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La Stampa: selezione di articoli

Petit Dru dove osano gli angeli ribelli
17 agosto 2016

Il primo gennaio 1966 Paolo VI implora i politici americani e vietnamiti: «Adoperatevi in questa crisi dolorosa per favorire una giusta soluzione». Non ottiene risposta. Il 9 gennaio gli americani sferrano l’offensiva “Operazione Trappola” ma i vietcong non si fanno intrappolare. Qualcuno comincia a pensare che sarà una guerra lunga. Il 6 luglio cinquanta aviatori statunitensi, catturati, sfilano in catene nelle strade di Hanoi. Ho Chi Minh li bolla come “pirati dell’aria” e li addita al pubblico disprezzo. L’America è sotto shock e i giovani capiscono che bisogna opporsi alla guerra, per non morirci.
Quella del 1966 è una pessima estate anche per chi è in vacanza. L’Europa centrale è colpita da perturbazioni a raffica, che in novembre sfoceranno nell’alluvione di Firenze. Sulle Alpi piove tutti i giorni e gli alpinisti fremono nelle tende e nei rifugi. Eppure, il 13 agosto, due tedeschi incoscienti partono per la parete ovest del Petit Dru, la più difficile del Monte Bianco. Sono il meccanico di Hannover Hermann Schriddel e lo studente di Karlsruhe Heinz Ramisch, conosciutisi per caso in un campeggio d’alta quota. Bivaccano due volte nella prima parte dell’itinerario e il giorno di ferragosto raggiungono uno dei passaggi storici della via, il diedro di novanta metri, dove scoppia un temporale. Si riparano sotto un nylon. Il 16 il tempo migliora e i due riprendono a salire. Un chiodo cede, Schriddel cade e Ramisch lo trattiene con la corda. Il 17 agosto provano ad affrontare il passaggio del “chiavistello” che li respinge. Allora si appendono ai chiodi e rinunciano. Heinz e Hermann sono bloccati con mille metri di vuoto sotto gli scarponi. Scatta la più difficile operazione di soccorso.
Il funambolico salvataggio del Petit Dru è un sorprendente anticipo del Sessantotto che verrà: autorità e principio dell’ubbidienza da un lato; anarchia, creatività e disubbidienza dall’altro. Chi è troppo vecchio per capire i giovani, chi è troppo giovane per sopportare i vecchi. Anche il teatro della vicenda ha qualcosa di eversivo, perché gli scudi granitici dell’Aiguille du Dru incarnano la ribellione della materia alla legge di gravità. Nel 1952 i transalpini Magnone, Berardini, Dagory e Lainé hanno scalato la parete aprendosi la strada tra lastroni di protogino. Nel 1955 Walter Bonatti ha affrontato da solo il pilastro sud ovest, firmando una delle più grandi imprese dell’alpinismo. Sette anni dopo sono arrivati gli americani Gary Hemming e Royal Robbins, che hanno raddrizzano l’itinerario dei francesi. Robbins è il guru della Yosemite Valley, Hemming un vagabondo che gira con maglioni rattoppati facendo strage di signorine. Quando nevica si mantiene spalando la neve dai tetti degli alberghi di Chamonix, quando fa bel tempo apre nuove vie sul Monte Bianco.
Il 19 agosto 1966 Hemming decide di lanciarsi in aiuto dei tedeschi ignorando le direttive delle autorità titolari del soccorso. Con altri cinque temerari prende il trenino del Montenvers e sale verso la parete madida di pioggia. Ci vuole fegato a partire per la Ovest del Dru con il maltempo, ma quella è l’idea, geniale o suicida.
Il secondo disubbidiente è René Desmaison, guida famosa, alpinista guascone e provocatore. Ha salito quattro volte la grande parete firmando la prima solitaria e la prima invernale. Nessuno la conosce come lui. I militari hanno stabilito che per portare a casa i due naufraghi occorra salire in cima per la via normale, ancorare un argano e srotolare un lungo cavo sugli strapiombi. È un’operazione rischiosa e complicata, che richiede più di quaranta soccorritori. Desmaison pensa che i militari perdano tempo. Anche i capi delle guide tentennano e lui sbatte la porta: farà da solo come l’americano.
