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La Stampa: selezione di articoli

Lassù vicino al cielo respira un’altra Italia
1 giugno 2013

Un percorso editoriale curioso ha portato alla “traduzione” di questo libro, che è un testo importante negli studi sulla montagna, uno sguardo innovativo. L’autore è italiano, si è laureato all’Università di Napoli ed è stato ricercatore in Inghilterra, Stati Uniti e Catalogna; il tema è tutto italiano e indaga il rapporto tra montagne e nazione nella storia ottocentesca e novecentesca del nostro paese; eppure Marco Armiero si è pubblicato da sé in lingua inglese, a Cambridge nel 2011, come se il nostro mercato non fosse ancora pronto ad accogliere il suo punto di vista. Ora Einaudi mette le cose a posto e ci permette di leggere, riflettere, commentare.
La spiegazione all’anomalia editoriale, che evidentemente riflette un disagio culturale, la fornisce lo stesso Armiero nelle prime righe: «L’Italia è il paese dell’arte, della mafia, del buon cibo e degli scandali politici; la sua immagine pubblica ha poco o nulla a che spartire con la natura. Se poi proprio si vuole parlare di natura, bisogna accontentarsi di una natura ibrida, diversa da quella assoluta delle montagne». Niente a che vedere con la wilderness americana, che è anche la memoria simbolica di uno stato di frontiera, oppure con le foreste tedesche e scandinave, che sono luoghi mitici e inviolabili per la civiltà di quei paesi.
L’Italia è fondata su una cultura urbana che risale ai tempi dei comuni e delle signorie, o anche prima probabilmente, e le montagne che la attraversano con gli Appennini e la proteggono con l’arco alpino appaiono come delle dorsali periferiche, luoghi un po’ arretrati, oppure paesaggi bucolici per i giochi dei cittadini. Il libro riassume l’evoluzione del pensiero urbano individuando dapprima nelle montagne il «luogo dell’inerzia ecologica e socioeconomica», quando le valli erano inutili posti selvaggi che non rispondevano alle regole della pianura, lande popolate da draghi, orsi e lupi, finché qualcuno scoprì che «non erano selvagge ma si erano inselvatichite» per l’incuria e l’abbandono dell’uomo. Ecco il primo passaggio culturale: Quintino Sella e una nuova generazione di cittadini alpinisti e amanti delle scienze naturali divulgano sentimenti di rispetto e protezione delle cime, all’insegna di un ideale che vede solo valori positivi sulle creste di frontiera, sotto il profilo morale, politico e di riscatto nazionale. Così le montagne sono scoperte e valorizzate, ma anche usate e ferite dallo sfruttamento idroelettrico, dal rullo compressore della guerra, dall’espansione dell’industria turistica.
Indifferenza, amore e sfruttamento sembrano i passaggi ineluttabili di un percorso che traccia anche altri caratteri tipici delle terre alte: le Alpi come terra di rifugio, a partire da Dolcino e Margherita; il brigantaggio ottocentesco negli Appennini meridionali; le montagne dei ribelli tra il 1943 e il 1945. E qui la lettura di Armiero si fa più intrigante, legando i due periodi che – nella storia d’Italia – hanno meglio rappresentato il nesso tra montagna, patria e politica: la Grande Guerra e la Resistenza. Gli alpini e i partigiani, spesso idealizzati da letture ideologiche contrapposte, sono stati i due miti condivisi dagli italiani, eroi di destra e sinistra, virtuosi esempi di “montanari”, anche se venivano dalla città e andarono in montagna per forza o per necessità. Campi di fiori e campi di battaglia: l’autore spiega la paradossale scoperta del paesaggio alpino in tempo di guerra e nel Ventennio – «elegie bucoliche e terreni di battaglia erano i pilastri della geografia montana del primo dopoguerra… era paesaggio nazionale» – e lo speciale ruolo del valligiano «prototipo ideale del nuovo italiano» agli occhi del fascismo, che proibì le migrazioni dalla montagna per salvare la stirpe privilegiata e «il retaggio genetico e culturale che incarnava». Si potrebbe citare Julius Evola per rafforzare l’identificazione, che confondendo montanari e alpinisti riuscì a strumentalizzare fragili eroi come Emilio Comici.
A pagina 70 Armiero suggerisce la relazione più originale: «Un sorprendente filo rosso lega il tramonto del fascismo e la nascita di un’Italia democratica sulle montagne». Se dal Risorgimento alla Prima guerra mondiale la montagna è sempre stata simbolo di riscossa contro lo straniero, il rapporto tra gli alpini e i resistenti si concretizzò sul campo: «Nei primi mesi di attività del movimento partigiano la presenza di ufficiali degli alpini fu determinante per l’organizzazione in bande, mentre si favoleggiava di intere divisioni di alpini asserragliate sulle montagne, armate e pronte a resistere». Anche scivolando nella modernità e nelle storie controverse del secondo dopoguerra, come la tragedia del Vajont, è questo il senso che resta: una montagna scomoda, non allineata, alternativa alla città.

