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Immagine e percezione delle Alpi. Un inquadramento storico

Le Alpi brutte e inutili
Storicamente la parola “altrove” oscilla tra due interpretazioni diverse: c’è l’altrove di chi nasce tra le montagne e le sogna da migrante, da fuggiasco, da pendolare (la stessa parola “nostalgia” può ben sposarsi con le popolazioni alpine), e c’è l’altrove di chi nasce in città, del tutto ignaro della realtà alpina, oppure condizionato dalla propria distanza. Se le Alpi sono state evidentemente un “luogo”, un “centro”, un riferimento geografico e culturale per i montanari di ogni epoca, anche se per “alpe” dobbiamo intendere la parte abitabile, pascolabile o perlomeno valicabile, cime e ghiacciai esclusi, altrettanto non si può dire per la cognizione esterna della catena.
I romani, per esempio, vivono le Alpi come una barriera da attraversare solo per necessità e nel minor tempo possibile:
“Il rapporto uomo-montagna si misura in termini di dominazione strategica, politica ed economica, del tutto privo di colorazione estetica… Ufficiali, capitani di legioni, intendenti dell’imperatore, gente di intelletto aperto e di gusto vivace, hanno attraversato le Alpi senza provare altre sensazioni che la noia e la paura” .
Per gli antichi le Alpi sono corridoi di transito e serbatoi di metalli. I romani conquistano un mondo restandone culturalmente estranei. Per secoli la catena alpina si divide in due categorie geografiche e mentali: da un lato c’è la montagna conosciuta e colonizzata, che coincide con le strade di fondovalle, il reticolo delle città e delle fortificazioni strategiche, i grandi valichi di collegamento con le province del nord (Monginevro, Piccolo e Gran San Bernardo, Spluga, Maloia, Resia, Brennero); dall’altro c’è un territorio popolato da briganti, popolazioni ostili e divinità malvage, un mondo sconosciuto che mette paura. Sono le valli interne che non offrono tesori minerari e non portano da nessuna parte. Lì sopravvivono i caratteri arcaici della civiltà alpina.
Quando cade l’impero romano e le grandi invasioni dilagano sulle pianure e sulle colline d’Europa, raggiungendo l’antica Elvezia, la valle del Rodano e l’Italia settentrionale ai margini delle Alpi, i popoli migratori attraversano le montagne senza condividere gli stili di vita dei montanari. La vecchia popolazione di origine celtica tenacemente insediata sulle Alpi occidentali e centrali viene toccata solo in parte dalle invasioni “barbariche”:
“Dobbiamo constatare la resistenza e la lunga sopravvivenza degli elementi romani e prima di tutto della lingua. Il basso latino e le parlate vernacole che ne derivano (franco-provenzale, dialetti italiani e retoromanzi), nel secolo di Carlo Magno sono ancora gli unici modi di espressione in quasi tutto l’arco alpino… Si può trovare in alcuni punti un’infiltrazione di elementi immigrati; la loro integrazione alla popolazione aborigena si è però realizzata solo in modo imperfetto e molto tardivo. Citiamo ad esempio i gruppi alemanni stabilitisi nel Vallese (nono-undicesimo secolo), che conservano il loro modo di espressione e di vita nel confronto di popolazioni acclimatatesi da molto tempo” .
L’alto medioevo coincide con un’importante avanzata dei ghiacciai che non favorisce l’economia alpina, e tantomeno la propensione agli scambi attraverso le montagne. Ma dopo Carlo Magno i ghiacci si ritirano e subentra un periodo di clima mite: “Il piccolo optimum, caldo e probabilmente anche asciutto, che si estende da un capo all’altro dell’anno Mille e si attenua nel secolo XIII” interessa le Alpi, permettendo di innalzare la quota delle coltivazioni, delle abitazioni permanenti e degli alpeggi stagionali (si pensi per esempio alla colonizzazione walser a nord e poi a sud del Monte Rosa).
Con il quadro climatico muta la visione complessiva. Al rapporto strettamente utilitaristico tra i dominatori di pianura e il territorio alpino in età classica, subentra una prima presa di coscienza esterna delle terre alte:
“L’ordine razionale e la realtà quotidiana sono inestricabilmente mescolati al soprannaturale e agli avvenimenti miracolosi. La montagna, con i suoi paesaggi così contrastanti e la sua drammatica verticalità, è il luogo d’elezione di questa cosmogonia mitica” .
A cavallo dell’anno Mille le Alpi si aprono verso l’esterno. Con il fiorire dei commerci dopo le crociate, aumentano i traffici e gli scavalcamenti della catena. Le traversate che non erano mai cessate neppure al tempo delle invasioni, portano sugli impervi sentieri di montagna sovrani e comandanti alla testa degli eserciti, mercanti del nord e del mezzogiorno europeo, pellegrini in marcia verso Roma e la Terra Santa.
Lo sguardo medievale resta insensibile tanto al versante estetico quanto a quello scientifico, ma l’attraversamento dei monti suggerisce l’occasione per una prova morale, un pellegrinaggio su strade difficili, un cammino di redenzione. Su tali valori si fondano i monasteri benedettini e certosini che fioriscono sui due versanti delle Alpi, gli ospizi sui vecchi e nuovi valichi (Gottardo e Sempione), la mitologia dei monaci in soccorso dei viandanti. Nell’apparente isolamento delle valli e dei colli si sviluppa la vocazione cristiana di solidarietà nel pericolo, comunanza nell’avversità, espiazione nel dolore, e tale tradizione trova senso e forza nella drammaticità dell’alta montagna.
Nella seconda metà del sedicesimo secolo le stagioni si raffreddano rapidamente e intorno al 1600 “l’avanzata dei ghiacciai si può considerare universale nelle Alpi” . Per quasi tre secoli i ghiaccai inghiottono i pascoli e le case, uccidono pastori e contadini, minacciano la sopravvivenza dei villaggi con frane, valanghe e alluvioni. Portano a valle la paura delle cime.
Muta anche la congiuntura economica. Se nei secoli del tardo medioevo i contadini delle Alpi erano riusciti a imporre i loro prodotti sui mercati di pianura, e gli allevatori avevano acquisito posizioni solide e redditizie, dopo il 1500 cambia il rapporto montagna-pianura:
“Da quando le campagne dell’Europa si rimettono a produrre le risorse alimentari indispensabili, l’apporto di carni e latticini delle Alpi perde una parte della sua importanza… Le risorse alpine non sono più padrone dei vecchi mercati” .
