Pubblicazione

Introduzione


Scriveva Edmondo De Amicis:
«Una Torino regolare e simmetrica, senza monotonia, che spalanca verso le Alpi la gran bocca di Piazza dello Statuto, come per aspirare a grandi ondate l’aria sana e vivificante delle montagne».
Si era nel 1880, a Italia fatta, quando i protagonisti ormai ingrigiti delle battaglie risorgimentali si convertivano all’alpinismo, e sostituendo il moschetto con la piccozza strappavano agli inglesi le ultime cime inviolate del loro Piemonte, come a ribadire sulle creste di confine le vittorie che avevano insanguinato le pianure. Al tempo si andava in treno a poi a piedi, utilizzando tuttalpiù le polverose carrette che risalivano le mulattiere, e ci volevano giorni per raggiungere i fondovalle, eppure nessuno si spaventava delle distanze. Andare in montagna coincideva con l’essere torinesi, come se i fondali di neve che abbellivano le vie della città, così astratti e meravigliosi, dovessero necessariamente essere calpestati dai piedi dei cittadini per farsi carne e sudore, e paesaggio dell’anima. Al tempo in cui le montagne erano lontane si andava sempre, con il bello e il cattivo tempo, senza neanche domandarsi perché. Città e montagna erano le due facce della stessa medaglia, i due fiati dello stesso respiro.
Paradossalmente lo scambio si è attenuato, e spesso interrotto, proprio quando le montagne sono diventate vicine e i sofisticati mezzi di comunicazione del Novecento (automobili, ferrovie veloci, tunnel, autostrade) hanno portato le Alpi in città. Paradossalmente la città si è trovata prigioniera di se stessa e della sua monocultura industriale, come scriveva Primo Levi a Mario Rigoni Stern:
«Se vivessi con te sull’altipiano non avrei problemi, mi metterei gli sci da fondo e via. Ma qui è diverso; malgrado la crisi, ci sono auto dappertutto, ferme o in moto, e solo per uscire dalla città ci vuole un’ora di lotta e di pazienza».
Colpisce che proprio quell’automobile che avrebbe dovuto unire monti, valli e città sia diventata motivo di ostacolo, prima ancora psicologico che fisico, tra Torino e le Alpi onnipresenti al fondo di ogni viale e di ogni prospettiva.
Cittadini e montanari, pur legati da fili stretti (si pensi all’acqua che disseta le città), non avvertono più di far parte di un territorio integrato. Spesso i montanari vivono la città come “un mondo a parte”, un luogo indifferente e ostile, e i cittadini riducono la montagna all’immagine stereotipata di un bianco “domaine skiable”, o un giardino verde per l’estate, o un parco di divertimenti per il tempo libero. Sono visioni parziali e perdenti, perché non c’è futuro per la montagna senza scambi culturali e innovazione, come non c’è futuro per la città senza la controparte naturale delle montagne.
La fotografia delle Alpi è diventata strabica: valli quasi completamente spopolate e prive di mezzi di sussistenza convivono vicino a valli iperpopolate per due o tre mesi all’anno (il cuore dell’estate, Natale, le settimane bianche invernali) e iperstrutturate, con condomini e alberghi di tipo urbano, parcheggi, cinema, boutiques, ristoranti e locali notturni. Un mondo irreale in cui aleggiano i fantasmi del “come eravamo”, nei nomi dei bar o di qualche ritrovo alla moda, nelle fotografie d’antan che sbiadiscono alle pareti, nelle facce abbronzate e smarrite dei nuovi montanari sospesi tra una civiltà e l’altra, tra un passato perduto e un futuro incerto.
Una vicenda esemplare è quella delle valli di Lanzo, dove a inizio Novecento la borghesia cittadina faceva a gara per procurarsi la casa di villeggiatura e oggi invece si respira un’atmosfera da tempi andati, come se – ce lo dicono i sondaggi – la montagna fuori porta non fosse più alla moda, surclassata dalle spiagge e dalle mete esotiche. In realtà le valli di Lanzo, così come le altre innumerevoli valli incise nell’arco occidentale delle Alpi (quattrocento chilometri di montagne: quale altra metropoli se li può godere dalla finestra?) sono il polmone verde di Torino, l’ossigeno del futuro, e c’è forse da rallegrarsi che mode e speculazioni si siano espresse altrove, lasciando ancora accettabilmente integro il paesaggio e con esso le possibilità di uno sviluppo equilibrato.
Ne fa fede il Gran Paradiso, il più antico Parco nazionale italiano, che in virtù di una tutela che oggi appare profetica (parliamo degli anni venti del Novecento) può e potrà proporsi come modello di un rapporto nuovo tra l’uomo e il suo ambiente, dove le rocce, le piante e gli animali abbiano gli stessi diritti delle persone.
Questo ci dicono le Alpi che occhieggiano in fondo alle strade, questo ci dice il Monviso nei tramonti invernali: che città e montagne fanno parte di un solo mondo, e che non c’è gioia per chi ignora l’altra metà.