In nome del Regno Quintino Sella scala il Monviso
10 luglio 2013

Agosto 1863. A Torino fa un caldo insopportabile quando Quintino Sella invita il deputato calabrese Giovanni Barracco ad accompagnarlo sul Monviso. Da giorni l’afa soffoca la pianura e nasconde lo sfondo delle Alpi. «In montagna si starà meglio» assicura Sella per convincere il Barracco. È un uomo che sa farsi obbedire, il barbuto Quintino. A trentasei anni è già l’ex ministro delle Finanze del governo Rattazzi; studia le rocce alpine da quando era un ragazzo e ora ha deciso di scalarle in nome del Regno appena nato ai piedi delle cime. «Adesso tocca a noi» insiste il biellese tra i banchi di legno del Parlamento.
Il Monviso non è una montagna come le altre, è un simbolo subalpino. Geograficamente sarebbe il monte dei saluzzesi che lo chiamano semplicemente “Viso”, come uno di casa, ma è anche dei torinesi che aspettano la primavera contando i tramonti dietro il triangolo di pietra. Oltre Viso il sole scende ogni sera un po’ più a ovest scippando orizzonte all’inverno, e ogni millimetro di cresta rubata è un colpo di freddo che se ne va.
Il Viso è il monte dei piemontesi ma è stato salito dallo straniero. «Rubato» per essere chiari. Quando Sella invita Barracco a rimboccarsi le maniche insieme a lui, la cima della Val Varaita non è più una “prima” e nemmeno una “seconda”. La piramide delle Cozie è già stata scalata dai britannici Jacomb e Mathews e dalle guide Jean-Baptiste e Michel Croz di Chamonix nel 1861, acquistando così una certa internazionalità, poi l’impresa si è ripetuta nel 1862 con Francis Fox Tuckett, l’esploratore inglese che Leslie Stephen paragonò all’«errabondo Ulisse della leggenda greca, o all’invulnerabile Sigfrido nella saga dei Nubelunghi», di nuovo accompagnato dalla guida Croz e dal portatore della Val Pellice Bartolomeo Peyrot, che dunque fu il primo italiano sulla vetta.
Il Monviso non poteva passare inosservato ai britannici dell’Ottocento, instancabili cacciatori di cime, che poi si domandarono perché i montanari del posto non l’avessero scalato loro. Quei valligiani che ogni mattina si alzavano con il Monviso sulla testa e ogni sera se lo portavano a letto con i ricordi della giornata. Il fatto è che ai montanari non è mai fregato niente delle cime, neanche di quelle facili. La via normale del Monviso non è difficile: sale la parete sud con difficoltà di secondo grado; la maggiore insidia sta nella roccia instabile e pericolosa; oggi la parete si raggiunge dalla Valle Po scavalcando il Colle delle Sagnette, ma i pionieri ci arrivavano da Casteldelfino risalendo i valloni dell’alta Varaita. È difficile credere che nel 1861 una via così logica fosse ancora incompiuta, specie se si pensa che nel 1834 il saluzzese Domenico Ansaldi era già arrivato a centocinquanta metri dalla vetta, sfiorandola.
Comunque Quintino Sella, il conte Paolo Ballada di Saint Robert, suo fratello cavalier Giacinto e il barone Giovanni Barracco partono alla volta di Venasca e Casteldelfino, si spingono oltre i boschi dell’Alevé, regno del pino cembro, e scalano i tremilaottocento metri del Monviso con l’appoggio di tre montanari: Raimondo Gertoux, Giuseppe Bouduin e Giovan Battista Abbà. Il 12 agosto 1863 gli italiani alzano finalmente la testa di fronte allo strapotere inglese sulle Alpi e siglano idealmente, e ben presto anche materialmente, la fondazione del Club Alpino in risposta all’Alpine Club di Londra.
