Pubblicazione

Il mite combattente


Quando Alexander Langer si arrese in un giorno d’estate del 1995, uno di quei giorni disperati in cui il respiro è affanno, solo un affanno di vita, molti che l’avevano amato anche senza conoscerlo di persona si sentirono orfani. Improvvisamente soli, defraudati. A me parve di aver perso un fratello, ma di spirito, non di sangue, e in quel senso la perdita sembrò ancora più dolorosa e irreparabile.
Eppure gli avevo stretto la mano una volta sola, e la sua era fredda, intirizzita, avvolta in guanti insufficienti di lana grezza, simili a quelli che si indossavano nei cortei e nelle manifestazioni. In fondo era una manifestazione anche quella, corale e sediziosa, anche se ci trovavamo al Col Flambeau con i piedi sul ghiacciaio del Monte Bianco e la testa avvolta in una nebbia spessa e gelata. Qualche fiocco di umidità rappresa svolazzava nell’aria e imbiancava i capelli.
Era il 16 agosto del 1989. La giornata di Mountain Wilderness per il parco internazionale del Monte Bianco, progetto tuttora irrealizzato, prevedeva che le cordate italiane e francesi si incontrassero simbolicamente ai piedi dei pilastri del Mont Blanc du Tacul e unendo i loro corpi in un solo abbraccio disegnassero sul ghiacciaio la scritta “Pour le parc”. Ma c’era appunto la nebbia, al Col Flambeau, un nebbione cattivo che ritardando la partenza dei militanti erodeva il nostro ardore.
Bardati fino ai denti, piccozze ricurve in mano, scarponi di plastica ai piedi e zaini colmi di striscioni sulle spalle, inciampavamo nelle corde con i ramponi e faticavamo a dissimulare almeno per un giorno la nostra appartenenza all’olimpo alpinistico. Ogni tanto scappava un “Tornavo dal Capucin, l’anno scorso…”, o un “Voglio fare la Brenva con Alberto, se il tempo si mette a posto”, tanto per chiarire che la passeggiata sulla Vallée Blanche era solo una formalità tecnica nobilitata da un fine politico.
D’altra parte non era la prima volta. L’estate precedente si era giocato duro sui piloni volanti della funivia, e gli ovetti dell’“ottava meraviglia del mondo” si erano arresi per qualche ora all’utopia di Mountain Wilderness di restituire il ghiacciaio agli alpinisti. Messner aveva rischiato il linciaggio sulla pubblica piazza e il mondo della cultura si era spaccato in due, Ceronetti con Reinhold e Mila demagogicamente contro, ma era stata comunque una bella giornata di amicizia fremente e indignata, insperato ritorno alla partecipazione creativa in pieno riflusso politico e sociale.
Per questo si era deciso di ripetere l’esperienza e di estenderla a nuove persone, altri sognatori, battendo il ferro finché era caldo per rilanciare la sfida ecumenica di un Monte Bianco ritrovato sotto il segno del parco. Ma poi si era messa di mezzo quella nebbia ostile che sembrava mandata dai nemici del movimento, dagli infiniti mugugnatori solitari, dai detrattori dell’ambiente e di ogni idea che superasse l’orizzonte del loro naso.
Dunque bisognava ingannare la caligine: “Allora ti piacerebbe fare Voyage?”.
“Certo che mi piacerebbe, ma non ne sono capace.”
“E la Bonatti?”
“Beh, quella è un’altra cosa, è piena di chiodi.”
“Ci sarebbe O sole mio…”
“Va bene, ma ci vogliono i friend giusti.”
“E noi li compriamo.”
“Ma sai quanto costano?”
“Parliamone.”
“Parliamone.”
Alex no, lui non partecipava alle frasi di circostanza. Se ne stava in disparte con un sorriso smarrito, e portava un paio di scarponcini leggeri, poco più che pedule, sotto i jeans di cotone. Indossava un maglione di lana e un k-way celeste troppo sottile. Tremava un po’ mentre gli aggiustavano il nodo della corda sullo stomaco. Tremava gentilmente, e sorrideva.
Era del tutto inadeguato ai nostri discorsi, alle prodezze sottintese, a quello scenario da uomini duri dove ci si perde anche a cento metri dalla funivia, e noi eravamo specularmente inadeguati a lui, il mite combattente, l’unico che prima di correre a disarmare il mondo avesse provveduto a disarmare se stesso:

La nostra civiltà ha bisogno di “disarmare” e di “digiunare”, altrimenti rompe ogni equilibrio e impedisce ogni possibile giustizia e sviluppo durevole. Il pretenzioso motto del “citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte)” che contiene la quintessenza della nostra cultura della competizione, dovrà urgentemente convertirsi al più modesto, ma più vitale “lentius, profundius, suavius (più lento, più profondo, più dolce)”.