«Hello, René! Come va?», urla Hemming.
«Tutto bene Gary, ma che tempo orribile!»
Il 20 agosto Desmaison raggiunge le cordate in parete, si unisce a Hemming e continua a scalare. Intanto a Chamonix finalmente si parlano: capo del soccorso, capo dei militari, capo delle guide, sindaco, sottoprefetto, presidenti vari… L’incontro al vertice consiglia di attaccare anche sul fronte della parete nord reclutando forze nuove. Ora sono sessanta uomini aggrappati alle rocce del Dru: un piccolo esercito.
Quelli della Ovest sono rimasti in quattro ma vanno su di corsa. Il 21 agosto scalano il diedro e si avvicinano all’altezza dei due naufraghi.
«Come state?», urlano ai tedeschi.
«Gut, gut», risponde Heinz.
Incredibile: sono ancora vivi! Adesso non resta che abbracciarli e buttarsi giù in corda doppia: «Una caduta – scrive Hemming su Paris Match –, una lunga caduta in basso. Discesa verso la terra. Ritorno verso “gli Stati Uniti invaderanno il Vietnam del Nord quest’autunno?” Ritorno verso un bagno caldo e un letto».
Atterrano alla base senza un graffio. Una manciata leggera di uomini, su e giù per la via impossibile. La Francia tira un respiro, brillano i flash, Schriddel e Ramisch spargono sorrisi di riconoscenza. L’eroe dei Drus è il biondo beatnik delle nevi Gary Hemming, clochard celeste, angelo della montagna. Invece Desmaison è il ribelle perché ha disubbidito alla Compagnia delle guide ed è stato espulso. Per il grande pubblico René è un interprete consumato, Hemming il ragazzo fragile in cerca di sé.
Nel 1969, tre anni dopo i giorni umidi ed esaltanti del Petit Dru, l’americano muore per un colpo di pistola sulle Montagne Rocciose. Nessuno sa perché. Qualcuno, probabilmente ubriaco, punta la rivoltella contro qualcun altro e Hemming non ce la fa più. «Gary si allontanò di corsa – scrive Desmaison –. La violenza che era nata in lui l’avrebbe rivolta contro se stesso. Nella notte una detonazione risuonò sulle acque calme del lago Jenny».

Il mito dello sport estremo si schianta in volo
19 agosto 2016

Si fa presto a dire estremo, ma la confusione è dietro la porta. Tra gli sport della montagna considerati «estremi» cadono comunemente nello stesso mucchio l’alpinismo, l’arrampicata, lo sci ripido e il base jumping, ma non sono assolutamente la stessa cosa. Tranne casi eccezionali l’alpinismo è una pratica d’avventura a medio-basso tasso di rischio, l’arrampicata – se protetta da chiodi o tasselli – è uno sport assolutamente sicuro in palestra e quasi sicuro sulla roccia vera, nello sci ripido il rischio aumenta significativamente secondo le prestazioni, ma solo per il base jumping e il volo con la tuta alare si può veramente parlare di pratica estrema, specie se indirizzata a fini pubblicitari e spettacolari. «Volo quasi tutti i giorni» dice in un bellissimo film la campionessa americana Ellen Brennan, «tranne quando devo andare al funerale dei miei amici».
Oggi si salta e si muore spesso «in diretta», con la videocamera addosso, e questo aggiunge assurdo all’assurdo perché non di rado, al rischio del volo, si sommano pressioni esterne e ambizioni di visibilità. Inoltre i campioni condividono le loro emozioni sui canali social, facendone una specie di rito collettivo. In realtà conoscono benissimo i rischi che corrono e sanno che non possono permettersi di sbagliare. Mai.
