con il “sentimento” geografico dei grandi navigatori), mentre la dottrina romantica resterà fino ai giorni nostri un riferimento preciso per quella che è stata definita “l’insensata pratica di scalare le montagne”.
Sconfinando brevemente sul terreno della psicologia, anche la retorica romantica dell'”alpe buona” e dell’alpinismo fonte di alti ideali si rivela un alibi inossidabile che, nel corso di due secoli, è spesso servito a nascondere quella che si potrebbe anche chiamare la corsa alla vetta. Sotto l’ombrello dei nobili sentimenti, infatti, si sono sovente celate comprensibili ma non certo auliche vicende di competizione e conquista, mosse soprattutto dall’ambizione e dalla sfida individuale, senza le quali l’alpinismo non sarebbe mai esistito. Anche il rapporto privilegiato con la natura, quella relazione che ispirò Rousseau nell’idealizzazione del “buon selvaggio” e a cui nostalgicamente faranno riferimento molti alpinisti all’alba del nostro secolo (si pensi tra tutti a Julius Kugy e a Guido Rey), sarà spesso incrinato da un atteggiamento ottuso e dominatore. Gli alpinisti, gelosi del loro mondo incantato, cercheranno sempre di disgiungere le proprie responsabilità dai guasti della colonizzazione, come il profetico e disilluso Reclus nel lontano 1872: «Le une dopo le altre tutte le montagne delle contrade popolose saranno state scalate; sentieri e vie carrozzabili saranno stati costruiti dalla base alla cima per facilitarne l’accesso anche agli oziosi e agli insipidi: si sarà fatta lavorare la mina nei crepacci dei ghiacciai per mostrare agli allocchi la struttura del cristallo: ascensori meccanici saranno stati stabiliti nelle pareti dei monti già inaccessibili, e i turisti si faranno issare lungo muri vertiginosi fumando il loro sigaro e chiacchierando di scandali (…). A quel che amano vivere nell’intimità degli elementi non resterà più che sfuggire in una barca in mezzo ai flutti o attendere il giorno in cui come l’uccello potranno planare nella profondità degli spazi; ma rimpiangeranno per sempre le fresche vallate dei monti, e rii zampillanti dalle nevi inviolate, e le piramidi bianche e rosa drizzantisi al cielo. Per fortuna le montagne conservano ancora qualche dolce ritiro per coloro che fuggono le vie battute dalla moda. Per fortuna lungo tempo ancora ci si potrà appartare dal frivolo mondo e ritrovarci nella verità del pensiero, lungi dalle correnti volgari e artificiali che turbano gli spiriti anche più sinceri». Qualche volta gli alpinisti si dimenticano che proprio la loro è stata la prima forma di “valorizzazione” turistica delle Alpi.

Dietro l’alibi della scienza
Allora, dietro l’alibi traballante della scienza e dell’esplorazione e dietro la morale romantica, facilmente smascherabile nella sua ambigua innocenza, cosa resta per giustificare la straordinaria e appassionante “conquista” delle Alpi? Basta scorrere qualche decennio, dall’ascensione settecentesca del Monte Bianco a quella ottocentesca del Cervino (1865), per incontrare una tipica storia di alpinisti, resa particolarmente ricca e suggestiva dalla diversa –si potrebbe dire paradigmatica – provenienza dei due protagonisti: Jean Antoine Carrel di Valtournenche ed Edward Whymper di Londra. L’episodio è notissimo, ma merita di essere raccontato ugualmente. Whymper era un ragazzotto poco più che ventenne, che poteva permettersi di girare l’Europa e le Alpi a piacere riportandone pregiate illustrazioni a carattere documentario. Il giorno che si imbattè nel Cervino la sua vita cambiò; si mise in testa di salirlo e nulla gli importò che generazioni e generazioni di montanari avessero tremato di paura alla sua ombra, tramandandosi una quantità di storie e leggende che volevano la Gran Becca dimora dei demoni e dei trapassati. C’era un solo uomo in tutta la Valtourenche, un certo Carrel detto il “Bersagliere”, che credeva veramente nella scalata del Cervino, ma era un montanaro orgoglioso, permaloso e autoritario, sempre diffidente riguardo alle origini dell’inglese e dubbioso circa le sue vere intenzioni. I due comunque fecero numerosi tentativi insieme, si conobbero meglio, l’inglese si spinse addirittura da solo sulla montagna e precipitò nel canale sotto il Colle del Leone. Non riportò serie ferite, ma dimostrò che la Becca era addomesticabile se si sapeva superare l’inibizione ancestrale dei montanari. Questi e altri tentativi di matrice anglo-elvetica portarono al fatidico luglio del 1865, quando l’inglese spuntò per l’ennesima volta in cerca di Carrel, per tentare l’”assalto” decisivo (i termini militari sono ricorrenti nella storia alpinistica).
