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La Stampa: selezione di articoli

Traditi dal buio e dalla tecnologia
19 gennaio 2009

Probabilmente non sapremo mai che cosa sia veramente successo ai quattro alpinisti precipitati nella notte tra sabato e domenica sulla parete nord ovest dell’Aiguille du Midi, 3800 metri, versante francese del Monte Bianco. Erano impegnati su una via relativamente breve e apparentemente domestica, che sale a poca distanza dalla funivia.
L’Aiguille du Midi è la cima più famosa del Monte Bianco. D’estate ci vanno anche le signore con i tacchi, d’inverno gli sciatori. A sud presenta una parete di magnifico protogino, paradiso degli arrampicatori, a nord precipita verso la valle di Chamonix con un versante glaciale molto severo, proprio sotto la funivia. Accanto al classico sperone Frendo, ci sono itinerari alti mille metri che talvolta costringono al bivacco, e altre ascensioni più accessibili. E delle volte c’è il trucco.
Per superare la goulotte Vogler, un nastro di ghiaccio di circa 250 metri, ci si cala in corda doppia dalla passerella artificiale della stazione sommitale con un vertiginoso salto nel vuoto, poi si raggiunge la base dell’itinerario con altre cinque calate. Finita la discesa si comincia a salire, come Arianna che riavvolge il suo filo. È una soluzione surreale ma sicura, molto lontana dalle odissee dell’alpinismo invernale di una volta, che permette di fare l’ascensione in giornata, con zaini leggeri e senza la marcia di avvicinamento. E d’inverno, nonostante il freddo, ci sono meno rischi che d’estate.
Oggi il ghiaccio ripido non fa più paura, perché le moderne piccozze e i ramponi da “piolet-traction” regalano gesti da fantascienza perfino sugli strapiombi. I ghiacciatori si fanno le ossa sulle cascate di fondovalle, scalano muri d’acqua congelata e fantastiche stalattiti, poi qualcuno si cimenta con l’alta montagna. Il tratto più difficile dalla goulotte Vogler raggiunge una pendenza di 80 gradi, di poco sotto la verticale: come una cascata difficile, ma non troppo. Poi l’itinerario si addolcisce e sale verso la cresta dei Cosmiques, il granito rosso di sole, il conforto della funivia. Via i ramponi, via la neve dai pantaloni, e in mezzora si è di nuovo giù a Chamonix per una birra o una raclette.
Ma d’inverno le giornate sono brevi, soprattutto in gennaio, e la notte arriva anche sull’Aiguille du Midi, la cima più frequentata del mondo. La notte sopraggiunge da est, inghiotte la valle, le pareti, le creste, i ghiacciai, e quando cede anche il Monte Bianco è buio per tutti.
Per qualche motivo che non sapremo mai (un malore, un incidente, le cattive condizioni della montagna) i quattro compagni fanno tardi, troppo tardi, anche se la vicinanza della funivia li tranquillizza, perché la luce è appena lì sopra, come un faro. Dopo le dieci di sera, è ormai buio da quattro ore, provano a chiamare aiuto. I sorveglianti, sporgendosi sulla parete, vedono le pile degli alpinisti che ondeggiano nell’oscurità, appena sotto la cresta. Sono quasi in cima, ma quel “quasi” fa la differenza alla soglia dei quattromila metri, di notte, in pieno inverno. Allora i sorveglianti chiamano il Soccorso alpino di Chamonix, sempre all’erta nella capitale dell’alpinismo, che approfitta di una corsa speciale per raggiungere la cima dell’Aiguille. Ma quando i soccorritori si affacciano a loro volta poco prima di mezzanotte, le luci sono scomparse e non c’è più traccia dei piemontesi. Probabilmente sono già precipitati, tutti e quattro insieme, nel tentativo di raggiungere il loro faro.

