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Il padre dei musei alpini


Il Museo Nazionale della Montagna «Duca degli Abruzzi», della Sezione di Torino del Club Alpino Italiano, non può essere considerato un museo etnografico, e neppure un museo storico. Nato e cresciuto con la raccolta dei materiali dell’alpinismo, che nell’Ottocento e nel primo Novecento corrispondeva a uno sguardo più ampio sulle Alpi, capace di comprendere anche aspetti scientifici, naturalistici e – appunto – etnografici, può essere considerato il “padre” dei musei alpini, secondo una concezione che è molto cambiata nel tempo.
Il Museo della Montagna fu in un certo senso architettato e “fondato” nel 1874, quando il Consiglio Comunale di Torino, su proposta del Club Alpino Italiano, sistemò una Vedetta Alpina e un osservatorio (semplice locale dotato di cannocchiale mobile) al Monte dei Capuccini, in posizione panoramica sul Po, da cui si possono ammirare i 400 chilometri di arco alpino che incorniciano la città di Torino. Inaugurato il 9 agosto, fu donato alla sezione del CAI nel 1877. Nel 1885 si inaugurò il salone contenente le collezioni fotografiche e nel 1888 un altro salone che ospitò le collezioni scientifiche. Dieci anni dopo le sale vennero arricchite con un cosmorama alpino al piano terreno e un diorama al piano superiore. Nel 1901 il principe Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi, donò oggetti che gli erano appartenuti nella spedizione al Polo Nord. Il Museo Alpino, questa era la sua denominazione di inizio secolo, continuò ad ampliarsi fino al 1935, anno in cui fu chiuso per inadeguatezza dei locali. Riaperto nel 1942, completamente trasformato e triplicato nelle sale interne, con l’attuale denominazione, fu gravemente danneggiato dalle bombe nel 1943. Gli anni Cinquanta videro un progressivo incremento delle esposizioni fino al totale rifacimento delle sale espositive, con il completamento nel 1978 di quelle al piano terra e nel 1981 dell’intera esposizione. Poi è venuto il secondo rinnovamento. Nel 1998 la Città di Torino ha concluso i lavori per l’Area Incontri, composta da diverse sale riunioni, dalla storica Sala degli Stemmi completamente restaurata e da un rinnovato bar-ristorante. Nel 2003 è stata aperta la nuova Area Documentazione, che riunisce la Biblioteca Nazionale del Club Alpino Italiano, il CISDAE e gli Archivi del Museo. Infine, in occasione dei giochi olimpici di Torino 2006, il Museo è stato completamente riallestito con criteri scenografici contemporanei, e aperto al pubblico con la terrazza panoramica situata sui tetti del vecchio convento. L’allestimento è opera del direttore Aldo Audisio, dell’architetto Gino Bistagnino e del giornalista Enrico Camanni.