La povertà alimenta il bisogno di emigrare:
“L’allevamento è ormai sviluppato all’estremo limite delle possibilità. Di fatto l’economia alpina ha toccato il suo culmine, non può produrre di più senza un cambiamento strutturale, una rivoluzione alla quale gli abitanti delle Alpi non sono preparati. Molti giovani devono cercare altri modi di guadagnarsi la vita, altri mestieri che la montagna non propone più… Mentre il Rinascimento aveva gettato uno sguardo carico di meraviglia sulle Alpi per cercare di coglierle nella loro globalità, il diciassettesimo secolo ha reazioni contraddittorie nei confronti della montagna e, nel loro insieme, negative al punto che si può parlare di regressione. Molte cause concorrono a suscitare questa “orofobia”. Innanzi tutto una trasformazione nel modo di percepire e apprezzare lo spazio geografico, politico e sociale. La preponderanza delle grandi monarchie blocca i particolarismi locali per sottometterli a una gestione amministrativa uniforme. Se si esclude il caso singolare della Confederazione svizzera, le Alpi cominciano a diventare l’appendice montana degli stati nazionali, che sono ad esse estranei” .
Ormai non si può più pensare alle Alpi come a un mondo a sé. Il nuovo ordine politico conduce al declino delle antiche economie autosufficienti e la catena alpina diventa linea di confine in cui gli Stati si appropriano, da una parte e dall’altra della linea di cresta, di “tutte le acque che scorrono a valle” . Dunque quella civiltà alpina che affonda le radici in epoca preistorica, e che ha saputo evolversi in modo lungimirante ed equilibrato fino al medioevo, armonizzando le ragioni dell’uomo con quelle dell’ambiente, si impoverisce non tanto per le difficoltà oggettive del territorio, quanto perché mutano gli scenari politici e le montagne subiscono governi sempre più lontani e disinteressati. L’impoverimento e lo spopolamento delle alte valli non è la “naturale” conseguenza del carattere severo dell’ambiente alpino, con cui i popoli delle Alpi hanno imparato a convivere con risultati culturali sorprendenti, ma piuttosto il risultato dell’isolamento politico ed economico che, anziché correggerle, ha contribuito a esaltare le negatività ambientali, favorendo lo spopolamento e l’emigrazione permanente.
Nel contempo la discesa dei ghiacciai e le connotazioni tragiche che la cultura esterna attribuisce alla montagna, collocandovi draghi ed esseri malvagi (il Monte Bianco era il Mont Maudit, monte maledetto) e giustificando la stessa avanzata glaciale con una sorta di espiazione biblica per i peccati dei montanari (si pensi alla famosa leggenda della “città perduta”, reinterpretata in più versioni dal Vallese alla Savoia alla Valle d’Aosta) , accentuano i valori negativi delle terre alte, che si caricano di tutte quelle miserie che la cultura classica ha pazientemente scacciato dalle colline e dai paesaggi “ordinati” e “armonici” delle terre basse.
Le Alpi sono un incidente naturale, nient’altro. Fino a tutto il diciassettesimo secolo equivalgono a una barriera selvaggia che si alza a turbare le geografie e le culture sottostanti, ostacolando la mano civilizzatrice dell’uomo e i suoi disegni colonizzatori. La letteratura e le arti che per secoli hanno cercato l’equilibrio e la simmetria del paesaggio, rincorrendo l’antico mito dell’arcadia, rimuovono di proposito l’esistenza delle Alpi perché, oltre a fare paura, non rispondono neanche lontanamente al concetto classico del “bello”. La teologia protestante fondata da Martin Lutero le interpreta addirittura come il prodotto del diluvio universale, apocalittica raffigurazione del disordine e del male.
Nel 1671 Thomas Burnet si trova involontariamente al cospetto delle Alpi mentre accompagna il giovane conte di Wiltshire lungo l’itinerario del Grand Tour. Le montagne lo atterriscono e generano in lui un fiume di domande:
“Non trovai pace finché non fui in grado di darmi una spiegazione accettabile di come quel disordine fosse entrato nella natura”.
Premesso che “il mondo è immerso a tal punto nella stupidità e nel piacere dei sensi che si potrebbe raccontare che i monti crescono sulla Terra come vesce o che sono prodotti da certi mostri, come le talpe producono i loro cumuli di terriccio, e la gente non avrebbe alcunché da obiettare”, la spiegazione non poteva essere che una: il Dio che aveva fatto le Alpi non era un provvidenziale orologiaio, ma un sublime, anche se furibondo, drammaturgo. La Terra al tempo della Creazione era una sorta di “uovo terrestre, senza un segno né una frattura sul suo corpo, nessuna roccia, nessun monte”, ma il Diluvio inviato a lavare la malvagità del mondo aveva sconvolto per sempre quella purissima sfera primordiale, creando le montagne .

Le Alpi belle e desiderate
Il Settecento è il secolo della grande svolta. Improvvisamente ci si accorge che nel cuore della Vecchia Europa c’è un pezzo di mondo da scoprire. Da pattumiera del mondo fisico, in pochi decenni le Alpi vengono promosse a oggetto delle indagini illuministe e a rifugio della spiritualità romantica. Da un lato gli scienziati iniziano una capillare opera di esplorazione del territorio alpino per far luce sull’origine dei fossili, sulla nascita dei fiumi e sulle teorie leggendarie dei ghiacciai, risolvendo contemporaneamente molti problemi cartografici, dall’altro lato gli uomini d’arte e di lettere influenzati da Haller e da Rousseau cominciano a rovesciare la visione tradizionale delle Alpi, scoprendo nei luoghi malfamati del passato il segno del bello e del sublime.
Proprio in quanto “orrido”, disarmonico e misterioso, il paesaggio alpino si presenta come interessante e “sublime”. È la rivoluzione del Romanticismo, che paradossalmente coincide con l’inizio della marginalizzazione politica delle Alpi, conseguenza del nuovo ordine imposto dagli stati-nazione dopo Utrecht, che assegna alle creste una funzione di confine e relega le montagne a periferia degli stati.
Comunque le cascate e i ghiacciai alpestri diventano ricercate mete di escursioni romantiche, destano la meraviglia dei viaggiatori e impreziosiscono con i loro “deliziosi orrori” i taccuini dei borghesi e degli artisti che hanno la ventura di addentrarsi nelle vallate.
Sul finire del secolo, Horace-Bénédict de Saussure impersona meglio di ogni altro quell’intreccio di formazione illuminista e di ispirazione romantica che muove i primi alpinisti verso le alte quote. Come noto, il naturalista ginevrino è il fautore della prima salita del Monte Bianco dal versante francese e nel 1787 sale lui stesso la cima più alta delle Alpi, ma i suoi interessi vanno ben oltre la conquista delle montagne. Nel 1789, l’anno fatidico della Rivoluzione francese, il Saussure compie un viaggio intorno al Monte Rosa che può a ragione essere considerato tra i primi tour alpini:
“Da molto tempo il Monte Rosa era oggetto della mia curiosità. Questa alta montagna domina il confine meridionale della catena delle Alpi così come il Monte Bianco ne domina il confine settentrionale. Il Monte Rosa si vede da tutte le pianure del Piemonte e della Lombardia, da Torino, da Pavia, da Milano e perfino da molto più lontano. Ho già detto come la sua altezza e la sua massa appaiano imponenti dalla chiesa di Superga sopra Torino, ma ancor più mi colpirono dall’alto della torre di Vercelli. Sebbene fossi un pessimo disegnatore, cedetti alla tentazione di tracciarne uno schizzo da portare con me. Da allora decisi di concentrare tutti gli sforzi per avvicinarmi il più possibile alla montagna. Ciò che aumentava ancor più il mio desiderio di osservarlo era il fatto di non trovarlo descritto nell’opera di nessun naturalista” .