Ma Carrel non c’era: spinto dall’orgoglio valligiano e dall’amor di patria l’aveva tradito e si era spinto molto in alto, con alcuni compaesani, raggiungendo la “spalla” già salita da Tyndall. Allora Whymper, colto da sacro furore, scese a Zermatt e vi assoldò la fortissima guida di passaggio Michel Croz, due guide svizzere e l’intera comitiva inglese al seguito del Croz, unendosi per forza anche all’inesperto Hadow. Con una mossa audace quanto disperata, il 14 luglio, i sette salirono la cresta svizzera fino a quel giorno inesplorata e raggiunsero la vetta incontrando difficoltà decisamente inferiori a quelle della via italiana. Carrel sull’altro versante, dovette inchinarsi al giovane straniero, ma a Breuil giunse la notizia che ben quattro componenti della cordata vittoriosa erano precipitati dalla parete nord durante la discesa. Lo stesso Whymper fu poi processato e visse tutto il resto della vita con il peso della tragedia sulla coscienza, mentre Carrel raggiunse la vetta e la gloria italiana tre giorni più tardi, il 17 luglio1865.
Quella del Cervino è una storia esemplare, perché spiega perfettamente le ragioni dei montanari e dei cittadini nei confronti dell’alpinismo. I valligiani, che storicamente avevano sempre temuto e ignorato le alte quote, pericolose e prive di interesse per il loro sostentamento quotidiano, imboccarono la strada delle vette quando vi individuarono una possibilità di lavoro e di guadagno. Le prime guide, generalmente cacciatori o cercatori di cristalli che manifestavano una naturale confidenza con l’arrampicata, si dimostrarono gli ideali accompagnatori dei cittadini, inizialmente britannici, che volevano mettere il naso oltre la soglia del conosciuto. Gli inglesi, dal canto loro, erano depositari di una radicata cultura esplorativa, alla quale ben presto si aggiunse la passione tutta vittoriana per il nuovo sport dell’alpinismo e l’ambizione tutta borghese di aggiudicarsi il maggior numero di cime di prestigio. È chiara la differenza abissale tra le due culture, che comunque non impedì che a cavallo tra Ottocento e Novecento si costituissero formidabili e affiatatissime cordate miste che seppero estendere la propria intesa anche oltre il puro rapporto alpinistico. Basta citarne tre fra le più omogenee e significative – Coolidge e Almer, Young e Knubel, Ryan e Lochmatter – ,senza dimenticare la straordinaria accoppiata Mummery-Burgener che, dopo aver risolto alcuni tra i più impegnativi problemi di fine secolo come l’ascensione dell’Aiguille du Grépon nel gruppo del Monte Bianco, si scioglierà aprendo la strada alle prime ascensioni senza guida. Il Grépon era una delle ultime cime inscalate della catena alpina, ma i tempi stavano cambiando ed era già ora di pensare alle pareti e alle creste più difficili, dove la residua spinta esplorativa verrà definitivamente esautorata a favore del gesto sportivo: lo stesso Mummery, sul Grépon con miss Bristow nel 1893, dimostrerà la veridicità della sua ironica profezia: “La più difficile scalata delle Alpi, una facile passeggiata per signore”.