Appena torna dall’ascensione Quintino scrive una lunga lettera a Bartolomeo Gastaldi, amico e compagno di studi: «…è una vera crudeltà il venire a te, cui il dovere tenne incatenato sotto quest’afa canicolare in mezzo a carte aride, e fastidiose come il polverio che infesta le strade, e parlarti delle impareggiabili soddisfazioni da noi godute appiè delle nevi, tra quel che gli orrori alpini hanno di più sublime e tremendo». Per Sella e compagni il Monviso è una questione di orgoglio. Sebbene appartenga territorialmente al Piemonte, la montagna si trova vicino alla linea di spartiacque tra due stati: di qua il Regno d’Italia, di là il Regno di Francia, in mezzo il regno perduto. Infatti il Monviso non è più il cuore delle Repubblica degli Escartons, che per secoli accomunò usi, lingue, costumi e speranze delle valli allungate ai suoi piedi – dalla Castellata della Val Varaita alla regione del Briançonnais, dalla Val Chisone alla Valle di Susa –, luoghi che tra il Trecento e il Settecento avevano interpretato la montagna come fulcro e cerniera, abitandole intorno.
Ora che non è più un centro, il Viso è diventato una specie di riscossa post risorgimentale: «Gli abitanti del Nord – scrive ancora Sella a Gastaldi – riconoscono nella razza latina molto gusto per le arti, ma le rimproverano di averne pochissimo per la natura. Veramente chi avesse visto le nostre città pochi anni or sono, e considerata la guerra spietata che si faceva alle piante, e il niun conto in cui si tenevano le tante bellezze naturali che ci attorniano, avrebbe potuto convenirne. Però da alcuni anni v’ha grande progresso… Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani, che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar piglio al bastone ferrato, ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare queste meravigliose Alpi, che ogni popolo ci invidia».
Su quei valori il 23 ottobre 1863, due mesi e undici giorni dopo la salita del Monviso, nasce al Castello del Valentino di Torino il Club Alpino, che solo dopo il 1867 si chiamerà “Italiano”. Una quarantina di soci riuniti in assemblea approva lo statuto ed elegge il primo consiglio. Spiccano i nomi di alcuni deputati del Regno, segno dell’evidente continuità tra alpinismo e politica, e un piccolo mondo di gentiluomini e intellettuali che evadevano dalle costrizioni della vita di città percorrendo le Alpi, scalandole e studiandole.
I primi alpinisti italiani univano l’ironia e il puntiglio, la fantasia e il rigore. Cresciuti in una terra in cui il senso del dovere si fonde misteriosamente con il bisogno di avventura, avevano trovato nelle Alpi il terreno per esplorare rocce e ideali inediti.

Chi vince perde nella corsa alla vetta del Cervino
13 agosto 2013

Luglio 1865. Quando il ragazzo londinese Edward Whymper corteggia il Cervino ci sono ben poche case nella conca del Breuil, e nessuna della futura Cervinia. Una chiesetta, qualche baita (tra cui quella di Carrel, in località Avouil), alcune vacche, poche galline e l’albergo del Giomein arrampicato verso il cielo della Gran Becca. È proprio al Giomein che Whymper si separa a malincuore dalle fidate guide Almer e Biener, che gli ripetono il solito ritornello: «Quello che volete, signore, ma non il Cervino». Sono le stesse parole usate da Michel Croz, guida di Chamonix, l’uomo che più di ogni altro l’inglese vorrebbe con sé.
Whymper ha imparato che con i montanari non si può sempre comandare, dunque fa buon viso a cattivo gioco e va in cerca di Carrel, il “vecchio” Jean-Antoine, lunatico e barbuto eroe delle guerre d’indipendenza. Non ha scelta. Lo trova a Valtournenche e gli chiede di partire subito, ma l’altro risponde che è impegnato fino al giorno 11 con “una famiglia distintissima”. Ma chi saranno questi signori? Chissà. Whymper è nervoso, non si fida, morde il freno. Il 10 luglio risale di corsa al Giomein, più veloce della pioggia. Ormai riesce a vedere il Cervino anche dietro la nebbia, sono cinque anni che il monte gli è entrato nella testa. Si corica nella notte senza cielo e la mattina viene svegliato da un connazionale:
«Edward, hai saputo la novita?»
«Quale novità?»
«Ma come! Un gruppo di guide è partito stamane alle prime luci per tentare la scalata con un mulo carico di provviste.»
«Che dici? Chi è il capo delle guide?»
«Carrel!»
«Chi? Jean-Antoine?»
«Ma sì, Jean-Antoine!»
Whymper incassa il colpo ma vorrebbe morire. Rincorrerli non può, capirli nemmeno, non gli resta che scavalcare il Teodulo e scendere a Zermatt, in Svizzera, in cerca di fortuna. È lì che storia e romanzo si confondono:
«Giunto all’albergo Monte Rosa chi vidi, seduto tranquillamente sul muretto? Il mio vecchio capo guida Michel Croz. Supponevo che fosse con M. B., ma appresi che il cliente era arrivato in cattiva salute a Chamonix ed era subito ripartito per l’Inghilterra. Dunque Croz era stato immediatamente impegnato dal reverendo Charles Hudson e si erano diretti a Zermatt per scalare il Cervino… Così Croz e io fummo ancora una volta compagni di gita».