Il Saussure alpinista e il Saussure viaggiatore sono una sola persona, in grado di percorrere per ore a dorso di mulo le polverose strade dei fondovalle, di individuare e descrivere le testimonianze della civiltà alpina, oppure di valicare con le guide i colli innevati di tre o quattromila metri, dopo un bivacco all’addiaccio e un’interminabile giornata di cammino tra pascoli, pietraie e ghiacciai, con il barometro in mano e la passione nel cuore.
Ben diverso è l’approccio di Alexandre Dumas, il popolare scrittore francese che molti anni più tardi, nel 1832, lascia una Parigi infestata dal colera per un viaggio di riposo in Svizzera e in Valle d’Aosta, al cospetto delle Alpi favolose:
“Ai nostri piedi la vallata di Lauterbrunnen, verde come uno smeraldo, disseminava le sue case rosse sul prato; in faccia, il magnifico Staubach, di cui scorgevamo le cascate superiori, meritava il suo nome di “polvere d’acqua” tanto pareva un vapore fluttuante; a sinistra, la valle chiusa dopo due o tre leghe dalla montagna nevosa da cui si precipita lo Schmadribach, come se il mondo finisse lì; a destra, la valle che avevamo percorso si sviluppava in tutta la sua distesa, e riconducendo lo sguardo fino al villaggio di Interlaken, attraverso quell’atmosfera azzurrina che si trova solo in montagna, si vedevano le case e gli alberi, simili a quei balocchi che si chiudono in una scatola e con cui i bambini si divertono a costruire giardini e città” .
Ormai le Alpi sono una meta d’obbligo per chi intraprende un viaggio in Svizzera e in Italia. All’inizio dell’Ottocento l’interesse per i voyages dans le Alpes si è già spinto fino al punto da indentificarsi con l’invenzione letteraria, come nel capolavoro romantico di Mary Shelley Frankenstein, in parte ambientato tra i crepacci della Mer de Glace:
“Il giorno successivo lo spesi a girovagare per la valle. Andai alle sorgenti dell’Arveiron, che nasce da un ghiacciaio che, dalla cima dei monti, avanzando lentamente, arriva a sbarrare la valle. Avevo davanti a me i fianchi scoscesi di enormi montagne e la gelida parete del ghiacciaio mi sovrastava; sparsi all’intorno c’erano solo pochi pini rovinati e il silenzio solenne di questo magnifico salone delle udienze di Sua Maestà la Natura era rotto solo dal rumoreggiare delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l’opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e si spaccavano come fossero stati giocattoli nelle loro mani. Queste scene sublimi e magnifiche mi donarono tutto il conforto che potevo ricevere…” .
Più che un’immagine da romanzo, sembra il racconto autobiografico di una vacanza sulle Alpi, inesauribile fonte di emozioni scaturite dalla solitudine, dalla verticalità e dal mistero delle vette. Le cupe bellezze che fino a pochi decenni prima mettevano in fuga i montanari e tenevano lontani i cittadini si sono trasformate in rimedi dell’anima, esattamente come aveva promesso Jean-Jacques Rousseau:
“Sulle alte montagne dove l’aria è pura e sottile, la respirazione è più agevole, il corpo è più agile, lo spirito più sereno, i piaceri meno ardenti, le passioni più moderate. Le meditazioni assumono lassù non so che carattere grande e sublime, proporzionato agli oggetti che ci colpiscono, una non so che voluttà tranquilla che non ha niente d’acre o di sensuale” .
“The Alps, the Alps!” è il nuovo imperativo che risuona nei salotti londinesi. Le Alpi sono la nuova frontiera, l’ultimo pezzo di mistero nel cuore stanco del vecchio continente. E allora via per le strade più impervie e le locande più primitive, a inseguire la moda del viaggio e il brivido dell’imprevisto. Leslie Stephen, il padre di Virginia Woolf, definisce le Alpi come il “terreno di gioco dell’Europa” , introducendo la variabile del piacere su una geografia della mente che è sempre stata sinonimo di fatica e sofferenza. Gli inglesi portano del denaro ma spesso considerano le Alpi alla stregua delle terre di colonia, abitate da gente sporca, gozzuta e primitiva; però divulgano le bellezze della natura, attirano altri visitatori e di fatto obbligano i valligiani a inventarsi due nuovi mestieri: l’albergatore e la guida alpina.
Charles Dickens, lasciato il Lago Maggiore e le leggiadre Isole Borromee, una notte di novembre del 1845 deve attraversare il Passo del Sempione e lo descrive così:
“Lasciandosi dietro i tranquilli paesini italiani addormentati sotto la luna, la strada cominciò subito a serpeggiare tra alberi cupi e dopo un po’ sbucò sopra un pendio più spoglio, dove la luna batteva alta e luminosa…
Proseguimmo così tutta la notte per un tragitto difficile, salendo sempre più in alto senza un momento di tedio: eravamo immersi nella contemplazione delle nere rocce, delle vette e degli abissi spaventosi, delle lisce distese di neve adagiate nei crepacci e nei calanchi, dei gagliardi torrenti che precipitavano rumorosi giù per le profonde lontananze. Raggiungemmo le altezze innevate verso l’alba. Un vento penetrante fischiava con gran forza. Dopo avere svegliato non senza difficoltà gli abitanti di una casa di legno che sorgeva in questa solitudine, nel mezzo di un furioso turbinare di neve, facemmo colazione alla meglio in un ambiente di tavole grezze, ben riscaldato dalla stufa e idoneo a riparare, secondo necessità, dall’impeto delle bufere…” .
Anche il concetto di rifugio ha cambiato significato.

Le Alpi terra di rifugio
Per i cacciatori e i pastori che per millenni hanno attraversato le Alpi, rifugio era uno spiovente di granito per difendersi dal temporale o un tetto di calcare dove far riposare le greggi.
Per le milizie romane costrette loro malgrado ad affrontare le montagne, rifugio era un ricovero militare sulle vie degli eserciti, luogo coatto da abbandonare al più presto per ritrovare vera protezione in pianura.
La prospettiva di rifugio in senso moderno comincia a prendere corpo con gli ospizi medievali, che conferiscono ai valichi delle Alpi una dimensione domestica nello scenario selvaggio delle cime.