E’ il destino di tutte le grandi ascensioni, che oggettivamente non hanno significato se non vengono riportate al preciso periodo storico in cui vennero concepite e realizzate. La svalutazione delle difficoltà, un concetto ancora relativo sui grandi terreni di ghiaccio e roccia delle Alpi Occidentali, diventa determinante sulle verticali e strapiombanti pareti dolomitiche, dove a partire dal primo dopoguerra si sposta l’avanguardia della scena alpinistica internazionale. Qui, dopo il fugace e luminoso passaggio di Preuss, l’alpinista che rifiutò sempre ogni mezzo di assicurazione nelle sue scalate, entra in gioco la formidabile scuola tedesca di Monaco, specialista nell’arrampicata su calcare e depositaria delle tecniche più evolute della progressione su roccia. Con l’uso sistematico dei chiodi si riescono a superare difficoltà prima inimmaginabili, anche se i primi sesti gradi – come la famosa via di Solleder e Lettenbauer sulla parete nord ovest della Punta Civetta (1925) – sono tutti saldamente rapportati alle eccezionali doti di arrampicatori “liberi” dei protagonisti. Tedeschi e italiani si dividono le grandi ascensioni degli anni Trenta, forse il decennio più straordinario della storia dell’alpinismo, dalle salite di Comici di Cassin sulle pareti nord delle Tre Cime di Lavaredo, alle imprese di Soldà e Vinatzer sulla parete sud della Marmolada, al successo dello stesso Cassin sulla parete nord est del Pizzo Badile (Alpi Centrali), alle tre mitiche pareti nord delle Alpi occidentali: Cervino, Eiger e Grandes Jorasses. Nella corsa un po’ suicida all’Eiger, nell’Oberland Bernese, gioca anche il pesante ruolo della propaganda nazionalista del regime nazista, che fa eco alle più domestiche espressioni di esaltazione eroica imbastite dal fascismo intorno ai nostri campioni della montagna.

Il simbolo del chiodo
Nel Novecento la variabile del chiodo appare determinante per interpretare la filosofia degli alpinisti nei confronti della montagna, oltre ad apportare quell’inevitabile e progressiva svalutazione delle difficoltà che renderà sempre più agevoli le ripetizioni degli itinerari in rapporto alla prima ascensione. Tutta la storia si divide tra i sostenitori dell’evoluzione, che vuol dire un uso disinibito dei nuovi materiali di assicurazione e di progressione in parete, e i “conservatori”, coloro che privilegiano sopra ogni altra cosa il rispetto della roccia e – limitando i mezzi tecnici si sforzano di garantire una sfida ad armi pari tra l’uomo e la montagna. Non si può automaticamente concludere che questi ultimi manifestino un’autentica vocazione di salvaguardia ambientale, perché spesso intervengono fattori di chiusura psicologica e mentale (oltre all’evidente difesa delle proprie prestazioni) che mal si sposano con le vere ragioni della natura, ma è indubbio che il dibattito sul chiodo e suoi derivati – cioè tutto ciò che tende ad addomesticare le montagne – è quello che meglio esprime la sensibilità quasi sempre nostalgica e talvolta apocalittica degli alpinistti: “L’alpinismo è destinato a sicuro tramonto. Perché ce lo nascondiamo ancora? Tutti coloro che in questi ultimi tempi, con scritti forti e profondi, hanno studiato e proposto riforme o modi di arresto dell’inquinamento avanzante, sembrano illusi che ci sia ancora il più da salvare. Non posso pensare altrettanto: Non perché troppo vecchio e malato morrà l’alpinismo: esso conta nelle sue file parecchi uomini ancora senza macchia e senza paura. Ciò che porterà alla sua fine sarà la strapotente massa brutale dei suoi nemici. Da due lati lavorano questi a distruggerlo: da uno mediante le strade e gli alberghi, dall’altro mediante l’abbrutimento sportivo”. Naturalmente la storia continuerà, più intensa e più entusiasmante che mai, ma le analisi degli alpinisti non andranno quasi mai oltre questo registro, restie ad abbandonare il rassicurante ed elitario terreno dell’etica sportiva, almeno finché l’alpinismo non diventerà un possibile modello di imitazione collettiva. Ma per questo occorre attendere i nostri anni “sconsacrati”.