La gita non è una passeggiata. Il Cervino, o Matterhorn per gli svizzeri, è sempre stato ritenuto inaccessibile dal lato elvetico; il monte di Zermatt è bello e impossibile. Eppure all’alba del 13 luglio otto alpinisti partono per la montagna: sono Whymper e Croz, il forte scozzese lord Douglas, il reverendo Hudson, il suo giovane e inesperto amico Hadow, la guida Taugwalder e i due figli, portatori. Vogliono tentare l’inesplorata cresta dell’Hörnli, lo spigolo della piramide che separa la parete est dai cupi strapiombi nord. Chi guarda il Matterhorn dal fondovalle o del belvedere del Gornergrat rimane stregato dalla linea perfetta: l’Hörnli è il sogno di un artista, o il disegno di un folle.
Prima di mezzogiorno gli alpinisti trovano un buon posto per piantare la tenda sopra i tremila metri. Croz e il giovane Taugwalder vanno in avanscoperta mentre gli altri oziano e fanno gli scongiuri. Ma la montagna sembra averli presi per mano e Croz torna pieno di ottimismo; giura di essere salito in alto senza incontrare difficoltà di rilievo.
Spunta l’alba del 14 luglio 1865, una data memorabile nella storia dell’alpinismo. Gli uomini sul Cervino scaldano il tè e si preparano a sfruttare le prime luci. Uno dei due portatori saluta e si avvia verso valle. Restano in sette e partono per l’avventura.
La cresta dell’Hörnli si rivela un bluff perché è davvero facile, quasi coricata. Tutti i salti di roccia sono aggirabili sul versante orientale. Whymper e il reverendo Hudson, eccitati, galoppano in testa al gruppo e incitano i compagni. Alle dieci del mattino sono già tutti riuniti a 4270 metri di quota, appena duecento sotto la cima. Ma la vera scalata deve ancora cominciare. Passando in testa alla cordata Croz ammonisce: «Signori fate molta attenzione, ora cominciano le danze!». Sono arrivati sotto il triangolo sommitale che si impenna a strapiombo. Devono per forza andare a nord, dove la roccia è impastata con la neve e il ghiaccio. Tremano per il freddo e per il precipizio.
Per fortuna «il tratto difficile non era lungo – annota Whymper –; traversammo quasi orizzontalmente per circa centoventi metri, poi salimmo verso la vetta per più di venti, quindi tornammo a sinistra. Il difficile aggiramento di una sporgenza di roccia ci riportò in cresta e a quel punto ogni dubbio scomparve: il Cervino era nostro».
Non è finita. I sette alpinisti sanno che Carrel è impegnato sul lato italiano della montagna da quattro giorni, e che il tempo è stato bello almeno negli ultimi tre. Temono di trovare le sue tracce vittoriose sulla cima, a 4478 metri. Whymper e Croz non reggono l’ansia e corrono in vetta: nessuna impronta umana! Allora si spostano sulla cima italiana, si sporgono sull’abisso meridionale e scorgono la cordata di Carrel giù in basso, sul Pic Tyndall. A quel punto urlano a squarciagola il loro successo, agitano i cappelli, gettano sassi sulla parete del Breuil. Infine gli italiani battono in ritirata, sconfitti.
Il primo pomeriggio del 14 luglio vede Whymper trionfante e Carrel che ripiega senza gloria. Ma non è ancora l’epilogo del romanzo, perché le fortune stanno per ribaltarsi. Di lì a poco l’inglese assisterà alla spaventosa morte di quattro compagni – Croz, Hadow, Hudson e Douglas –, sfracellati sulla parete nord:
«Appena udito il grido di Croz, Taugwalder e io ci afferrammo quanto più possibile alle rocce; la corda era tesa tra di noi, e lo strappo ci colpì come fossimo un solo uomo. Resistemmo, ma la corda si ruppe e per due o tre secondi vedemmo i nostri compagni scivolare giù di schiena, mentre protendevano le mani per salvarsi».
E Carrel? Di lì a tre giorni, ignaro della tragedia e spronato dal prete-alpinista Amé Gorret, sale anche lui il suo Cervino. Con Jean-Antoine gioisce la “famiglia distintissima” che aveva ingannato l’inglese: sono Felice Giordano, Quintino Sella e il Club alpino italiano. Infine i vincitori lasciano Zermatt in lacrime, mentre gli sconfitti festeggiano al Breuil con canti e falò.