L’intuizione originale
L’idea del nuovo percorso espositivo si è aggrappata all’intuizione originale della Vedetta Alpina, dunque a quella visione ottocentesca che considerava le Alpi come ineliminabile sfondo della città, e le includeva in ogni progetto scientifico, culturale e politico prima che il Novecento, e soprattutto l’industria dell’auto, venissero a separare il destino industriale della metropoli da quello, sempre più marginale, delle vicine vallate alpine.
A volte, come sosteneva Marcel Proust, non è necessario viaggiare in mondi diversi. È sufficiente imparare a vedere le cose con occhi diversi. Su questa premessa, valida oggi come un secolo fa, è stato fondato l’impianto del nuovo Museo nazionale della Montagna di Torino: l’idea che quelle cime occhieggianti ogni giorno sopra i tetti della città – presenza scontata per i torinesi, cornice misteriosa per i visitatori forestieri – potessero recuperare il loro significato simbolico e dischiudere inaspettati orizzonti. Era giusto ripartire da vicino per andare lontano.
Il nuovo percorso espositivo è nato durante la lunga attesa dei giochi olimpici di Torino 2006, densa di speranze e delusioni, quando si è cercato in ogni modo – non sempre con successo – di riportare le Alpi al centro di un progetto che non comprendesse solo grandi impianti, spettacolo e business, ma che potesse anche incorporare un nuovo patto tra la città e le montagne, all’insegna di uno sviluppo veramente sostenibile e innovativo. L’idea del Museo si è aggrappata all’intuizione ottocentesca della Vedetta Alpina, dunque a quella concezione che stava alla base del giovane Regno d’Italia e considerava le montagne, e in particolare l’alpinismo, come una sorta di prolungamento dell’esperienza risorgimentale. Le memorabili pagine dedicate alla scalata del Cervino (1865), con Quintino Sella e il suo inviato Felice Giordano a tramare, come in battaglia, per strappare la prestigiosa cima all’egemonia degli inglesi sulle Alpi, altro non sono che l’attestato storico di una predisposizione culturale, e anche sociale, a vedere nei monti i confini alti della società civile, scuola di patriottismo e modello di solide virtù umane. Lo stesso Club Alpino, ispiratore e ideatore del Museo della Montagna di Torino, fondava il suo insegnamento sulle virtù morali dell’Alpe, come scrisse proprio Giordano di ritorno dal Cervino:
«Questa nobile e virile istituzione era intesa svegliare la parte eletta della nostra gioventù e indirizzandola alle escursioni di montagna, aprirle un arringo di severo esercizio e insieme di utili studi, quali vengono praticati con tanto amore e vantaggio dalla gioventù tedesca ed inglese… (Ma) la nostra gioventù robusta e doviziosa, spendendo altrove il suo tempo di ricreazione e il danaro, lascierebbe credere che queste virili istituzioni non si confacciano al suo genio e temperamento[…] È inutile certo il parlare di grandi sensazioni e di maschi diletti a chi è pigro e timoroso, ed un autore (il De Amicis) già disse che un merlo il quale passa la sua vita a cantare rinchiuso nella sua gabbia in fondo ad un angusto cortile, non può comprendere che l’aquila si diletti a spaziare nelle sublimi regioni dell’aria…».
Il citato De Amicis, ormai vecchio e famoso, rinnovò le promesse agli inizi del nuovo secolo. Nel 1903, al pranzo del XXXIV Congresso degli alpinisti italiani declamò:
«A voi egregi commensali, alla gioventù e alla fanciullezza che voi educate ed educherete all’amor virile e gentile delle Alpi, affettuosamente auguro fortuna in ogni forma d’ascensione della vita (poiché vivere, nell’alto significato della parola, è salire); auguro quanta felicità è possibile in un mondo dove è legge la lotta; e tutti i conforti che possono dare ai dolori inevitabili l’ardor del lavoro, il sentimento della forza, l’ammirazione della natura, e una profonda, invitta fede nella potenza infinita del bene, destinato all’ultima vittoria nel mondo».

Le stesse cose con occhi nuovi
Il nuovo percorso museale riprende a grandi tappe le visioni suggerite dall’arco alpino torinese, e ogni tappa serve per dischiudere un orizzonte più ampio: la storia, l’ambiente, la cultura montanara, il mistero, la religiosità. Indubbiamente il museo mantiene la sua marcata impronta alpinistica ed esplorativa, che vede nelle maggiori collezioni – i reperti del Duca degli Abruzzi di ritorno dal Polo Nord nel 1900, la straordinaria eredità di Mario Piacenza dopo il viaggio nel Ladakh del 1913, i materiali della spedizione italiana al K2 del 1954 – il sigillo di una vocazione.
Così il Monviso, la domestica piramide che si illumina a sud di Torino con il primo sole, è ritornato a essere il luogo storico dove – con Quintino Sella e compagni – sono nati il proselitismo della montagna, la scienza d’alta quota, la divulgazione alpinistica.
La Sacra di San Michele è il simbolo della religiosità medievale che ha pervaso e trasformato le Alpi intere, il Colle del Moncenisio è la secolare dimostrazione che le montagne furono motivo di unione e non divisione tra gli opposti versanti, il Rocciamelone svetta a ricordare un lontano giorno del 1358 in cui Rotario d’Asti inventò involontariamente l’alpinismo.
E la Valle di Susa, carica di neve e di vento nelle giornate invernali? Proprio in Valle di Susa, oggi meta di un turismo invernale dalla pretese internazionali, un secolo fa si esibirono i primi sciatori, così come sulla severa Uja di Mondrone nacque l’alpinismo invernale.
Chiudono il cerchio straordinario il Gran Paradiso, luogo dalla natura incorrotta e padre dei parchi nazionali italiani, e il Monte Rosa, il massiccio più himalayano delle Alpi. Dal Monte Rosa i piemontesi seppero partire alla scoperta delle montagne del mondo, riportando reperti eccezionali come quelli del Duca degli Abruzzi esploratore del Polo, o la collezione di Mario Piacenza, primo visitatore dell’Himalaya Kashmiriano.
L’intero percorso è illustrato con garbo e competenza dall’attore Giuseppe Cederna, di origini valtellinesi, particolarmente legato alla storia e ai racconti delle Alpi. Le lunghe “didascalie” filmate permettono al visitatore di capire anche senza leggere, e gli offrono una chiave di lettura complementare alle collezioni, alle fotografie e agli allestimenti.