Pubblicazione

Intervento

Atti delle presentazioni dell’omonima mostra in occasione delle inaugurazioni e degli incontri dibattiti conclusivi tenutisi a Valtournenche in Valle d’Aosta il 21 e 30 luglio e a Belluno il 12 e 18 ottobre 2002

Devo confessare la mia storica diffidenza verso la figura di Giuseppe Mazzotti: sarà per la distanza geografica, o per pregiudizio, o per banale disinformazione. Per questo ho accettato come una preziosa opportunità l’invito della Fondazione ad approfondire il pensiero e l’opera di Mazzotti, e sono andato a rileggermi con attenzione La montagna presa in giro nella bella edizione Nuovi Sentieri arricchita dalla presentazione di Piero Rossi. Accanto all’innegabile retorica di alcune pagine, sottolineata dalla passionalità del giovane autore, romantico “crociato” della purezza alpina che successivamente ebbe a dire “oggi non userei più quei toni e quelle parole”, vi ho trovato pagine di grande attualità, che non possono venire liquidate come semplici intuizioni giovanili di un innamorato della montagna. Dietro la facciata da pamphlet, c’è una lettura assai più complessa dei fenomeni umani e sociali, con sguardi e considerazioni che lasciano sconcertati per le loro anticipazioni storiche. E non mi riferisco tanto ai passaggi più tecnici sull’alpinismo e alla famosa polemica con i paladini della scala delle difficoltà in roccia (che andrebbe rivisitata alla luce dei successivi sviluppi), quanto alle pagine sulla montagna intesa come mondo vasto e come impareggiabile incontro di natura e cultura.
Il pensiero di Mazzotti, ancora oggi simbolizzato dal “manifesto” giovanile La montagna presa in giro (1931), recupera inaspettato smalto proprio alla luce del recente dibattito sui destini delle Alpi, strette tra la museificazione e lo sfruttamento indiscriminato. Mazzotti, sicuramente più noto nel mondo alpinistico per le posizioni contro le degenerazioni sportive dell’arrampicata che per il suo pensiero “ambientalista” ante litteram, rivela oggi alcuni aspetti decisamente profetici, tra le pagine di un libro scritto più con il cuore che con la ragione, eppure pregno di un’acuta percezione di quelli che sarebbero stati i futuri sviluppi del fenomeno turistico e della colonizzazione culturale della montagna.
Tra le altre cose, Mazzotti intuisce le conseguenze della civiltà dell’immagine destinata a travolgere emozioni e desideri:
“Neanche le più belle montagne ormai ci sanno stupire. Succede come per i monumenti famosi: San Pietro, le Piramidi, il Colosseo. Si immaginano immensi e perfetti, e nella realtà disilludono: si resta scontenti, non avendo neanche il coraggio di confessare la disillusione. Conosciamo le montagne per averle viste mille volte in fotografia; quasi sempre, nella realtà, ci sembrano più tozze e più aride”.
Cosa c’è di più attuale di questo impoverimento dell’immaginazione conseguente alla sovraesposizione alle immagini? Cosa c’è oggi di più vero? Eppure Mazzotti scrisse queste frasi più di settant’anni fa, quando il cinema era in bianco e nero e la televisione non era stata, non dico inventata, ma nemmeno pensata da mente umana.
E ancora, sull’ambigua “salita” della città in montagna:
“Non ci si accorge che, continuando a costruire strade e teleferiche, si rende sempre più piccola la montagna. Arrivare su un colle in teleferica è una cosa assolutamente diversa che arrivarci a piedi. Perché la montagna possa essere capita, è necessario lasciare una vasta “zona di rispetto” fra la pianura e i monti come tra i rifugi e le cime. Le strade e le altre opere, consentendo che il cittadino avvicini con facilità la montagna, virtualmente la diminuiscono. I grandi monti sono tolti a poco a poco dal loro isolamento, e finiranno per parere soltanto mucchi di rocce e di ghiaccio”.
Cos’altro è, se non quella “zona di rispetto”, ciò che noi oggi cerchiamo faticosamente di creare, o di ricreare là dove decenni di sviluppo dissennato hanno appiattito città e montagna su un unico piano consumistico, impedendo a chiunque (turisti, escursionisti, alpinisti) di vivere esperienze autentiche? La considerazione che la velocità di approccio diminuisca il valore della montagna è tanto più vera per noi automobilisti del Duemila che per gli alpinisti del Ventennio, quando ci si affidava al torpedone, ai treni della neve o, non di rado, alla bicicletta. Eppure Mazzotti sentiva già chiaramente il problema, perché capiva lo spirito che animava le conquiste “moderniste” e ne anticipava le conseguenze sul piano ambientale e culturale.
Questa è stata la sua grande capacità: guardare oltre le apparenze e intuire le ragioni profonde dei fenomeni. E per questo, come tutte le voci profetiche, non è stato ascoltato.