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La Stampa: selezione di articoli

Da Cavour a Schengen
12 marzo 2011

Perché l’Italia? Che c’entra la Liguria con la Calabria? E la Romagna con la Puglia? Il legame italiano è fisicamente incarnato dalla spina dorsale appenninica, uno scheletro geologico capace di tenere insieme la testa e i piedi dello stivale, circa 1300 chilometri di montagne che uniscono da sempre il nord, il centro e il sud della penisola.
Per le Alpi occidentali, al contrario, l’Unità d’Italia significò frattura e divisione, perché nel 1860 Cavour cedette Nizza e la Savoia ai francesi in cambio di aiuto diplomatico e militare. Tutti abbiamo studiato la formuletta sui libri di scuola, giocando a Risiko con le mappe post risorgimentali: a loro le terre che stavano di là delle Alpi, a noi quelle che sono di qua. Ci è sembrato “naturale” che lo spartiacque alpino separasse finalmente i due versanti per destinare a ogni stato i ghiacciai, i pascoli, le valli, i fiumi e le città che gli spettavano.
Sbagliavamo: la natura non c’entrava affatto. L’idea dello spartiacque alpino era forse “naturale” per i politici e i generali che l’avevano inventata per delimitare e difendere gli stati nazionali, certo non per i pastori e i viaggiatori che attraversavano i valichi, e neppure per le città di Torino e Chambéry che da secoli si scambiavano gli onori e gli oneri della capitale del Regno. Le Alpi Graie erano al centro del Regno di Sardegna e le alte cime del Monte Bianco, delle Levanne, della Ciamarella e del Rocciamelone non costituivano linea di frontiera. Le creste separavano i due versanti, non le culture e le appartenenze delle persone.
Anche la storia dell’alpinismo si è spesso confusa: per esempio il Monte Bianco non l’hanno scalato i francesi, ma due sudditi del Regno Sardo. Il medico Michel-Gabriel Paccard raggiunse la vetta nell’estate del 1786 in compagnia del cercatore di cristalli Jacques Balmat. Il dottor Paccard si era laureato all’Università di Torino ed era tornato a Chamonix senza attraversare nessuna dogana. Allo stesso modo non espatriavano i viandanti e i pellegrini che scavalcavano il Moncenisio, i commercianti che superavano il Piccolo San Bernardo, i pastori che inseguivano l’erba buona oltre il crinale o il giovane che si recava a cercar moglie e fortuna dietro la montagna di casa.
Tutto cambia centocinquant’anni fa, quando i torinesi cominciano a pensare che dietro le Alpi abiti lo straniero. Le cime diventano simbolo di patria e Quintino Sella, ministro del Regno d’Italia, si adopera per scalare il Monviso nel 1863 e strappare il Cervino agli inglesi nel 1865, senza successo. Comunque le montagne non sono più semplici pezzi di roccia che toccano il cielo, ma sentinelle della nazione. Per contro la civiltà alpina che aveva saputo evolversi con equilibrio armonizzando le ragioni dell’uomo e della natura, si impoverisce non tanto per le difficoltà oggettive della montagna quanto perché mutano gli scenari politici e le valli subiscono governi sempre più lontani e disinteressati. L’impoverimento e lo spopolamento non sono la “naturale” conseguenza del carattere severo dell’ambiente alpino, con cui i popoli delle Alpi hanno imparato a convivere con risultati sorprendenti, ma piuttosto il risultato dell’isolamento politico ed economico che, anziché correggerle, ha contribuito a esaltare le negatività ambientali, favorendo la fuga e l’emigrazione.
Oggi si è rovesciato nuovamente il quadro. Dopo Schengen e l’apertura delle frontiere le Alpi possono proporsi come la spina dorsale europea, superando il vecchio limite dei confini nazionali. Ma anche un altro significato di “confine” è ormai superato dai fatti, ed è quel limite invisibile che separa la montagna dalla pianura, o la cosiddetta cultura alpina dalla cultura urbana. Semplicemente non esiste più.
I rapporti tra città e montagna vanno riletti non come uno scontro tra presente e passato, ma come l’incontro di un mondo apparentemente solido con un mondo più delicato e fragile, ma che proprio in funzione delle sue fragilità può indicare alla pianura il senso del limite, il valore del tempo, un diverso modo di intendere lo “sviluppo”, meno schiavo del consumo e più interessato alla qualità della vita.