Non chiamate la montagna assassina
5 agosto 2009

Di fronte alla tragedia, in faccia al dolore, è naturale cercare una spiegazione. Se si è uomini, non si può restare insensibili al sacrificio di una vita umana. Perché allora? L’errore tecnico? La montagna assassina? La parete traditrice? Da sempre, davanti alla morte in montagna, si sprecano i luoghi comuni.
La verità è che gli alpinisti non sono dei pazzi, quasi mai, e non esiste nessuna montagna assassina. I sassi non tradiscono e i seracchi non uccidono. La verità è che anche per chi cerca l’avventura sulle montagne, e l’alpinismo è certamente avventura, la disgrazia è estranea al progetto, che è sempre scelta di passione e di vita, mai di morte. Ma la gente non capisce l’alpinismo proprio perché è rischioso, difficilmente catalogabile, e appartiene a quelle sfide irrazionali, scandalosamente inutili, dove non si vince nessun premio e non si diventa famosi. Neppure la grande guida ampezzana Angelo Dibona lo diventò quando scalò la sontuosa parete della Meije prima della Grande Guerra, e men che meno lo si diventa oggi, che la parete ha le sue belle centinaia di ripetitori, per vie anche molto più impegnative della storica Dibona.
Perché allora? Semplicemente perché la montagna è fatta di elementi imperfetti e instabili, come le pietre e i seracchi, appunto, e perché anche gli alpinisti sono imperfetti, come ogni altra persona, e non c’è esperienza o assicurazione che possa eliminare la forza di gravità, il fulmine, la valanga, l’imprevisto e l’imprevedibile.
Non è vero che in montagna si muoia più di prima, è solo una questione di numeri: siamo in agosto, le pareti sono finalmente asciutte e la gente ha le ferie a disposizione. Tutto qui. Non c’è dunque nessun mistero dietro queste disgrazie, nessun morboso retroscena; il mistero, semmai, va cercato nella voglia di qualcuno, e sono a migliaia, di mettersi ragionevolmente in gioco su un terreno fuori moda come l’alta montagna, dove nonostante le previsioni meteorologiche, i cellulari e i materiali sofisticati da scalata, l’avventura non è ancora programmata e il pericolo eliminato, e per altri mille anni non lo sarà.

Il mito di vivere come Heidi
8 agosto 2009

È molto italiana l’idea della seconda casa. Guadagni rapidi per chi cede il terreno, per chi costruisce, per chi vende, e la speranza, per chi compra, di acquistare e conquistare un pezzo di montagna, di costa, di paradiso. Ma di solito è un’illusione, perché i luoghi sono di chi li vive e vivendoli li trasforma, e trasformandoli li rende umani, mentre la casa stagionale resta quasi sempre un corpo estraneo, anche se nato dalle migliori intenzioni.
Buone erano le case di villeggiatura di una volta, seconde case certamente, ma dove si respirava un’idea nobile di vacanza, con sguardi di città imparentati allo spirito della montagna. Erano le case in cui le famiglie borghesi collezionavano estati, escursioni, conversazioni e tramonti, e con i propri pensieri arricchivano la cultura locale, affiancandola, interrogandola, amandola. Forse non fu mai vera integrazione, ma rispetto sì, e vicinanza sincera.
Poi è venuta la speculazione edilizia del dopoguerra, che ha trovato nel mercato della seconda casa un’inesauribile valvola di sfogo, con fabbricati sempre più simili ai palazzi di periferia (nella falsa convinzione che i cittadini cercassero la città sulla montagna) o ispirati all’architettura ipocrita del rascard e dello chalet, con cui si finse di salvare la tradizione rurale dell’alpe quando l’alpe ormai non esisteva più. Il primo motore della trasformazione immobiliare alpina è stato lo sci di massa, che ha cambiato in due decenni i connotati paesaggistici, economici e culturali delle alte valli. E ben presto ci si è accorti che il danno ambientale delle seconde case era pari al danno sociale, perché si trattava di un’invenzione concepita non per immergersi, ma per isolarsi dalla realtà locale. Spesso si abitava (e si abita) la montagna continuando a vivere, pensare e mangiare esattamente come in città, con una forma di colonizzazione disarmata del territorio fondata più sulla svagata astrazione che sulla presa di possesso. La seconda casa era e resta il paradigma di un turismo che cerca l’altrove per ridurlo a propria immagine, come se il mondo (urbano, montano, marino) meritasse un solo sguardo e un’unica dimensione.
Le seconde case costringono la montagna e i montanari a una vita a fisarmonica, con dolorosi contrasti fra il tempo festivo e il tempo feriale, quando i palazzi si svuotano e diventano fantasmi. Davanti a quella massa di gente sfaccendata e sorridente che sale a frotte dalle pianure, apre casa, chiude casa e scappa via, è facile credere che i cittadini siano i fortunati, anche se sono loro stessi a salire in montagna per salvarsi dalla città.