“Se una cima è opera della natura – scrive W. A. B. Coolidge –, un passo alpino è opera dell’uomo” . Una sommità, in altre parole, non è altro che un fenomeno naturale, mentre un “passaggio” non può essere considerato tale fino al giorno in cui l’uomo non vi sia passato. I motivi che spingono l’uomo ad affrontare un valico attraverso il ghiacciaio sono di ordine pratico. Per scalare una cima, invece, occorrono motivi di altro tipo.
Le nuove motivazioni si manifestano alla vigilia della Rivoluzione francese. È il passaggio dai colli alle cime. È il salto verso l’alpinismo. Alla tradizionale prospettiva dell’alpe dura, oscura e minacciosa, eppure ricovero e salvezza per eretici e “diversi”, si contrappone l’idea romantica di una montagna sublime, dispensatrice di “deliziosi orrori” e conturbanti emozioni.
Sulla montagna anche gli alpinisti cercano pace, ma attraverso l’avventura. Per gli alpinisti idealisti le Alpi sono uno spazio protetto dalla degenerazione morale della città e, contemporaneamente, un terreno ignoto da esplorare e da vincere. La nozione di rifugio ormai è duplice: indica il romantico rifugio della natura – “si direbbe che, alzandosi sopra il soggiorno degli uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte dalla loro inalterabile purezza” –, ma indica anche il rifugio alpinistico, un riparo artificiale ideato non per contemplare la natura, ma per sfidarla e sottometterla:
“Varrà la pena di descrivere quella capanna, quel rifugio così importante per noi – annota Horace Bénédicte de Saussure dopo il tentativo di ascensione al Monte Bianco del 1785, lungo la via del Goûter –. Era larga all’incirca otto piedi su un lato e sette sull’altro, e alta quattro. Era chiusa da tre muri e la roccia contro cui si appoggiava faceva le veci del quarto…” .
La capanna-rifugio della Pierre Ronde non risponde a esigenze militari o religiose, e non ha niente da spartire con le antiche consuetudini di solidarietà verso i viandanti. È stata ideata – per usare ancora le parole del Saussure – “perché la gente del posto non crede che ci si possa azzardare a passare la notte su quelle nevi” . Oltre il limite umanizzato dei pascoli, oltre la ragionevole soglia di sopravvivenza degli ultimi fiori, il buio fungeva ancora da detonatore per le angosce ancestrali dei montanari.
Per questo il cercatore di cristalli Jacques Balmat fu considerato per molti anni l’eroe del Monte Bianco: non tanto perché aveva raggiunto la cima con il medico Michel Gabriel Paccard, oscurandone l’intelligenza e la volontà, quanto perché, bivaccando involontariamente tra i ghiacci del Grand Plateau nel giugno del 1786, aveva dimostrato che si poteva sopravvivere agli spiriti delle altezze.
In pochi decenni le guide alpine e le associazioni alpinistiche fanno quello che non è riuscito agli eserciti romani e neppure a Napoleone: conquistano la notte e addomesticano le Alpi. Ma è un processo lento e contraddittorio, ostacolato da vecchi fantasmi. Nel 1880, quando il Cervino è già incatenato con scale e corde fisse, e due rifugi rendono agevoli la via svizzera e la via italiana, Albert Frederick Mummery tenta la cresta di Fürggen con la grande guida Alexander Burgener, un vallesano forte come una roccia, uno scalatore rotto a ogni esperienza. Racconta l’inglese:
“Evidentemente le guide volevano far dimenticare la lenta marcia della notte precedente con quella rapida di questa; fu quindi con gran gioia che salutai il nostro arrivo sul vasto piano di pascoli paludosi che si stende sotto il Lago Nero. Qualche minuto dopo eravamo circondati dall’ondeggiare stregato, soprannaturale, di innumerevoli fuochi fatui. A ogni passo vagavano a destra e a sinistra; li avevamo appena sorpassati che ricomparivano furtivamente dietro di noi, seguendo le nostre tracce, inquietanti, pieni di minacce cui non pareva possibile sottrarsi, né fuggendo né volando. Le guide erano terrorizzate. Burgener, aggrappato al mio braccio, mormorava con voce roca: “Eccole, Monsieur, le anime dei trapassati” .
Nel montanaro che osa sfidare la montagna permane a lungo il senso di colpa per la violazione del tabù. Il rifugio, in questa prospettiva, non è tanto un riparo dal freddo e dalle intemperie, quanto uno spazio protetto, un luogo senza tempo, un limbo. Mentre là fuori le anime dannate espiano tra i ghiacci i loro peccati, memori di quella colpa che sottrasse loro la mitica “città”, l’eden, il paradiso perduto, gli alpinisti annullano la notte e si sottraggono al peccato chiudendosi semplicemente una porta alle spalle. Il rifugio assume le forme e i significati di un piccolo santuario, con le candele sempre accese, il crocifisso sopra il tavolo di legno, la penombra che, anche in pieno giorno, conferisce all’ambiente un senso di pace e un alone di mistero. Per entrare ci si toglie le scarpe, come in molti luoghi sacri, e quando la notte sale dal fondovalle con le sue inquietudini si abbassa il tono di voce, quasi a sussurrare una preghiera perché il tempo sia benigno e qualche dio si prenda cura degli alpinisti, l’indomani.
L’incantesimo si incrina in prossimità dell’alba, quando il primo alpinista apre la porta del rifugio ed esce a scrutare le stelle, “è bel tempo, bisogna andare!”, e allora gli alpinisti si riappropriano della trasgressione per cui sono venuti. Si rimettono in cammino e, con un soffio di vento sulla faccia, lasciano definitivamente alle spalle il non-spazio del rifugio, le pigre liturgie della sveglia, gli odori rassicuranti di minestrone e di caffè, i rumori domestici delle stoviglie. Passare dall’intimità del rifugio alla vastità della montagna è come riprendere la vita dopo una parentesi di non vita, ma è anche calpestare quello spazio “proibito” che per millenni ha tenuto lontani i montanari e i cittadini dalle creste e dalle cime, avamposto di draghi e di demoni.

Valligiani buoni e valligiani cretini
“Qui dove solamente la natura è legge,
Nessuna imposizione limita il dolce regno amoroso:
Senza pudori è amato ciò che è degno d’amore.
Il merito dà valore alle cose, che l’amore eguaglia;
Anche nella povertà si ammira la grazia.
Non si scambiano favori in attesa di compensi,
Né l’ambizione separa ciò che fu unito dall’affetto;
la brama di potere non è fautrice di sventure.
L’amore libero non teme le tempeste,
Non si ama per volere dei padri, ma per propria scelta.
Appena un giovane pastore sente la passione
Che uno sguardo languido accende negli animi vivi,
Nessun timore trattiene la sua bocca
E una parola sincera rileva ciò che prova.
Lei lo ascolta, e se egli ne merita il cuore,
Confessa i propri sentimenti, e agisce secondo desiderio.