Nel Ventennio c’è un personaggio che eccezionalmente testimonia ricerca di armonia tra l’alpinismo di conquista e la difesa dell’ambiente (o forse dimostra proprio l’incompatibilità tra le due filosofie. Si tratta del trentino Renzo Videsott, l’unico grande alpinista italiano ricordato più dai naturalisti che dagli uomini di montagna. Eppure fu un arrampicatore geniale, istintuale, attivissimo, che soprattutto nel gruppo del Civetta si distinse con imprese di livello superiore, tra le poche in grado di competere con le prestazioni della Scuola di Monaco. Ma fu un’attività a termine, che chiuse un primo ciclo di ricerca nell’intensa vita di Videsott; a soli venticinque anni, nel pieno vigore della forza fisica, il giovane alpinista seppe rinunciare agli onori e alla sicurezza del successo per riconvertirsi a un’avventura completamente nuova: Compiuti gli studi di veterinaria presso l’Università di Torino, sempre più affascinato dalla natura e sempre più sensibile ai bisogni degli animali selvaggi, iniziò negli anni di guerra a interessarsi alla salvezza dello stambecco del Gran Paradiso, l’unico territorio delle Alpi dove ancora sopravvivevano poco più di 400 esemplari. Tutta la sua “seconda vita” sarà dedicata a questo ideale, prima come commissario e poi come direttore del Parco, con una concezione dell’equilibrio ecologico in anticipo di molti anni sulle convinzioni diffuse del tempo: “Prendi una cosa, e ti accorgerai che è legata a tutte le altre”. Se oggi, grazie al risveglio della sensibilità verso la natura, la nozione delle intime relazioni tra i vari protagonisti della biosfera comincia ad acquistare momento, tre decenni fa, quando Videsott ne parlava con profonda cognizione di causa, l’ambiente culturale italiano – fortemente segnato dallo storicismo da una parte e dal mito dello sviluppo tecnologico e industriale dall’altra – era portato a considerare la natura come “colonia”, come terra di conquista a oltranza.
Gli alpinisti non sono stati per nulla estranei a questa cultura del dopo guerra. Gli anni cinquanta e sessanta, al contrario, hanno probabilmente registrato il maggiore impatto sulla montagna a iniziare dall’abuso dei chiodi a espansione sulle cosiddette “direttissime” delle Dolomiti, per finire con le coloniali e scioviniste spedizioni himalayane che portarono alla salita dei vari ottomila. In questo quadro, per molti versi ancora iniziatico, si è poi inserito il grande fenomeno dello sci di massa che negli anni del consumismo ha contribuito rapidamente a trasformare la geografia naturale, sociale ed economica delle Alpi. Dal giorno
in cui è stato installato il primo impianto meccanico di trasporto collettivo, il territorio alpino ha virtualmente abdicato alla sua vocazione all’isolamento e si è sottomesso a un mutamento radicale, senza ritorno, dove l’ambiente un tempo meta di pochi fortunati diventava una formidabile valvola di sfogo per una moltitudine di cittadini storditi dai ritmi della vita industriale. Quell’ambiente affascinante e ostile, che tuttalpiù aveva significato una “fede” bislacca per qualche eccentrico alpinista, era stato rapidamente convertito in un bene di consumo dal valore inestimabile.
La graduale massificazione della montagna (sci d’inverno e turismo d’estate) coincide dunque con il periodo più radicale dell’alpinismo di conquista, anche se qua e là si fanno strada voci sensibili come quella di Gaston Rébuffat, che propone una visione più stemperata e più umana dell’andar per monti. I grandi protagonisti come Walter Bonatti, Cesare Maestri, René Desmaison, John Harlin e Chris Bonington risolvono gli ultimi problemi “naturali” delle Alpi, in estate e in inverno, in cordata e da soli, esaurendo le possibilità logiche ed evidenti offerte dalle grandi pareti e chiudendo inconsapevolmente l’epoca dell’alpinismo classico. Alcuni di loro, in particolare gli inglesi, estendono l’azione alle immense pareti himalayane, esportando lontano l’evoluzione alpina e aprendo la strada alle spedizioni leggere di fine millennio.

