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Le Alpi non sono un museo
11 luglio 2011

Le Alpi patrimonio dell’umanità? Le Alpi tra i grandi tesori della Terra? La candidatura discussa nei giorni scorsi dai rappresentanti di Francia, Svizzera, Austria, Germania, Slovenia e Italia al Museo nazionale della Montagna di Torino, sotto la guida della Regione Piemonte, che si è fatta capofila dell’operazione, può apparire scontata e problematica allo stesso tempo. Scontata perché nessun’altra catena montuosa al mondo presenta un tale concentrato di ricchezze naturali e culturali, affiancando – per esempio – monumenti della natura come il Cervino e il Monte Rosa all’antica civiltà dei Walser, e simboli di bellezza come le Dolomiti alla raffinata tradizione ladina e sudtirolese. Problematica perché le Alpi sono un territorio fragile e minacciato, dove vivono tredici milioni di persone che rifiutano un destino di invecchiamento e di spopolamento, e dove un esercito di oltre cento milioni di turisti sale ogni anno a usare, godere e abbandonare luoghi stupendi che rischiano di diventare «non luoghi», cioè paesaggi patinati ma senz’anima.
Le Alpi sono il giardino e la spina dorsale dell’Europa, ma anche il corridoio dei Tir e dei più costosi transiti internazionali in termini di inquinamento e vite umane. Le Alpi sono imbrigliate da circa 12 mila chilometri di impianti a fune e sono attraversate da 4 mila chilometri di autostrade. Sulle Alpi, secondo una stima della Commissione internazionale per la protezione dell’ambiente alpino, si percorrono 20 miliardi di chilometri a solo scopo turistico e le regioni ricche (Valle d’Aosta, Vallese, Oberland Bernese, Tirolo, Trentino) sfiorano il collasso a ogni estate. Nel raggio di poche valli c’è chi è costretto a introdurre il numero chiuso e chi soffre di solitudine, miseria e abbandono.
Complessità e fragilità: due parole chiave per «leggere» la realtà alpina. E’ ovviamente facile includere i parchi, o i ghiacciai, o i piccoli laghi, o le alte quote disabitate tra i luoghi da salvare. Ma non sarebbe né giusto né corretto fermarsi lì, perché le Alpi vanno intese come un unico sistema e non come una mappa di leopardo dove giardini senza vita si alternano a vita senza qualità. Lo stesso Unesco indica un indirizzo di priorità, favorendo «quei siti che portino un contributo fondamentale alla cooperazione tra paesi vicini in tema di rispetto per la natura, e di cultura e civiltà condivise».
Se le Alpi raccoglieranno la sfida – che da più sguardi appare come l’unica scelta vincente -, potranno candidarsi al ruolo di laboratorio europeo.
Si possono ipotizzare due fronti di riflessione e di azione. Da un lato la sfida del dialogo e della tolleranza, che significa restituire alle montagne la loro storica funzione di cerniera tra opposti versanti, la capacità di comunicare oltre le frontiere artificiali degli Stati e la vocazione a proteggere le etnie e le lingue minoritarie dall’invasione della cultura omologante. Dall’altro lato la sfida – ancora più urgente che altrove – di inventare uno sviluppo capace di futuro, che sappia superare i gravi errori del dopoguerra (abuso delle seconde case, monocultura dello sci) e rifiuti l’insidiosa tentazione del modello unico e globalizzante.
Prima ancora che di una questione ambientale, si tratta di un problema culturale: le Alpi possono diventare una sorta di periferia verde delle città, un immenso parco per i giochi dei cittadini, una colonia dei divertimenti oppure possono rivendicare la propria cultura millenaria e aspirare a un ruolo alternativo a quello urbano, valorizzando il territorio, l’agricoltura e la pastorizia di qualità, la piccola industria, l’artigianato e soprattutto un turismo «morbido» fondato sulle ricchezze ambientali e storiche, un turismo «lento» che sappia recuperare i ritmi naturali della montagna, un turismo inserito nel tessuto sociale delle popolazioni alpine.
Gli antropologi insegnano che l’unica salvezza per la tradizione viene dalla sua capacità di trasformazione e dalla disponibilità a «contaminarsi» con altre culture senza perdere l’identità originaria. Tutto il resto è un passo verso la museificazione o l’estinzione. Questo significa che la cultura alpina, o quel poco che ne rimane, ha bisogno della cultura della città (ampiezza di visione, capacità di programmazione), esattamente come i cittadini hanno bisogno delle montagne per sperimentare cieli liberi e tempi liberati. La contrapposizione tra montanari rozzi e virtuosi e cittadini civilizzati e corrotti è un pregiudizio vecchio quanto il mito di Rousseau («si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza»), un mito che sotto lo sguardo complice del romanticismo ha favorito due secoli di tentazioni colonizzatrici.