Poiché non offende la bellezza la tenera emozione
Che nasce dalla grazia e vive di virtù.
Scimmie di purezza sono gli indugi, falso moralismo,
Creati dalla superbia per un inutile tormento.
Il desiderio non è oppresso da orpelli superflui:
Lui ama lei, che lo riama, questo solamente li unisce.
Consolida l’unione la fedeltà reciproca,
Un sì serve per il giuramento, che un bacio sigilla.
Dai rami vicini li saluta un grazioso usignolo,
Il piacere appresta il letto sul muschio morbido,
Un albero è la cortina, la solitudine unica testimone.
Tra le braccia del pastore l’amore guida la sposa.
Coppia tre volte beata, degna delle invidie di un principe:
Tra la seta dimora la nausea, balsamo dell’amore è l’erba.
Il talamo resta puro, inutili i custodi
Dove vegliano innocenza e ragione.
La curiosità non ricerca beni inaccessibili:
Anche dopo il possesso, l’oggetto amato resta bello.
La mano dell’amore cosparge il lavoro di rose,
Nel pensiero per l’amante sono piacevoli i doveri…
Distanti dal vacuo affanno degli affari,
E dal fumo delle città, essi vivono in pace.
Tempra le forze fisiche la loro vita attiva,
Ignorano la noia che fa crescere la pancia.
Li desta e ne quieta gli animi il lavoro,
Che salute e piacere rendono più lieve.
Nelle loro vene scorre sangue sano, non viziato
Da veleni ereditari, né amareggiato dall’ansia,
Corrotto da vini stranieri, infetto da sifilide,
O avvelenato da cucine forestiere.
E quando la rigida tramontana abbandona il regno dei venti
E una linfa vitale penetra ogni cosa,
Quando la terra si ammanta di ornamenti nuovi,
Portati su ali tiepide da una dolce brezza,
Allora il popolo lascia le valli invise,
Dove la neve si scioglie in fiumane torbide,
E corre verso le Alpi a trovare la prima erba…”.
Il poemetto Die Alpen dello svizzero Albrecht von Haller , scritto nel 1729, può essere posto alla base dell’idealizzazione del montanaro virtuoso, l’alpigiano probo, il buon selvaggio così caro a Rousseau e a tutta la tradizione romantica, che troviamo in vita ancora nella seconda metà del Novecento nel famoso volume Lassù gli ultimi di Gianfranco Bini , che con innegabile abilità teatrale immortala i modi di vivere della società contadina della Val d’Ayas.
Per qualche tempo la rappresentazione del montanaro buono si contrappone a quella del valligiano gozzuto e cretino. Felice Giordano annota nell’estate del 1864:
“Ogni qualvolta per accedere alle vette più sublimi delle Alpi si deve percorrere questa nostra grande vallata (la Valle d’Aosta, nda), è impossibile il difendersi dal penosissimo senso che induce nell’animo la vista del sozzo ed estesissimo cretinismo che tuttora la infesta. Il giorno in cui io passavo per Aosta era giorno di mercato, ed ai gozzuti e deformi della città s’erano aggiunti in grandissimo numero quelli anche più orribili delle vicine valli. Lo spettacolo di tanti esseri cretiniformi è tale da disgustare lungamente della specie umana, e ben potrebbe giustificare mezzi più efficaci per rimuovere un sì degradante malanno. L’animo non si rimette che nei villaggi superiori, dove s’incontrano meno infrequenti gli uomini ben formati” .
La causa fondamentale dell’ingrossamento della tiroide era semplicemente la carenza di iodio nell’acqua e nei cibi di montagna. Il cretinismo invece era un fenomeno più raro e si presentava solo nelle zone ad alta diffusione di gozzo come la Valle d’Aosta. Durante la gravidanza il feto subiva delle irreversibili alterazioni al sistema nervoso e nascevano persone cretine, per sempre.
Il cretinismo è stato una piaga oscura che ha turbato i sonni di religiosi, studiosi e pensatori, e non ha certo fatto del bene all’immagine delle Alpi. Victor Hugo scriveva nel 1839:
“Le Alpi producono molti idioti. Non è concesso a tutte le intelligenze di riuscire a convivere con tali meraviglie e di portare con sé, dal mattino alla sera, un raggio visivo terrestre di cinquanta leghe su una circonferenza di trecento” .
Dunque montanari virtuosi da un lato e cretini dall’altro, con il rischio che le due visioni si sovrappongano, o siano semplicemente due facce della stessa medaglia. Infatti la vera contrapposizione sta altrove, tra alto e basso, montagna e pianura, valligiani e cittadini. Su questo opposto, inesauribile fonte di ispirazione filosofica e letteraria, sono cresciute l’immagine e la rappresentazione delle Alpi.

Città e montagna: il mito di Heidi
Si pensi alla fortunatissima storia di Heidi. Perché il romanzo di Johanna Spyri ha avuto tanta fortuna nel mondo, al punto da rappresentare dall’Europa all’America al Giappone il mito della montagna, l’unico mito universalmente riconosciuto? Non si può onestamente rispondere che il libro sia un capolavoro, o che Heidi sia un personaggio letterariamente memorabile, e neppure che l’autrice abbia saputo dipingere in modo magistrale le Alpi e i loro abitanti. No, ci sono stati certamente autori molto più efficaci nel descrivere la misteriosa realtà dell’ambiente alpino (si pensi per esempio a Ramuz, svizzero anche lui, ma vero scrittore) e personaggi più riusciti della piccola Heidi, che in fondo è solo l’abbozzo di una figuretta per bambini, un’edificante icona infantile che sembra già destinata ai cartoni animati prima ancora che nascano il cinema e l’animazione.
La fortuna della Spyri e della sua ingenua creatura non va cercata nella complessità della trama o nella raffinata caratterizzazione dei protagonisti, bensì nell’esatto contrario: la semplificazione del messaggio e dello schema narrativo. Proponendosi di scrivere un libro per ragazzi in cui lo scopo pedagogico si coniugasse con la facile assimilazione del racconto, la Spyri è inconsapevolmente riuscita in un’impresa diversa: a ricreare il mito della montagna, incarnando lo stereotipo della buona pastorella fiduciosa in Dio, cresciuta con il latte delle pecore e l’acqua dei ghiacciai.
La storia si basa esattamente sulla contrapposizione tra montagna virtuosa e città viziosa, l’antico paradigma della letteratura settecentesca. La creatrice di Heidi, nel 1880, non fa altro che applicare il mito nato cent’anni prima dai turbamenti del Romanticismo e assestatosi attraverso un secolo di Grands Tours, ma la vicenda della pastorella di Dörfli è così esemplare, così didascalica che il mito sembra inventato ex-novo per i giovani animi di fine Ottocento, certamente più disincantati e meno colti dei loro bisnonni, ma ugualmente bisognosi di uno sfondo edificante nel momento in cui si apprestano a “riconquistare” le Alpi con la villeggiatura e il turismo. Heidi nasce nel preciso momento in cui il mito delle Alpi avverte la necessità di una consacrazione popolare, per scivolare dalle fragili vette della poesia nelle solide braccia del mercato promozionale turistico.