In vetta sventola il tricolore. Se l’alpinista è un “patriota”
19 marzo 2011

Spesso l’alpinismo ha sventolato le sue bandiere. Lo spirito anarchico e individualista degli alpinisti è stato ripetutamente piegato dai governi nazionali per issare sulle cime un simbolo di patria, e non solo in tempo di guerra.
La questione dovette apparire urgentissima al deputato e ministro del Regno d’Italia Quintino Sella, quando si accorse che le sue montagne portavano nomi italiani ma firme straniere. A parte il Monte Rosa, dove i Giordani e i Gnifetti avevano in parte preceduto la concorrenza, escluso il Monte Bianco salito da due sudditi del Regno di Sardegna, quasi tutte le grandi cime delle Alpi occidentali erano state scalate da alpinisti britannici: l’Argentera, il Monviso, la Barre des Ecrins, la Grande Casse, il Gran Paradiso, la Grivola, le Grandes Jorasses.
«È ora di rifarsi» pensò Sella nel 1863. Salì il familiare triangolo del Monviso e si stupì di quanto fosse facile. Al ritorno scrisse all’amico Gastaldi:
«Non v’ha cacciatore alpino, o dilettante di cosifatte escursioni, il quale non siasi parecchie volte trovato in faccia a pericoli assai più grandi di quelli che occorre affrontare per vincere questa meravigliosa cima. Ma era riserbata all’ardire di un inglese la gloria di salirla per primo».
Il Monviso non è altro che un Cervino in miniatura e la vera rivincita deve venire. Il “più nobile scoglio d’Europa” è corteggiato da Jean-Antoine Carrel di Valtournenche, patriota nelle guerre di Indipendenza, e da Edward Whymper, giovane disegnatore londinese. Anni e anni di orgogliose sfide si consumano il 14 luglio 1865, quando Whymper sale a sorpresa il Cervino dal versante svizzero e Carrel si trova battuto a duecento metri dalla vetta. Ancora una volta gli italiani devono accontentarsi della seconda ascensione.
Passano altri diciassette anni e il tricolore sventola finalmente sul Dente del Gigante, scalato dai figli di Quintino Sella con le guide Maquignaz. Il 29 luglio 1882 è un giorno luminoso per gli uomini del Club Alpino, che giudicano la conquista del Dente un atto supremo di italianità. L’eco della vittoria assume rilevanza nazionale, perché la guglia inaccessibile è stata domata in nome della patria da due illustri famiglie dell’alpinismo italiano.
«Si saliva a forza di braccia – racconta Alessandro Sella – coll’aiuto delle ginocchia e dei piedi poggianti sulle protuberanze della roccia… Il terribile camino termina alla spalla, donde senza difficoltà si fa la salita della cresta che conduce alla cima meridionale. Vi giunsi all’una pomeridiana, salutato dall’energico grido di “Viva l’Italia!” di Maquignaz».
Alla fine del secolo le cime inviolate scarseggiano e ci si rivolge ai versanti più difficili, poi la competizione alpinistica si sposta a est, in particolare sulle Dolomiti, dove la rivalità sportiva tra italiani e austriaci scivola tragicamente verso l’avventura bellica. Tutto si altera nello stordimento nazionalista che fa scrivere ai dirigenti dell’Alpenverein:
«L’alpinismo è stata una dura scuola in preparazione della guerra. La piccozza e lo scarpone sul campo di battaglia sono importanti quanto il fucile e la baionetta».
La Grande guerra svela brutalmente al popolo l’esistenza delle montagne e i valori eroici legati al sacrificio degli alpini sono usati dal fascismo per divulgare la retorica delle cime e idealizzare la figura dello scalatore: signore del vuoto, uomo di frontiera e portatore di bandiera. Il ventennio è il tempo della sovrapposizione tra patria e alpinismo, con degenerazioni suicide come la corsa alla parete nord dell’Eiger, in Svizzera.
Dopo la Seconda guerra mondiale l’alpinismo trasloca in Asia e i mitici ottomila diventano sigilli di supremazia per i vincitori e sogni di riscatto per i vinti. L’Himalaya è l’estensione della guerra a chi arriva in cima per primo, ma è anche l’ultimo rigurgito del nazionalismo. Dopo il Sessantotto si depongono le bandiere e un giovane sudtirolese, Reinhold Messner, confessa che in cima preferisce sventolare il suo foulard. Gli fa eco un torinese, Gian Piero Motti: scrive che le montagne non si conquistano, ma si sognano e si amano.

