Pubblicazione

Introduzione


Per comprendere la figura di Lionel Terray non basta valutare il bilancio (immenso) delle sue realizzazioni, apprezzarne la straripante vitalità, l’intelligenza, la capacità creativa, la professionalità dal volto umano che ha segnato la lunga carriera di alpinista e di guida, quel bisogno assoluto di arrampicare, e dunque di rischiare, unito a un incondizionato, quasi adolescenziale, amore per la vita. Non basta. Terray è stato grande soprattutto perché è cresciuto in un periodo straordinario, uno di quei momenti in cui la storia sembra prendere gli uomini sotto braccio per condurli verso luminose destinazioni: il secondo dopoguerra francese.
L’alpinismo d’oltralpe non è interpretabile secondo i parametri classici dell’alpinismo mitteleuropeo, perché la Francia non ha partecipato al massacro degli alpini e dei kaiserjäger durante la Grande Guerra, e neppure all’eroica corsa per la conquista delle grandi pareti negli anni bui del Ventennio. Le sono stati parzialmente risparmiati i martiri della montagna intrisi di lacrime e sangue, la retorica del sacrificio alpinistico, la perniciosa sovrapposizione di fucile e piccozza che ha prima sorretto e poi soffocato l’alpinismo tedesco, austriaco e italiano di matrice idealistica. Mentre sulle Dolomiti si compiva l’epopea del sesto grado e sulle pareti nord di Cervino, Eiger e Grandes Jorasses si consumavano tragedie e vittorie sotto l’ala complice dei regimi, gli alpinisti francesi hanno pazientemente atteso il loro momento, finché a guerra finita, liberatisi dagli invasori e spinti da sentimenti di rivincita nazionale, sciovinisticamente fiduciosi nel futuro, improvvisamente padroni dei propri mezzi e del proprio destino, si sono trovati tra le mani un bel mazzo di carte ancora tutte da giocare.
Paradossalmente il riscatto matura proprio durante l’occupazione tedesca. Lo sottolinea Roger Frison-Roche nella sua storia dell’alpinismo: “L’ozio forzato pone la gioventù francese in una situazione privilegiata. Ovunque nel mondo si è impegnati a combattere, mentre gli uomini del paese sottomesso aspettano la loro rivincita, imparano il mestiere della montagna, recuperano tutto il ritardo accumulato… A guerra finita, ecco che le nuove vocazioni possono rivelarsi”. Dalle fila di Jeunesse et Montagne, l’organizzazione paramilitare fondata dal generale Faure per canalizzare l’ardore e le energie dei giovani verso la montagna, escono i nomi nuovi dell’alpinismo francese: ragazzi motivatissimi, ben allenati nelle palestre di roccia, spesso figli della borghesia colta e progressista, più messaggeri dello spirito cittadino che della tradizione montanara. In poche stagioni ripetono gli itinerari-totem delle Alpi occidentali, dallo sperone Walker alla parete nord est del Pizzo Badile. Arrampicano senza complessi di inferiorità, unendo la forza dell’entusiasmo e quella della ragione; si sentono portatori di un vento di rinnovamento fondato soprattutto sui valori umani; sono i protagonisti del rinascimento francese.
Due nomi rappresentano questa generazione: Lionel Terray e Gaston Rébuffat. Sono i simboli dell’alpinismo vissuto per l’individuo e dell’alpinismo rielaborato per il pubblico. Entrambi uomini di città, alpinisti (e montanari) non per nascita ma per vocazione, animati più dalla passione che dal talento naturale, amici e concorrenti leali, caratteri diversi e speculari, si stabiliscono nella valle di Chamonix prima della Liberazione e bruciano a grandi passi le tappe della formazione.
Destinati a diventare le più grandi guide degli anni Cinquanta e Sessanta, con un’attività professionale che lascia senza fiato, cominciano ad arrampicare per diletto in tempo di guerra, scavalcando i recinti della tradizione: “Per tutti gli alpinisti che avevo conosciuto fino ad allora la scalata era una specie di arte o religione, con tradizioni, gerarchie e tabù. In quel santuario la ragione entrava appena. Ed io, essendo cresciuto tra gli officianti, avevo seguito ciecamente tutti i riti e accettato tutti i postulati. Per Rébuffat tutto ciò non era che un cumulo di fesserie superate dal tempo. Il suo spirito scettico era libero da qualsiasi pregiudizio”. Roccia e ghiaccio, il sole delle Aiguille e il gelo dei couloir, grandi ripetizioni, nuove ascensioni. Finché, nel 1950, Gaston e Lionel sono chiamati alla grande prova himalayana e si trovano a condividere le fatiche dell’Annapurna, il tragico ottomila dei francesi, uscendone entrambi senza menomazioni e senza gloria. Per la Francia gli eroi dell’Annapurna sono Louis Lachenal e Maurice Herzog, che tornano congelati ma vincitori.