Ascoltiamo Heidi un giorno passato al cospetto dell’alta montagna:
“Heidi si lanciò nella descrizione della giornata, disse che tutto era stato splendido, ma quello che più l’aveva colpita era stato il divampare dei colori, al tramonto, come un immenso incendio.
“Da dove viene quel fuoco, nonno? Peter non ha saputo spegarmelo”.
“Ecco, è un effetto del sole. Per dare la buonanotte alle montagne, manda loro i suoi raggi più belli perché non lo dimentichino, durante la notte”.
Heidi, entusiasta, avrebbe voluto che presto fosse di nuovo sera per dare la buonanotte alle montagne in quel trionfo di colori. E invece era ora di andare a dormire.
E dormì per tutta la notte nel suo letto di fieno, profondamente, sognando monti rossi e rosa in mezzo ai quali la capra Bianchina zampettava, felice”.
Nel 1880 Johanna Spyri è l’inconsapevole complice di quel complesso passaggio culturale (ed economico) che dal mito romantico delle Alpi andrà a sfociare nell’industria turistica; nel suo sforzo pedagico rivolto alle nuove generazioni trova il modo di rappresentare l’ambiente alpino esattamente secondo le immagini, o i miti, che il pubblico (il vasto pubblico, ormai), si aspetta dai nuovi intepreti della tradizione alpestre.
La protagonista della sua storia incarna l’animo puro e incantato della natura in contrapposizione alla cultura tortuosa e fallace della ricca famiglia di Klara Sesemann, alter ego borghese di Heidi, triste fanciulla di città costretta da anni sulla sedia a rotelle. La malattia di Klara è diretta (anche se non dichiarata) conseguenza dell’aria viziata di Francoforte (da cui non si vedono neppure le montagne), sede del potere economico e finanziario tedesco, mentre le gote rosse di Heidi anticipano il valore taumaturgico dell’aria delle Alpi che guarirà l’inferma.
“La contrapposizione tra la natura e la società umana – ha notato Annibale Salsa – viene rappresentata allegoricamente nell’antitesi tra l’universo virtuoso (la Natura educatrice) e l’universo vizioso (la Società corrotta). La montagna alpina acquista il significato sublime di un topos liberatorio dalle nevrosi del moderno ambiente urbano” .

L’Alpe educatrice
Edmondo De Amicis, l’autore del libro Cuore, il 6 settembre 1903 benedice con un messaggio il pranzo del Congresso degli alpinisti italiani:
“A voi egregi commensali, alla gioventù e alla fanciullezza che voi educate ed educherete all’amor virile e gentile delle Alpi, affettuosamente auguro fortuna in ogni forma d’ascensione della vita (poiché vivere, nell’alto significato della parola, è salire); auguro quanta felicità è possibile in un mondo dove è legge la lotta; e tutti i conforti che possono dare ai dolori inevitabili l’ardor del lavoro, il sentimento della forza, l’ammirazione della natura, e una profonda, invitta fede nella potenza infinita del bene, destinato all’ultima vittoria nel mondo” .
Le parole del vecchio Edmondo, che era padre dell’alpinista Ugo e aveva imparato a condividerne gli ideali, contengono gli ingredienti fondamentali della religione dell’Alpe (la maiuscola era voluta). Una sintesi tra i valori di ardimento dell’Italia risorgimentale, laica e liberale, e lo sguardo filantropico del socialismo umanitario di inizio Novecento.
Tra le righe del messaggio si possono individuare i temi archetipici della religione della montagna: innanzi tutto il vangelo di Guido Rey – “Credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede” –, che attraverserà tutto il secolo stampigliato sulle tessere dei soci del Club alpino; poi lo slancio virile e virtuoso dell’ascensione, che distingue i casti cimenti delle vette dalle lascive mollezze del piano; infine, accompagnata dalla compassione per le pene dell’esistenza umana, la fede nel bene superiore (un bene etico segnato da un attributo fisico: più alto, più vicino all’assoluto). In tal modo l’alpinismo, attività atletica fondata su sane pratiche e buone tecniche, si candida come il veicolo simbolico di un riscatto morale.
Questi presupposti etici e terapeutici non potevano certo sfuggire agli educatori cattolici, che all’inizio del Novecento trovano nell’escursionismo e nell’alpinismo il mezzo per coniugare sobrietà, carità e preghiera. Scrive nel 1924 Pier Giorgio Frassati, futuro beato della Chiesa:
“Queste ascensioni alpine hanno in sé una strana magia, che per quante volte si ripetano e per quanto si assomiglino tra loro, non vengono mai a tedio, nel modo stesso che mai ci tedia l’eterna ed uguale vicenda della primavera… Non bisogna però dimenticare che se gli esercizi fisici irrobustiscono il corpo, è necessario che altrettanti sani e forti principi morali affinino e irrobustiscano l’animo” .
Il giovane Frassati morirà di lì a pochi mesi per un fulmineo attacco di poliomelite, senza riuscire a scalare il Cervino dei suoi sogni.
Nel Ventennio la montagna assume due ruoli eticamente contrapposti. La propaganda fascista, attraverso le colonie e i campeggi estivi, le adunate dell’alpe, i treni della neve, apre i monti alle masse e tenta di trasfondere l’eroica retorica degli alpini in forme di alpinismo casereccio e demagogico. Con la complicità dei regimi, interessati a creare e idealizzare l’uomo “forte e puro”, nasce una retorica della montagna fondata sulla ricerca dei massimi livelli (salita, forza, purezza) cui la borghesia colta e antifascista contrapporrà l’understatement di chi usa la montagna non per esibire, ma per nascondere.
La testimonianza più riuscita dell’educazione alpina borghese, misurata e sobria ai limiti dell’inafferrabilità, si ritrova nelle prime pagine del Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. È interessante come la rudezza dell’iniziazione imposta dal capofamiglia a moglie e figli venga utilizzata in modo antitetico all’eroismo declamato. È la stessa retorica del sacrificio, ma ideologicamente capovolta:
“Non era consentito, nelle gite in montagna, né cognac né zucchero a quadretti: essendo questa, lui diceva, “roba da negri”; e non era consentito fermarsi negli châlet, essendo una negritura. Una negritura era anche ripararsi la testa dal sole con un fazzoletto o con un cappelluccio di paglia, o difendersi dalla pioggia con cappucci impermeabili, o annodarsi al collo sciarpette: protezioni care a mia madre, che lei cercava, al mattino quando si partiva in gita, di insinuare nel sacco da montagna, per noi e per sé; e che mio padre, al trovarsele tra le mani, buttava via incollerito.