Il base jumping è un’evoluzione del paracadutismo: non ci si butta più dall’aereo ma dalle cime delle pareti o da ogni struttura abbastanza alta da permettere l’apertura della vela. A sua volta la tuta alare è un’evoluzione del base jumping, non tanto per il punto di lancio quanto per le modalità del volo. Il padre della tuta alare è Patrick de Gayardon, uomo copertina dei rotocalchi francesi degli anni Novanta, che sperimentò una tuta capace di contrastare la forza dell’aria permettendo al paracadutista di «volare». L’intuizione venne osservando le ali dei pipistrelli. De Gayardon si buttò da un elicottero per planare tra le guglie del Monte Bianco, poi tiro la cordicella e atterrò con il paracadute.
In vent’anni i materiali e le tecniche si sono naturalmente evoluti, ma soprattutto sono cresciute sicurezza e spavalderia. Ci si butta direttamente dalle montagne confidando di allontanarsi in fretta dalla parete planando. Si rasenta l’ostacolo come i falchi. Si fa il pieno di adrenalina diventandone dipendenti. Quando si impara a volare a braccia aperte nell’aria imitando il sogno di Icaro si tende a osare sempre di più e nasce la tentazione di sfiorare le cime degli alberi a duecento chilometri orari o di infilarsi come proiettili nei canaloni. Tutto sembra possibile, anche l’allucinante passaggio di Uli Emanuele nella cruna di roccia della Lauterbrunnental, ma basta uno scarto irrisorio per fallire. In un altro film sul volo con la tuta alare si vede un saltatore che urta impercettibilmente la cresta di un dosso, come accarezzandola, ma quel saltatore è spacciato.
Gli appassionati arrivano qualche volta dal mondo dell’alpinismo (è il vecchio sogno di scalare la montagna e scendere a valle in volo), più spesso dal paracadutismo. Sono in aumento, anche se per fortuna resta un’attività di nicchia. Per cominciare a volare servono alcune migliaia di euro e di solito si ricorre all’aiuto dello sponsor. Gli incidenti mortali sono frequenti anche tra i campioni come Uli Emanuele. Il 13 agosto scorso è morto un australiano di 27 anni in Valle Sarca, vicino al Lago di Garda. Due mesi fa si è schiantato sulle rocce del Monte Bianco Dario Zanon, espertissimo jumper veneto. Si potrebbe ipotizzare che gli adepti crescano per imitazione, stregati dalla bellezza dei video caricati generosamente su internet e dall’apparente banalità del volo. Non credo sia così, perché basta salire su un precipizio e guardare giù per cambiare rapidamente idea.

Così il Novecento ha (ri)costruito le Alpi
19 dicembre 2016

Nel 1986 lo storico francese Philippe Joutard scrive “L’invention du Mont Blanc”. Il libro sostiene che la montagna è sempre stata là ma gli uomini non l’hanno mai vista, considerandola un disordine della creazione o una punizione divina, finché la sensibilità romantica non ha trasformato in sublimi meraviglie le «orride bellezze» alpine. Alla fine del Settecento i romantici hanno “inventato” il Monte Bianco e le Alpi intere, fondando la pittura e la letteratura alpestri, aprendo al turismo, inaugurando l’alpinismo.
Antonio De Rossi, ordinario di Progettazione architettonica e direttore dell’Istituto di architettura montana del Politecnico di Torino, va oltre la provocazione di Joutard esplorando quello che viene dopo: la costruzione delle Alpi. In un poderoso studio edito nel 2014 da Donzelli sostiene che «le Alpi, così come oggi noi le conosciamo e le percepiamo, sono state “costruite” attraverso la trasformazione del territorio alpino e la costruzione di un immaginario, di una rappresentazione». Il primo volume tratta lo sguardo pittoresco e la visione ottocentesca delle Alpi. Ora, con un altrettanto poderoso studio dedicato al Novecento, dalla Grande Guerra ai nostri giorni, De Rossi affronta il “modernismo alpino”, un fenomeno di cui tutti conosciamo i risultati, dandoli per scontati, ma di cui ignoriamo la genesi e trascuriamo gli sviluppi. Ci sembra che quelle cose siano sempre state lì, e invece sono state ideate e costruite in seguito a precisi ragionamenti, dibattiti, scontri, conciliazioni, correzioni, rimpianti.