L’Annapurna segna un punto di svolta, il passaggio dalla gioventù alla maturità. Gaston Rébuffat comincia a emergere come scrittore e regista di montagna: fine interprete dei sentimenti alpinistici e ottimo divulgatore, incanta le platee di mezza Europa con i suoi “orizzonti conquistati”. Resta una guida di altissimo livello, ma abbandona l’alpinismo di punta. Louis Lachenal, l’altro partner di Terray, l’amico generoso, il compagno delle più belle imprese giovanili, torna dall’Himalaya mutilato e cambiato per sempre. Deve sopportare sedici operazioni chirurgiche e “non trova più nell’alpinismo quella leggerezza celestiale che si prova danzando sulle frontiere dell’impossibile”. Si dedica alle corse in automobile e si allontana anche lui.
Terray invece continua, anzi intensifica la sua attività. L’azione per Lionel è vita, senza azione Lionel non esiste. Al contrario di Rébuffat, sembra che la maturazione stemperi in lui il bisogno di scrivere, tanto che questa autobiografia può essere considerata più un lungo racconto di iniziazione che il resoconto compiuto di una carriera alpinistica. A suo tempo adattato da dall’Oglio per esigenze editoriali e qui riproposto nella traduzione ridotta di Andrea Gobetti, il libro non rende pienamente conto della “seconda vita” dell’autore, soffermandosi a lungo sugli anni della formazione e sull’epopea dell’Annapurna, e poi sfumando sulle grandi imprese successive: Fitz Roy, Makalu, Nevado Chacraraju e Jannu (a cui Terray ha dedicato un altro libro scritto a due mani con Jean Franco: Bataille pour le Jannu, Gallimard 1965, tradotto da Tamari nel 1969). Les conquerants de l’inutile è stato terminato nel luglio del 1961 e pubblicato nello stesso autunno da Gallimard, quattro anni prima che Terray trovasse la morte con Marc Martinetti su una parete del Vercors.
Il senso di tutto ciò va cercato nel titolo stesso del libro, “I conquistatori dell’inutile”, che ha fatto giustamente epoca e resta ancora oggi una delle definizioni più affascinanti dell’alpinismo. Scrive Terray:
“La mia vita è stato un lungo asse di equilibrio tra l’azione gratuita attraverso la quale perseguivo l’ideale della mia gioventù e una specie di prostituzione onorevole che mi assicurava il pane quotidiano. Quale spirito volgare oserà pensare che la prostituzione utilitaria abbia più valore delle imprese gratuite?… Nel nostro mondo anarchico e sovrappopolato, quanti possono vantarsi di essere veramente utili? Sono forse utili i milioni di mediatori dai titoli onorevoli che ingombrano l’economia, i milioni di burocrati decorati, titolari di affari che rovinano lo Stato e paralizzano l’amministrazione, e i milioni di gerenti, di cronisti, di avvocati e di chiacchieroni di ogni genere che si potrebbe sopprimere domani per il bene di tutti?”.
Il valore dell’alpinismo è insito nella sua gratuità. Questo è l’ideale adolescenziale che sorregge tutta l’attività di Terray e ne giustifica i rischi, i sacrifici, le illusioni, anche le delusioni. Un ideale che inevitabilmente si logora con la maturità, quando deve fare i conti con gli appetiti degli uomini, le meschinità, le invidie, i tradimenti. L’esperienza tragica e dolorosa dell’Annapurna svela a Terray un mondo molto più complesso dei suoi sogni di ragazzo, un mondo in grigio anche sopra i quattro o gli ottomila metri, un mondo in cui anche l’amicizia può diventare un rapporto di forza, e la forza un segno di potere.
La sua “seconda vita”, quella che l’amico Rébuffat ha riscattato attraverso un radicale cambiamento di prospettiva, è dunque la storia di un alpinismo onorato con l’entusiasmo di un ragazzo ma soppesato con gli occhi di un uomo. Un compromesso non scritto, che però si legge dietro ogni partenza e ogni ritorno.
La terza vita non c’è stata, perché Terray se n’è andato prima di “scendere i gradini della scala”.