L’alpinismo non è una guerra
11 agosto 2009

L’alpinismo non è una guerra, anche se qualcuno usa ancora le stesse parole dei soldati: attaccare la parete, conquistare la cima La montagna è passione e scelta di vita, anche se d’estate emette il suo triste bollettino di guerra e ogni mattina i giornali aggiornano il conto delle vittime. Trenta morti in cinquanta giorni, ha battuto ieri un’agenzia di stampa, e son tanti pur nell’approssimazione delle statistiche, per una pratica che molti commentatori, nel corso del tempo, hanno definito inutile o addirittura condannabile.
Nel luglio del 1961 Dino Buzzati scriveva sul Corriere:
«In quanto a coloro che sostengono l’assurdità delle imprese alpinistiche accusandole di eccessivo pericolo, inutilità pratica, esibizionismo e così via, si tratta di una polemica che è sempre esistita e durerà sicuramente quanto il genere umano. Si può star certi che quando partirono gli argonauti, quando Ulisse tentò le Colonne d’Ercole, quando Icaro fece il famoso volo, i commenti in piazza furono tali e quali i commenti che si odono oggi per la tragedia del Monte Bianco». Buzzati si riferiva alla tempesta che quell’estate causò la morte di quattro famosi alpinisti sul versante italiano della montagna, nel tentativo di salire una difficile via nuova, il Pilone centrale. Fu quasi una morte in diretta, perché l’impresa di Bonatti e compagni era seguita dai giornali e dalle televisioni.
Al contrario, i morti di oggi non sono né famosi né innovatori. Sono quasi tutti alpinisti ed escursionisti “normali”, gente che ripete i gesti e gli itinerari di chi li ha preceduti, non punta ad aprire vie spettacolari e non si aspetta nessun riconoscimento o menzione particolare, nemmeno dalle cronache dei giornali. Anche perché purtroppo sui giornali ci vanno solo in caso di disgrazia. Sono infatti molti anni che i media si occupano distrattamente dell’altra faccia dell’alpinismo, quella esplorativa e creativa, un po’ perché sulle Alpi scarseggiano ormai i terreni di esplorazione (ma esistono altrove, e non se ne scrive lo stesso), un po’ perché mancano le «parole per dirlo» e dopo le imprese di Reinhold Messner sembra che l’alpinismo si sia richiuso in un circolo iniziatico, destinato ad alimentare i propri miti.
Questo non significa che la gente non vada in montagna. Al contrario. Attività come l’escursionismo, lo sci alpinismo e l’arrampicata sono in incremento perfino in un paese di pigri come l’Italia, e anche l’interesse per l’alpinismo si rinnova di generazione in generazione, talvolta cercando forme nuove, più comode e sicure. E qui sta il primo punto: a un esame ancora imperfetto degli incidenti recenti (i rapporti del Soccorso alpino saranno disponibili solo alla fine dell’anno) sembra che i terreni più rischiosi rimangano i sentieri e i loro dintorni (la classica scivolata sul prato o sul ghiaione) e le ascensioni in alta quota, dove, il pericolo per l’alpinista, è legato al tipo di terreno e all’instabilità delle rocce, neve e ghiaccio. Se c’è un posto in cui la tecnologia può fare poco è proprio l’alta montagna.
E qui forse sta il secondo punto. La tecnologia, i materiali sofisticati, le raffinate previsioni meteorologiche, i cellulari, gli elicotteri del soccorso, in una parola l’eccesso di sicurezza, possono rivelarsi psicologicamente controproducenti. Quando si partiva per la montagna sapendo di poter contare solo sulle proprie forze, si mettevano certamente in conto il temporale improvviso o il bivacco all’addiaccio, e si era preparati ad affrontarli con l’equipaggiamento povero di allora. Per un sano atteggiamento mentale, nessuno si illudeva di programmare gli imprevisti dell’ascensione, e l’incognita era il sale dell’avventura.
Certo la tecnologia offre materiali e soluzioni molto più efficaci, ma parallelamente insinua ipotesi certe e variabili quantificabili, anche se in alpinismo non c’è niente di certo, tranne l’avventura stessa.