Per esempio crediamo che un tempo le Alpi fossero un posto rustico per montanari ignoranti, e che sia stata la città a portare cultura e ricchezza. È un pregiudizio, perché la pianura era spesso più ignorante della montagna e la città ha portato intuizioni e altrettante illusioni e disordini, tanto che oggi, in molti luoghi, si vorrebbero correggere gli errori del passato. Il Novecento è un lungo, ininterrotto scambio tra cultura montana e urbana, a netto vantaggio della seconda.
Per la città le Alpi sono state il terreno della sperimentazione, lo spettacolare ed estremo laboratorio del futuro. Ma perché si è costruita la montagna? Che idea ha guidato la modernizzazione delle cime? De Rossi non si arrende alle semplificazioni, non ricorre al facile binomio antico-moderno, tradizione-innovazione. Il cambiamento di una civiltà sembra un processo scontato e non lo è affatto, nemmeno nei suoi effetti. Per esempio non è scontato che, nel Ventennio, si passi dalla montagna romantica alla montagna futurista, cioè dalle stelle alpine al trinomio sci, donne e motori, inventando l’inverno dei bianchi piaceri e trasformando radicalmente la visione del paesaggio a duemila metri. Perché? E ancora: come mai i valori che negli anni del boom sembravano inossidabili e vincenti – la meccanizzazione delle Alpi, le seconde case, le città della neve, le stazioni dello sci totale – si rovesciano alla fine del secolo, quando la sensibilità ecologista smaschera il modello consumistico valorizzando la sobrietà della montagna, i parchi naturali, l’agricoltura biologica, il mangiare locale, l’andare a piedi? Perché?
De Rossi indaga innanzitutto con l’occhio dell’architetto, usando il come per spiegare il perché, descrivendo la costruzione del paesaggio, i processi grafici e mentali che sorreggono i pensieri dei progettisti, la fede tecnologica che muove i grandi interventi (per esempio le dighe e le centrali idroelettriche, oppure le funivie che bucano il cielo), ma non trascura mai i presupposti culturali che hanno plasmato l’immaginario. Nel tentativo quasi enciclopedico di raccontare le trasformazioni fisiche e simboliche delle Alpi, l’autore incrocia la morte dello chalet con il modernismo architettonico, il mito dello sci con l’urbanistica d’alta quota, la montagna eroica con la montagna sfruttata, l’ebbrezza dei motori con i caroselli stradali, la febbre dell’industrializzazione con la nostalgia dell’alpe ottocentesca. Attraverso gli interventi visibili che modificano il territorio l’autore cerca di leggere i pensieri invisibili di chi ha voluto e progettato quei mutamenti, chi ha firmato le grandi idee, chi le ha copiate e stravolte. Dietro un Mollino che progetta la Casa del Sole ci sono cento, mille imitatori che spacciano un condominio per casa d’autore.
Sulle Alpi, molto più che in pianura, lo scivolamento dall’evoluzione all’involuzione è spietato e senza ritorno. Tutto scivola sui pendii, anche le buone idee. Le Alpi esaltano le intenzioni e condannano gli errori, senza mezze misure. Se un progetto non è inserito nel territorio, se non rispetta l’ambiente alpino, è la montagna stessa a rigettarlo con le frane, il degrado e il fallimento. Nella stratificazione delle civiltà posatesi sulla roccia delle montagne, che l’ultimo secolo ha segnato con lucide provocazioni e disastrosi abbagli, le Alpi di oggi sono un plastico di storia a cielo aperto. La civiltà alpina tradizionale appartiene al passato e il modernismo a una vecchia idea di futuro. Bisogna imparare un’altra volta a progettare le Alpi, salvandole. Sono il cuore verde dell’Europa.