Pubblicazione

Introduzione


Gli ex voto raccolti in questo libro invitano a riflettere sulle paure della montagna, che cambiano con gli spostamenti culturali e climatici della storia. L’idea dell’alpe assassina ha attraversato molti secoli, con riferimenti cangianti nel tempo. Alle paure dei montanari si sono sovrapposte fantasiose interpretazioni esterne, sguardi di pianura, proiezioni urbane, almeno a partire dal Seicento, quando la discesa dei ghiacciai rese materialmente visibili le minacce dell’alta montagna. Da allora le connotazioni tragiche che la cultura esterna attribuisce alla montagna, collocandovi draghi ed esseri malvagi (il Monte Bianco era il Mont Maudit, monte maledetto) e giustificando l’avanzata glaciale con una sorta di espiazione biblica per i peccati dei montanari (si pensi alla famosa leggenda della “città perduta”, reinterpretata in più versioni dal Vallese alla Savoia alla Valle d’Aosta), accentuano i valori negativi delle terre alte, che si caricano di tutte le miserie che la cultura classica aveva pazientemente scacciato dalle colline e dai paesaggi “ordinati” delle terre basse.
Le Alpi sono un incidente naturale, nient’altro. Fino a tutto il diciassettesimo secolo equivalgono a una barriera selvaggia che si alza a turbare le geografie e le culture sottostanti, ostacolando la mano civilizzatrice dell’uomo e i suoi disegni colonizzatori. La letteratura e le arti che per secoli hanno cercato l’equilibrio e la simmetria del paesaggio, rincorrendo l’antico mito dell’arcadia, rimuovono di proposito l’esistenza delle Alpi perché, oltre a fare paura, non rispondono neanche lontanamente al concetto classico del “bello”. La teologia protestante fondata da Martin Lutero le interpreta addirittura come il prodotto del diluvio universale, apocalittica raffigurazione del disordine e del male.
Il Settecento è il secolo della grande svolta. Improvvisamente ci si accorge che nel cuore della Vecchia Europa c’è un pezzo di mondo da scoprire. Da pattumiera del mondo fisico, in pochi decenni le Alpi vengono promosse a oggetto delle indagini illuministe e a rifugio della spiritualità romantica. Da un lato gli scienziati iniziano una capillare opera di esplorazione del territorio alpino per far luce sull’origine dei fossili, sulla nascita dei fiumi e sulle teorie leggendarie dei ghiacciai, risolvendo contemporaneamente molti problemi cartografici, dall’altro lato gli uomini d’arte e di lettere influenzati da Haller e Rousseau cominciano a rovesciare la visione delle Alpi, scoprendo nei luoghi malfamati del passato il segno del bello e del sublime. Proprio in quanto “orrido”, disarmonico e misterioso, il paesaggio alpino si presenta come interessante e “sublime”. È la rivoluzione del Romanticismo, che però non fuga i rischi e le preoccupazioni di chi in montagna vive, resiste e lavora, lottando quotidianamente con l’erosione, le alluvioni, gli smottamenti, i crolli e le valanghe. Le sublimi cascate e i ghiacciai diventati meta di deliziose escursioni romantiche, , hanno ben altro significato per chi nasce e cresce tra quelle minacce, barattando pezzi di campo con le piogge e le frane.
Ma ormai le Alpi sono una meta d’obbligo per chi intraprende un viaggio in Svizzera e in Italia. All’inizio dell’Ottocento l’interesse per i voyages dans le Alpes si è già spinto fino al punto da indentificarsi con l’invenzione letteraria, come nel capolavoro romantico di Mary Shelley Frankenstein, in parte ambientato tra i crepacci della Mer de Glace:
«Il giorno successivo lo spesi a girovagare per la valle. Andai alle sorgenti dell’Arveiron, che nasce da un ghiacciaio che, dalla cima dei monti, avanzando lentamente, arriva a sbarrare la valle. Avevo davanti a me i fianchi scoscesi di enormi montagne e la gelida parete del ghiacciaio mi sovrastava; sparsi all’intorno c’erano solo pochi pini rovinati e il silenzio solenne di questo magnifico salone delle udienze di Sua Maestà la Natura era rotto solo dal rumoreggiare delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio…».