Nelle gite, noi con le nostre scarpe chiodate, grosse, dure e pesanti come il piombo, calzettoni di lana e passamontagna, occhiali da ghiacciaio sulla fronte, col sole che batteva a picco sulla nostra testa in sudore, guardavamo con invidia “i negri” che andavan su leggeri in scarpette da tennis, o sedevano a mangiar la panna ai tavolini degli châlet. Mia madre, il far gite in montagna lo chiamava “il divertimento che dà il diavolo ai suoi figli” .
Altra testimonianza famosa e geograficamente conforme è quella di Massimo Mila nel Capitolo primo e ultimo di un’autobiografia alpina. Per il piccolo Mila si tratta di un’iniziazione materna:
“La persona che mi avviò alla montagna fu quella che più tardi avrebbe dato qualunque cosa per allontanarmene, cioè mia madre. Era giovane e robusta, nel 1920, quando una mattina sì e una no, durante la villeggiatura alpina a Coazze, mi tirava giù dal letto di buon’ora e dopo avermi somministrato il caffè-latte con l’uovo sbattuto mi guidava in lunghe galoppate mattutine su per i bricchi della Val Sangone… Mia mamma mi avviava alla montagna convinta del suo valore terapeutico per un adolescente magrolino e troppo studioso qual ero, ma nello stesso tempo me la somministrava con prudenziale gradualità: io ero ’l cit, il bambino, e non dovevo mica pretendere degli scarponi forieri di imprudenze” .
Naturalmente la piccola Ginzburg evitò per sempre la montagna, mentre il piccolo Mila se ne innamorò e divenne alpinista.

La rappresentazione contemporanea
La prima volta che l’alta montagna esce dal cenacolo degli alpinisti lo fa in modo spettacolare. Il 15 marzo 1852, all’Egyptian Hall di Piccadilly, va in scena il Monte Bianco per merito (o per demerito, secondo l’inappellabile condanna di John Ruskin) di un certo Albert Smith, una specie di signor Rossi britannico che si è fatto un nome firmando articoli, commedie, romanzi, traduzioni e pantomime, ha avuto la fortuna di scalare il Monte Bianco con le guide di Chamonix e si è scoperto geniale venditore di se stesso. Di ritorno dall’ascensione, Smith allestisce un diorama destinato a raggiungere le duemila repliche, a fargli guadagnare più di trentamila sterline e a portare nelle sale inglesi le meraviglie dell’alta montagna, gli esotici splendori dei ghiacciai e delle cime, gli esclusivi brividi delle Alpi. In duemila appuntamenti gremiti di folle curiose ed entusiaste Smith conquista la piccola e media borghesia vittoriana, che non può permettersi di seguirlo se non in poltrona perché teme i rischi e detesta le novità.
La stessa eco, ma in negativo, giunge dal Cervino tredici anni dopo, a metà luglio del 1865. Non per la sensazionale vittoria di Edward Whymper sul “più nobile scoglio d’Europa”, ma per la tragica caduta che coinvolge tre alpinisti inglesi e la guida Croz durante la discesa. Non ci vuole molto perché le meravigliose sensazioni destate dalle immacolate nevi di Smith si trasformino in sentimenti di orrore e condanna verso l’insensata pratica dell’alpinismo. La sciagura del Cervino diventa il caso dell’anno. Si apre un’inchiesta, si setaccia ogni macabro dettaglio, si versano fiumi di inchiostro per cercare di dare un senso all’accaduto. In un balletto di moralismo e ipocrisia, Whymper viene accusato perfino di aver tagliato la corda per salvarsi la pelle. Lo processano come un malfattore.
Anche se l’alpinismo ha mosso appena i primi passi e il turismo alpino si può dire in fasce, è comunque già chiaro un fatto: non saranno l’ironia di Smith o l’umorismo di Daudet e del suo Tartarino di Tarascona a durare nel tempo, costruendo l’immagine della montagna nelle fantasie del pubblico. Dal Cervino di Whymper all’Everest di Krakauer, sarà la tragedia il più grande detonatore di curiosità e di emozioni per chi vive lontano dalla verticale. Campioni o morti in prima pagina. Meglio morti che campioni.
Eppure il grande incontro tra montagna e pianura deve ancora arrivare. Fino alla primavera del 1915 le Alpi sono un mondo quasi incontaminato, attraversato dai cacciatori di camosci, dalle guide e da pochi aristocratici che annotano sui loro taccuini: “Sulla sommità del mondo riposa meglio l’uomo che ha faticato per raggiungerlo” . Poi scende l’apocalisse e dopo due anni di guerra niente è più come prima.
La Grande Guerra scaraventa sulle Alpi migliaia di uomini altrimenti destinati a una tranquilla vita di pianura. Nel bene e nel male, più nel male che nel bene, la guerra porta il popolo sulle montagne e gli fa scoprire un mondo ignoto, una frontiera collettiva inesplorata nel cuore dell’Europa contadina e industriale. I valori di eroismo e virilità collegati al sacrificio degli alpini e ai simboli retorici del fiasco di vino e del vecchio scarpone sono destinati a guadagnarsi un ruolo forte e duraturo nel Novecento, offuscando le reminiscenze romantiche dell’alpinismo delle origini. È il passaggio dal riserbo dei pochi alla partecipazione delle masse, che, abilmente pilotate dai regimi, riprenderanno la strada della montagna in tempo di pace con i treni della neve e le prime associazioni escursionistiche popolari.
La guerra consacra lo stereotipo della montagna tragica e austera, su cui il fascismo farà presa per cantare le gesta eroiche degli alpinisti campioni della patria. Uno stereotipo durissimo a morire. Pochi miti della storia moderna hanno impiegato così tanto tempo a sbiadire e a perdere consenso, anche se si tratta di una memoria di violenza e di morte, anche se è il ricordo di un inutile sacrificio e di una feroce carneficina che lasciò sulla terra una generazione di ragazzi innocenti. Mentre il mare suscita onde di piacere e venti di trasgressione, la montagna si carica fardelli di fatica e sofferenza purificatrice.
Su questi ingredienti, per circa cinquant’anni, i registi, gli scrittori e i giornalisti hanno costruito la rappresentazione della montagna. Il romanzo di alpinismo più fortunato della storia, Premier de cordée di Roger Frison-Roche , racconta di una giovane guida colpita nel fisico e negli affetti (il padre è morto a causa di un fulmine sull’Aiguille du Dru) che riconquista la propria dignità attraverso un lento e doloroso processo di purificazione alpinistica. Il più riuscito lungometraggio di montagna, Cinque giorni un’estate di Fred Zinnemann, narra di un drammatico triangolo amoroso tra una bella cittadina, lo zio alpinista e l’immancabile guida alpina: il sacrificio della guida redimerà la relazione incestuosa.