Trasgressione e omologazione
Come sempre, a un periodo di dedizione assoluta e incontrastata, segue una fase di riflessione e di rifiuto, dove la nuova generazione individua i lati oscuri dei propri “padri”, si ribella ed esplora altre direzioni. E’ quanto è successo all’alpinismo degli anni settanta, sulla scia dei messaggi politici e sociali del Sessantotto. Alcuni giovani alpinisti, distribuiti sulla curiosa linea della trasgressione Torino-Milano-Sondrio, rifiutano la tradizione “forte” e ambigua, un po’ da caserma e un po’ da sacrestia, ereditata dal passato e si ispirano fiduciosi al modello dell’arrampicata californiana per liberarsi dagli antichi tabù. Con difficolta essi ricercano un rapporto più armonico con la montagna e con la natura in genere, dove l’imperativo della vetta a tutti i costi va cancellato a favore di una serena e non finalistica proposta di “vita in parete”. Si rigetta con tutte le forze la “lotta con l’Alpe” di romantica memoria, stravolta da decenni di conquiste e sopraffazioni operate innanzitutto contro se stessi e di conseguenza contro madre natura. Si rincorre l’utopia della “pace con l’alpe”, senza la “a” maiuscola.
Questo rinnovamento, che sull’esempio della tradizione americana porta anche all’uso di nuovi materiali e di tecniche più rispettose della roccia, apre inconsciamente le porte a uno straordinario progresso nelle prestazioni sportive, perché affrancati dalle dure leggi dell’alta quota i giovani possono allenarsi a pieno tempo e concentrarsi come atleti sull’arrampicata fine a se stessa. Liberandosi dai pesanti carichi psicologici dell’alpinismo eroico, ma anche alleggerendosi più prosaicamente dal peso degli scarponi e dello zaino, ci si accorge di quanto sia ancora inesplorato il limite delle possibilità umane nell’arrampicata libera, cioè in quella scalata che si serve dei chiodi e di ogni altro mezzo artificiale soltanto per proteggere l’alpinista dai danni di una caduta e non per progredire in parete sostituendo gli appigli. In altre parole si riscopre un rapporto naturale con la roccia e con l’ambiente e, rigettando l’angoscia, si inventa un gioco sicuro che non ama intermediazioni tra l’uomo e la parete.
Fin qui la trasgressione. In realtà, per ironia della sorte, questo nuovo modo di arrampicare e questa filosofia della montagna si rivelano la prima formulazione universalizzabile dell’alpinismo, nel senso che piacciono ai giovani, non comportano rischi e fatiche particolari e soprattutto – nella logica dei grandi numeri – fanno gola agli operatori del mercato dell’attrezzatura sportiva. Cosi gli anni Ottanta registrano una rapida diffusione dell’arrampica libera, sostenuta da un look sempre più colorato e solo apparentemente informale, da un crescente interesse dei mezzi di comunicazione e dall’inaugurazione delle prime gare, che si svolgono a Bardonecchia nel luglio del 1985, sancendo la nascita dell’arrampicata sportiva. Ma la scalata su roccia non è che una delle varie espressioni del tempo libero in crescita, e tutte le attività montane si evolvono verso il consumo e la massificazione: dallo sci alla mountain bike, dall’escursionismo allo stesso alpinismo. Gli alpinisti scendono definitivamente dal piedistallo un po’ altero e un po’ esclusivo per dividere con tanti altri loro simili le bellezze e le emozioni delle Alpi.

Da Messner a Mountain Wilderness
Il personaggio che ha più compiutamente interpretato in prima persona la mutazione dell’alpinismo nell’ultimo ventennio, ergendosi spesso sul gradino di leader carismatico, è Reinhold Messner. Di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto. Ammirato e talvolta osannato dalla gente comune, invidiato e spesso vituperato dal popolo alpinistico, Messner ha espresso fino in fondo – pur nel suo rigoroso individualismo – le aspettative, le esigenze e anche le contraddizioni della generazione “di mezzo”, quella generazione che pur potendosi ancora permettere un alpinismo di notevole livello innovativo, ha cercato di superare le degenerazioni e le ipocrisie del vecchio alpinismo eroico. La sua ricerca, iniziata con le più difficili pareti dolomitiche e con una teorizzazione neo-romantica dei valori della montagna in opposizione all’alienazione della vita consumistica, passata attraverso la prima salita di tutte le vette himalayane da parte di un uomo solo, è infine sfociata nell’impegno ecologista in linea con il giovane movimento degli alpinisti chiamato “Mountain Wilderness”. La fondazione dell’associazione internazionale in difesa dell’alta montagna, avvenuta a Biella nell’autunno del 1987 alla presenza di numerosi e significativi esponenti dell’alpinismo mondiale, ha costituito una novità di grande rilievo nei duecento anni di storia alpinistica e ha segnato il primo serio esame di coscienza nei confronti dell’ambiente. Coloro che in passato avevano sempre “usato” la montagna come terreno di gioco (o di battaglia) per la propria emancipazione personale, finalmente si sono interrogati sui rischi di una tradizione così individualista e hanno deciso di promuovere ogni iniziativa atta a tutelare il delicato equilibrio delle Alpi e delle vette del mondo. Tra le azioni di maggior rilievo si possono ricordare le battaglie per la costituzione del parco internazionale del Monte Bianco, la campagna contro l’inquinamento della Marmolada, l’inchiesta e le denunce sulla cattiva gestione dei rifugi alpini, il manifesto a favore delle “Dolomiti monumento del mondo”. Ma Mountain Wilderness ha innanzitutto favorito tra gli alpinisti la crescita di una più matura coscienza ambientale, mettendoli di fronte alle conseguenze di una pratica aggressiva e distorta.