Le vette e gli operai. Quando la fabbrica saliva in montagna
30 aprile 2011

Non è retorico affermare che è esistita una relazione speciale tra la Torino operaia e le sue montagne, una specie di religione laica che trovava nell’understatement la sua forma e nell’impegno la sua sostanza. Per molti alpinisti-operai del Novecento il lavoro in fabbrica e il “lavoro” sulla roccia sono stati due facce del nobile mestiere fatto a mano, opere artigianali scandite dai tempi feriali della catena di montaggio e dai riti festivi dell’arrampicata.
C’era perfino una consonanza di colori tra il grigio della fabbrica – che era il grigio vivo della città – e le tinte sobrie, un po’ opache e mai appariscenti delle montagne di casa, Cozie e Graie, con le loro nebbie malinconiche e gli slanci nascosti. E c’era la stessa aria leggera in una giornata spesa bene al servizio del lavoro o in una scappata sulle creste innevate che prolungano l’orizzonte della metropoli subalpina, come una seconda anima.
Esisteva anche un lessico particolare a scandire il linguaggio degli alpinisti piemontesi estranei ai club e alle accademie, che senza darlo a vedere amavano sentirsi un po’ unici. Non superiori, ma diversi. Nei diari alpini di Franco Gheddo, il sindacalista della Cisl prematuramente scomparso nel 1997, si ritrovano molti di questi termini annotati con cura: “grippare” vuol dire avere paura, “bandare” o “trovare lungo” significa incontrare delle difficoltà sul cammino, la “buschina” è il bosco fitto dove si ritorna bambini strisciando tra i rovi, un “beté” è un incompetente, “goi” vuol dire piacere e “ruscare” significa lavorare ma anche faticare in montagna sotto il peso dello zaino, nella convinzione che ogni ascensione ben riuscita equivalga a un onesto mestiere.
Chi ha meglio raccontato queste affinità elettive è stato Primo Levi ne “Il sistema periodico”, rievocando la figura giovanile di Sandro Delmastro che nel 1944 cadrà vittima dei nazifascisti:
«Delle sue imprese parlava con estrema avarizia. Non era della razza di quelli che fanno le cose per poterle raccontare; non amava le parole grosse, anzi, le parole. Sembrava che anche a parlare, come ad arrampicare, nessuno gli avesse insegnato… Portava all’occorrenza trenta chili di sacco, ma di solito andava senza: gli bastavano le tasche, con dentro verdura, un pezzo di pane, un coltellino, qualche volta la guida del Cai, tutta sbertucciata, e sempre una matassa di filo di ferro per le riparazioni d’emergenza. La guida, poi, non la portava perché ci credesse, ma per la ragione opposta. La rifiutava perché la sentiva come un vincolo, un ibrido detestabile di neve e roccia fatto con carta…».
Chi ha meglio impersonato il binomio operaio-scalatore è stato Guido Rossa, vittima delle Brigate Rosse, che era di origini venete ma dei piemontesi ha incarnato l’asciuttezza e l’impegno: in fabbrica, in montagna e nella politica sindacale. I suoi atteggiamenti trasgressivi, che in qualche modo confluiranno nella rivolta alpinistica del Nuovo Mattino, erano motivati dall’idea che non si è grandi uomini sulle montagne se prima non si impara a condividere le condizioni degli ultimi. Rossa scriveva nel 1970 all’amico Bastrenta:
«Ottavio carissimo, da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici alpinisti l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, che ci liberi dal vizio di quella droga che ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio… Anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro, allargare fra tutti gli uomini la nostra solidarietà che porti al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale, che lasci una traccia, un segno nella vita di tutti i giorni…».
Anche questo è stato l’alpinismo operaio: la capacità di volare in alto senza staccarsi mai dalla quotidianità del lavoro e del bisogno, sempre pronti a ritornare in mezzo agli altri, a soffrire e lottare con loro. I Gheddo, i Delmastro e i Rossa non scappavano sulle montagne: ci andavano per capire meglio il mondo.