La reinvenzione del mito
Il Sessantotto, o meglio gli anni Settanta, cambiano molte cose nell’alpinismo e nel modo di avvicinare la montagna.
Sulle pareti di granito baciate dal sole e folgorate da lampi psichedelici gli alpinisti del Nuovo Mattino cercano il loro altrove, l’Oriente, Shangri-La. Rifiutano gli obblighi sacrificali della lotta con l’Alpe, il mito-espiazione delle cime ricoperte di croci, gli abiti grigi della festa, e provano a sostituirvi vestiti colorati, orari rilassati, allegri bivacchi sugli altipiani, giovani voci di donne, iniziazioni dai nomi dolcissimi: Itaca nel sole, Luna nascente, L’alba del Nirvana.
Attraverso nomi e tecniche inedite si fa strada un approccio “dolce” verso la montagna, a lungo violentata dall’aggressività delle guerre e dei regimi, e più minacciata che mai al tempo delle funivie, delle vie ferrate, delle seconde case e dello sci di massa.
I primi accenni di erotismo fanno timida comparsa in un microcosmo ancora schiacciato fra triviali uscite da caserma e ascetismi forzati, che l’alpinista torinese Gian Piero Motti identifica con una fuga dalla società. Reinhold Messner, il migliore comunicatore della storia dell’alpinismo, confessa negli anni Settanta che in cima agli ottomila lui non fa più sventolare nessuna bandiera, solo il foulard strappato dal vento. Nei palasport affollati come per i concerti rock la gente comincia a cogliere che la montagna è unita al resto del mondo e che l’“eroe/antieroe” dell’Himalaya non è un “montanaro” che parla un linguaggio cifrato, ma un giovane come tanti, solo più testardo e ambizioso degli altri.
Ma la montagna vera resta un’altra cosa: un mondo contadino che non fa notizia né spettacolo. Lo scrittore Nuto Revelli lo definisce il mondo dei vinti , denunciando con un’accorata raccolta di testimonianze raccolte sul campo il collasso antropologico di cui sono vittime le montagne cuneesi negli anni del boom industriale: valli svuotate, paesi abbandonati, memorie affidate agli ultimi vecchi. Il giornalista Aldo Gorfer e il fotografo Flavio Faganello, con un contributo di inchieste che non ha paragoni nella pubblicistica alpina , fanno luce sulla mutevole realtà delle valli trentine e sudtirolesi, dove non si vive in modo altrettanto drammatico il fenomeno dello spopolamento, ma si assiste al lento e inesorabile disgregarsi della cultura tradizionale soppiantata dai modelli urbani. Incalzata dal turismo, dallo sci e dai condomini, la millenaria civiltà delle Alpi muore nell’indifferenza generale.
L’industria della neve è il contraltare dell’alpe eroica e moralizzatrice. Lo sci, sport mondano ed elegante, pensiero cittadino esportato in quota, avvolge con una patina dorata sia la montagna dei montanari che quella degli alpinisti, riflettendo l’immagine irreale, ma economicamente concretissima, di una montagna ricca, gaudente, consumista, urbanizzata, dove solitudine e fatica sono soltanto un ricordo. Lo sci “buca” il video e conquista i giornali, porta i cittadini “sempre più in alto”, anche se è la contraffazione pubblicitaria di un mondo, non la sua rappresentazione.
Poi anche quel modello sbiadisce, pur restando l’unico riferimento per i giornali e il grande pubblico. Gli inverni con poca neve, la pesante omologazione dello sci sulle piste di neve programmata, l’evidente contraddizione dei santuari dello “ski total” – vivi in inverno, cimiteri d’estate – spostano l’attenzione verso l’unica effettiva ricchezza della montagna: l’ambiente. Si scopre che le Alpi sono il giardino e la cintura verde dell’Europa, e a poche decine di chilometri dalle metropoli custodiscono le ultime zone wilderness.
Ma le Alpi sono anche i corridoi dei Tir e dei più costosi transiti internazionali in termini di inquinamento e vite umane. A un tratto ci si accorge che queste meraviglie della natura, che contengono le maggiori concentrazioni di biodiversità del continente europeo, sono ormai imbrigliate da 12.000 chilometri di impianti a fune e attraversate da 4.000 chilometri di autostrade. Ci vivono da dodici a quattordici milioni di persone in precario equilibrio, accanto a un esercito di oltre cento milioni di turisti stagionali che sale a godere e abbandonare luoghi talmente celebrati da rischiare di diventare “non luoghi”, cioè paesaggi patinati ma senz’anima.
Queste riflessioni, oltre a condizionare le scelte degli enti e delle amministrazioni locali, cominciano a far breccia anche nelle aspettative del mercato, nell’idea pubblica di montagna, identificandola sempre più con un territorio simbolicamente incontaminato e culturalmente autonomo, un “altrove” dalla città dove si possono vivere esperienze ed emozioni. Si inizia a parlare di turismo responsabile, che consiste nel valorizzare le differenze e le peculiarità di ogni luogo, dal dialetto alla cucina, che si arricchisce nello scambio di culture esogene ed endogene, che si mantiene attraverso un graduale e morbido inserimento del turista nella realtà locale, rispettandone i tempi, i riti, gli usi, la dignità. Il contrario del turismo di massa, che piallando ogni sfumatura rischia di trasformare la montagna in uno sterile surrogato della città.
Ed eccoci alla montagna del terzo millennio, un coacervo di vecchio e di nuovo, un impasto di tradizione e modernità, un mondo fragile e complesso che si trova davanti a scelte difficili e decisive. Paradossalmente la sopravvivenza della tradizione dipenderà dalla sua capacità di trasformazione e dalla disponibilità a “contaminarsi” con altre culture difendendo i valori importanti. Pena la museificazione o l’estinzione. La cultura alpina ha bisogno della cultura della città (ampiezza di visione, capacità di programmazione), così come i cittadini hanno bisogno delle montagne per ritrovare cieli liberi e tempi liberati.
L’altrove non sta più nel “paradiso perduto” delle genti walser, dunque in un luogo estraneo nel tempo e nello spazio, e neppure nella proiezione romantica che contrapponeva con fede cieca la purezza delle vette alla corruzione del piano.
L’altrove sta qui e ora, nel rovescio di questo stesso mondo, in un “esotismo” contemporaneo che non deriva dalla distanza o dall’irrangiungibilità, ma da una vicinanza che si fa avventura o rifugio perché trattiene a sé valori centrifugati da un mondo disincantato: la lentezza, l’immaterialità, il silenzio, la vita comunitaria, i ritmi naturali.
Questi valori a prima vista ancestrali, perché apparentati con le società arcaiche, diventano attualissimi se letti come “altro” di una società frenetica, utilitarista, rumorosa, individualista e artificiale. Allora il passato assomiglia al futuro, e la tradizione ha sentore di avanguardia.