Lentamente sprofondammo nell’ovatta grigia, una cordata dopo l’altra, in colonna. Non si vedeva a tre metri di distanza, ma bastava seguire la pista e aggirare i crepacci. Sembrava di essere nella grotta delle streghe, dove il treno segue binari invisibili e tu continui a presagire una luce, un sortilegio, la fine del buio. Qualcuno sapeva che era tutta una finzione perché le radio dei francesi avevano parlato a les italiens – “Beau temps sur la Vallée Blanche, pour vous c’est seulement le brouillard du matin” –, però restavano il mistero, l’incertezza, il dubbio.
E se i francesi avessero detto il falso?
Sì, questa volta ce l’avevano cantata soave.
Ma come può far brutto alla Punta Helbronner e bello alla Midi?
I francesi non avevano mentito: il cielo dei Satelliti era senza nuvole. Le prime guglie apparvero dopo mezz’ora di cammino, isole sopra il mare, masse galleggianti, metafore di granito. Così uniche eppure così cangianti, la meravigliosa complessità delle montagne.
Alex inarcò il corpo sulla neve, alzò la testa e sorrise.
Gli parlammo delle pareti che erano venute alla luce, suggerendogli storie, nomi, suggestioni, memorie. Volle sapere dei seracchi, oggetti rari dalle sue parti. Lo impressionavano le calotte di ghiaccio spazzate dal vento.
“Da qui si vede la cima del Monte Bianco?”
“No, siamo troppo bassi.”
“Va be’, pazienza, ma questa sera me la fate vedere.”
Langer amava ascoltare e si sapeva meravigliare. Cresciuto nella tenaglia del Sudtirolo, tra odi razziali e nostalgie di altre patrie, desiderava conoscere i mondi che non erano suoi e rispettava le conoscenze degli altri, ogni forma di sapere: “A Strasburgo ho incontrato amici insospettati: una delegazione di indiani apache dell’Arizona in lotta per la salvaguardia del Mount Graham, la loro montagna sacra, che istituti americani ed europei vorrebbero profanare con un megatelescopio. “Su quel monte dove noi parliamo con la divinità non devono mettere i loro apparecchi” diceva Ola Cassadore, anziana e saggia capa indiana”.
Anche noi ci trovavamo in un santuario. Era ovvio che, nonostante la funivia, eravamo scesi in un residuo di paradiso sopravvissuto alla modernità, eppure anche su quella terra benedetta gravavano le parole di Alex:

Da cinquecento anni conduciamo con intensità via via crescente una “scoperta” che poi si trasforma in conquista e addirittura in sterminio verso i popoli indigeni del Sud del mondo. Da duecento anni circa conduciamo con intensità crescente una campagna di scoperta e di sterminio verso la natura di cui siamo parte.

Duecento erano più o meno gli anni passati dalla prima ascensione del Monte Bianco. Li avevamo festeggiati tre estati prima, con toni più adatti a una conquista che a un atto di riconciliazione, e ora si trattava di riscattare anche quelle celebrazioni stonate, sul ghiacciaio della Vallée Blanche. Un puro gesto di pace, senza proclami e prime donne. La dimostrazione che insieme si può, “pour le parc”.
Non so in che lettera sia finito Alex. La scritta umana era lunga e fatta di tanta gente, tanto che perdemmo il senso dello spazio. Un regista ci disponeva sulla neve in modo tale che non mancassero o avanzassero persone, e alla fine componemmo una teoria di lettere abbastanza grandi da poter essere fotografate dalla funivia e filmate per i notiziari della sera. L’obiettivo politico era raggiunto, e anche quello estetico. Il sole, i pilastri e il riverbero dei quattromila. Un successo.
Dopo il pranzo al sacco ripiegammo gli striscioni, salutammo i francesi e ci rimettemmo in cammino in senso contrario. Ora faceva caldo e il sole scioglieva la neve. I ramponi erano diventati inutili. Ricordo che raggiunsi e superai la cordata di Langer poco oltre il Pic Adolphe, dove la via di Salluard taglia il cielo come una prua.
Lui, Alex, si era tolto la giacca a vento e camminava felice con la corda tra le mani. Non era più impaurito, e nemmeno timido; risaliva al Col Flambeau con la gioia di un bambino che ha scoperto un nuovo mondo da amare. Per una volta erano stati gli altri a dare e lui a ricevere – l’amicizia, il sole, le montagne –, così se ne tornava a casa con una speranza da condividere.
Alex era un portatore di speranza, il mestiere più difficile. È stato capo nel senso più carismatico del termine, non ha mai trattenuto niente per sé. Era evangelicamente al servizio dei deboli di questo mondo (i diseredati, i diversi, le vittime dell’inquinamento, gli esclusi dalla globalizzazione), che sono gli unici per cui valga la pena di soffrire e lottare, ma a patto di non superare il limite.
Quando la pacifista verde Petra Kelly si tolse la vita Alex scrisse:

Forse è troppo arduo essere individualmente degli Hoffnungsträger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere.

Non erano solo parole in ricordo di Petra, era anche il suo testamento. Con un’aggiunta importante: “Non siate tristi. Continuate in ciò che è giusto”.