Evidentemente i problemi sono molto mutati dai tempi in cui poche centinaia di fortunati scalavano le vette delle Alpi. Oggi funivie, rifugi e itinerari alla moda vengono presi d’assalto con un impatto ambientale inimmaginabile fino a venti, trent’anni fa. Gli stessi parchi delle Alpi registrano momenti di super frequentazione, anche se le rotte alpinistiche di solito si differenziano da quelle escursionistiche, e tanto più da quelle naturalistiche. Tra i divulgatori di itinerari (associazioni, case editrici, riviste specializzate) ci si è spesso domandati negli ultimi tempi quanto sia lecito descrivere zone nuove, ancora integre e solitarie, con il rischio di vederne compromesse le caratteristiche. Ma la risposta è stata quasi sempre positiva, a fronte di un adeguato corredo di informazioni sul valore ambientale della regione e sulle conseguenze di una frequentazione scorretta. I fautori della divulgazione, tra cui la grande maggioranza degli alpinisti, sostengono infatti i benefici di una distribuzione più ampia delle persone sul territorio alpino, negando che un “oscuramento” elitario di alcune valli o di alcuni gruppi montuosi possa portare a una maggiore educazione e quindi a un reale beneficio per l’ambiente. Nonostante tutto, comunque, le mete classiche restano sovraffollate in modo abnorme rispetto alle zone “minori” creando urgenti e talvolta drammatici problemi di tutela per monti più conosciuti più ambiti. E’ il caso del Monte Bianco, letteralmente assediato da eserciti di turisti e alpinisti attratti dal primato della montagna più alta d’Europa e dall’eccezionalità degli spettacoli naturali. Ma il Monte Bianco, come tutti gli ecosistemi circoscritti, è un massiccio fragile, ormai al limite del collasso lungo le vie più battute, compreso il tunnel automobilistico che lo ferisce in profondità. Ancora più impellente è il problema delle Dolomiti, che rischiano di soffocare sotto l’onda crescente del turismo italiano e tedesco. La presenza dei parchi o dei progetti di parco nei gruppi meno alterati (Dolomiti di Brenta, Dolomiti Bellunesi, Marmarole-Sorapiss-Antelao) indica la strada da seguire, ma nelle zone centrali e cruciali dei Monti Pallidi si avvicina ad ogni stagione la drastica soluzione del numero chiuso, antidoto imperfetto all’invasione non pianificata con mezzi più raffinati.
E’ in corso un processo di maturazione che va trasformando il turismo montano, e si tratta di un figlio legittimo della cultura alpinistica. La crescente differenziazione dei gusti e la crescita delle opportunità favorisce ormai ovunque un turismo “soffice”, o “verde”, per cui una rassicurante minoranza abbandona la confortevole schiavitù dell’automobile e si addentra a piedi o in bicicletta sui sentieri delle Alpi. Assai più visibile e radicata in Francia, in Svizzera e in Austria, questa evoluzione porta con sé una più approfondita conoscenza del patrimonio naturale e quindi una maggiore coscienza ecologica, anche se comporta un aumento quantitativo dell’impatto diretto sull’ambiente. Qualità e quantità: su queste due variabili si giocheranno le scelte dell’alpinismo e del turismo alpino negli anni a cavallo del nuovo millennio.