Più che un’immagine da romanzo, sembra il racconto di una vacanza sulle Alpi, inesauribile fonte di emozioni scaturite dalla solitudine, dalla verticalità e dal mistero delle vette. Le cupe bellezze che fino a pochi decenni prima mettevano in fuga i montanari e tenevano lontani i cittadini si sono trasformate in rimedi dell’anima, proprio come aveva promesso Jean-Jacques Rousseau:
«Sulle alte montagne dove l’aria è pura e sottile, la respirazione è più agevole, il corpo è più agile, lo spirito più sereno, i piaceri meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni assumono lassù non so che carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, una non so che voluttà tranquilla che non ha niente d’acre o di sensuale».
Eppure il grande incontro tra montagna e pianura deve ancora arrivare. Fino alla primavera del 1915 le Alpi sono un mondo quasi incontaminato, attraversato dai cacciatori di camosci, dalle guide e da pochi aristocratici che annotano sui loro taccuini: «Sulla sommità del mondo riposa meglio l’uomo che ha faticato per raggiungerlo». Poi scende l’apocalisse e dopo due anni di guerra niente è più come prima. La Grande Guerra scaraventa sulle Alpi migliaia di uomini altrimenti destinati a una tranquilla vita di pianura. La guerra trascina il popolo sulle montagne e lo obbliga a scoprire un mondo severo e ignoto, astrusa frontiera nel cuore dell’Europa contadina e industriale. I soldati contadini si accorgono all’improvviso che tra l’Italia e l’Austria ci sono le montagne, che lassù passano i confini delle nazioni, che bisogna morire per delle rocce dove i ricchi andavano a divertirsi.
Si combatte una guerra assurda e nasce una retorica necessaria: gli alpini e la montagna. Serve a dare un senso al nonsenso, aiuta a sopravvivere. I valori di eroismo e altruismo legati al sacrificio dei soldati-alpinisti che si vanno a immolare sull’altare della Patria per difenderne i confini, la leggenda delle penne nere, il maschio gioco della battaglia, il cameratismo montanaro, gli stereotipi del fiasco di vino e del vecchio scarpone segneranno tre generazioni perché metà delle famiglie italiane perderà un padre, un marito, un figlio al fronte, o lo vedrà tornare invalido, oppure pazzo. Il mito dell’alpe insanguinata conquisterà un ruolo indelebile nel Novecento e offuscherà il ricordo romantico dell’alpinismo dei pionieri. La Guerra Bianca sancisce il passaggio dal riserbo dei pochi alla partecipazione delle masse, che, abilmente pilotate dai regimi, riprenderanno la strada delle vette in tempo di pace con i campeggi alpini, le escursioni popolari e i treni della neve.
La Guerra Bianca consacra una montagna tragica e austera, la Madre che non perdona i propri figli ma dona loro l’immortalità. A quell’immagine e a quella memoria il fascismo si appiglierà per fortificare la coscienza nazionale, lodando le gesta esemplari degli alpini-alpinisti. Pochi miti della storia moderna hanno impiegato tanto tempo a sbiadire e a perdere forza, senza mai abbandonarci del tutto, anche se si tratta di un racconto di sofferenza e morte (o forse proprio per quello), anche se è la cicatrice di un sacrificio che lasciò sui ghiacciai e sulle creste del fronte orientale una processione di ragazzi innocenti. «Perché le montagne li fioriscano di rose e fior», cantavano gli alpini per andare avanti. In cent’ottantamila non sono tornati dalle Alpi in guerra, e un terzo se li è presi la montagna stessa. Così l’Alpe omicida di antica memoria è diventata stragista e “assassina”.
Oggi i giornali continuano a titolare a quel modo – montagna assassina –, ma le paure sono cambiate. Restano le frane e le alluvioni, perché tutto quello che succede in montagna precipita sulle valli e le pianure, ma si aggiungono le paure di chi sale per sport: alpinisti, escursionisti, sciatori. Nell’immaginario collettivo la montagna “uccide” per valanga, sasso, fulmine, e perfino per scivolata e leggerezza di chi sale. In un vuoto impressionante di realismo e verità, che forse neanche i valligiani riescono più a riempire con la l’esperienza, continua a trovare spazio il vecchio stereotipo dell’alpe omicida. Giornali e televisioni non si mobilitano per raccontare la montagna vissuta, con le sue luci e le sue ombre, ma solo per commentare – con le stesse parole di sempre – i momenti tragici e catastrofici delle terre alte: le disgrazie alpinistiche, le alluvioni, le frane, le valanghe, la caduta dei seracchi, lo scioglimento dei ghiacciai. La vecchia favola tragica continua a nascondere il vero, perché nessuno è veramente interessato a svelarlo.