La tragedia sul Bianco. Due morti per non giudicare
10 novembre 2011

Ogni alpinista convive con un incubo: essere anticipato dalla perturbazione. Partire con la montagna amica e cadere nel gorgo della bufera.
Te lo sogni la notte quel fronte di nuvole grigie che si affaccia all’orizzonte e ti prende alle spalle, tu che scappi e lui che corre sempre più veloce, finché ti raggiunge e t’inghiotte. Come l’onda che bracca il navigante. Non è la fatalistica attesa delle perturbazioni di una volta, quando la meteorologia era scienza vaga e inattendibile, e si affrontava la montagna con lo spirito di chi, per forza di cose, era disposto a subire i capricci del tempo. No, è la spietata precisione delle nostre perturbazioni, oggi che le previsioni non sbagliano quasi più e puoi conoscere l’ora precisa in cui arriveranno le nebbie e scenderà il primo fiocco di neve, oggi che se sei veloce puoi far fesso anche il cattivo tempo a patto di non sbagliare, di non fermarti, di non voltarti indietro.
La guida francese Olivier Sourzac era forte e determinata, molto esperta, forse un po’ troppo sicura di sé. Olivier arrampicava con una cliente che conosceva molto bene: Charlotte De Metz. Insieme avevano fatto le vie più difficili del Monte Bianco. Erano già stati anche sulla parete nord delle Grandes Jorasses, che è tetra, difficile e meravigliosa, e offre agli alpinisti bravi una specie di accesso facilitato: il Linceul, lenzuolo in italiano. Immaginate un fazzoletto di neve e ghiaccio appiccicato alle verticali della grande Nord, ma senza roccia, senza strapiombi, così liscio e regolare che con le piccozze di oggi si può salire leggeri, anche molto veloci, raggiungendo la vetta delle Jorasses in meno di una giornata. Un giorno era il tempo che aveva messo in conto Olivier, senza dubbi evidentemente: così potevano uscire prima della tempesta e scendere in serata al rifugio Boccalatte, sul versante italiano. Scalare leggeri ed evitare il bivacco sulla montagna: quello era il piano.
Ora sarebbe facile scrivere che Sourzac si sbagliava perché su una grande parete è sempre possibile fare tardi, basta un imprevisto, un piccolo incidente, un cedimento fisico, e se sta arrivando una bassa pressione così organizzata come quella che ha alluvionato la Liguria e mezza Italia bisognerebbe tenersi un buon margine per poter scappare o tornare indietro. Sarebbe facile ma ingeneroso, perché non abbiamo diritto di giudicare chi ha perso la propria vita senza risparmiarsi. Nonostante sia stata una specie di “morte in diretta” non sapremo mai che cosa sia successo sul candido Lenzuolo, che quando sono partiti dal ghiacciaio doveva sembrare un velo da sposa che scintillava sotto il sole d’autunno e dopo poche ore si è trasformato in un sudario senza speranza. Non sapremo mai perché abbiano fatto tardi e perché si siano lasciati braccare dalla perturbazione, sappiamo solo che sono arrivati in cima in un’alba che non è mai diventata giorno.
I soccorritori che ieri hanno raccolto le salme dei francesi sotto uno spuntone di roccia splendidamente ricamato dal gelo sulla via normale delle Grandes Jorasses, raccontano di quanto la morte appaia come l’esito più paradossale, prima ancora che crudele, per chi salga in una mattina di sole su una montagna splendente di luce e neve fresca. Bellezza e tragedia si toccano e misteriosamente convivono: non si può dire nient’altro. Chi ha provato la confusione della nebbia, del vento e dell’angoscia in alta montagna può vagamente immaginare la ragione di certe scelte estreme, di certi abbandoni, ma solo i protagonisti potrebbero raccontare. Per bravo ed esperto che sia, quando un alpinista viene inghiottito dalla bufera entra in una realtà separata, fatta di bisogni e reazioni elementari o di sentimenti inesprimibili. Il freddo e la debilitazione dell’organismo allontanano gradualmente le persone dalla vita e si entra piano in un mondo a parte. I pensieri si dissociano dal corpo, il tempo perde il suo valore e anche la paura svanisce in un limbo senza dolore, bianco come la neve che sta attorno.
Così raccontano quelli che sono sopravvissuti.