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Il linguaggio della montagna

Catalogo della mostra, Museo Nazionale della Montagna – Museo Alpino, Torino – Courmayeur, 24 settembre – 21 novembre 1999

Se conosci Lino Marini attraverso le sue elaborate “materie morte” e poi, un giorno, lo incontri di persona, ti puoi anche stupire della sua inestinguibile passione per le ascensioni, dei suoi miti derivati da un’assidua frequentazione della letteratura alpina, del suo culto per il culto dell’alpe. In poche parole ti puoi stupire di incontrare un alpinista, cosi come – io credo – ci si poteva stupire di incontrare in Dino Buzzati un devoto discepolo del credo alpinistico, indipendentemente dalle sue scelte letterarie, o di scoprire in Massimo Mila un fervente predicatore dei dogmi delle vette, a prescindere dalla sua competenza musicale.
Ogni volta che la cultura “alta” incontra la montagna produce qualcosa di inaspettato, ma un’autentica creazione sulla montagna non può quasi mai sottrarsi a una preventiva “contaminazione” con le leggi dell’alpinismo. Sembrerebbe che la montagna chieda un tributo di assoluta devozione prima di manifestarsi al profano, e sembrerebbe che il profano – anche il più dotto e smaliziato – debba assumere il filtro segreto della passione alpinistica prima di potersi esprimere compiutamente sul tema.
Ha scritto Leslie Stephen, il padre di Virginia Woolf: «La ripidezza della montagna non si esprime in gradi, ma con il ricordo della sensazione prodotta da un pendio di neve che pare levarsi in piedi e prendervi a schiaffi; quando, lontani da qualunque umano soccorso, vi trovate aggrappati come una mosca alle sdrucciolevoli pareti di un pinnacolo sospeso a mezz’aria. Quanto poi all’inaccessibilità, nessuno può misurare la difficoltà di salire su una montagna se non si è affaticato muscoli e cervello combattendo contro gli ostacoli che essa gli oppone» (The playground of Europe, Londra 1924).
Lino Marini, professore universitario di storia moderna e raffinato esteta dei paesaggi umani e naturali, non è sfuggito a questa regola iniziatica. Dietro le linee e le ombre delle sue personalissime immagini scattate in svariati angoli del massiccio del Monte Bianco, e in altri luoghi delle Alpi Occidentali, batte innanzitutto il cuore dell’alpinista, mediato solo in un secondo tempo dall’occhio dell’uomo di cultura. Marini ti parla delle sveglie antelucane, degli avvicinamenti, della fatica, dell’attesa, dei compagni d’ascensione, del sole, della luna, del gelo, là dove tu vedi soltanto forme di roccia e di ghiaccio, microcosmi minerali, tratti immateriali, porzioni inanimate del suo universo simbolico stracarico di vita.
Le sue fotografie sono il risultato di un lungo processo di spoliazione. Dietro ogni inquadratura si legge, come un marchio di appartenenza, la soggezione dell’alpinista verso la rappresentazione storica della montagna, con i suoi luoghi di culto, i suoi paesaggi simbolici, le sue prospettive di riferimento, ma poi interviene l’uomo cultura che non può fermarsi alle apparenze e deve assolutamente provare a guardare oltre, per allontanarsi dallo stereotipo e avvicinarsi all’essenza.
Questo complesso processo di sintesi presuppone dei moduli espressivi classici prima di approdare, dopo una lunga elaborazione al superamento degli stessi moduli e alla formulazione di una nuova forma di espressione. Presuppone il decisivo e scarsamente praticato passaggio dalla fotografia di montagna alla fotografia in montagna, o alla fotografia sulla montagna, che sono due cose completamente diverse.
Ne ha fatta di strada, Lino Marini, dalla rappresentazione retorica dell’alpe! La sua fotografia sembra sfuggire a ogni definizione canonica e non riusciamo a incasellarlo né tra i fotografi documentaristi, impersonati da Vittorio Sella e dai suoi innumerevoli emuli, né tra i fotografi artisti e divulgatori che, come un Georges Tairraz, o un Reinhard Karl, o un Galen Rowell, hanno cercato di fermare e comunicare la misteriosa poesia dell’alpinismo. Marini suona note diverse, anche se lo strumento è lo stesso e i luoghi sono ancora quelli dei pionieri. Luoghi non particolarmente originali, per di più, anzi tra i più classici e frequentati nella storia della fotografia di montagna: il Monte Bianco, il Glacier des Bossons, le Aiguilles de Chamonix, i Drus, l’Aiguille Verte, le Grandes Jorasses, il Dente del Gigante, il Grand Capucin, il Mont Blanc du Tacul, il Mont Maudit, la parete della Brenva, la cresta di Peutérey, il Ghiaciaio del Miage.
Ma dove sta allora la differenza? Non certo in quello che c’è, ma semmai in quello che non c’è. A chi sfoglia l’inesauribile album fotografico degli alpinisti, non sfuggono alcuni elementi ricorrenti come la grandiosità delle pareti e dei ghiacciai, la spettacolarità dell’azione alpinstica, il sentimento e la nostalgia delle alte vette.
La tradizione romantica, fondata sul confronto tra i piccoli uomini e le grandi montagne, ha influenzato tanto la letteratura quanto la fotografia e ha collegato come un filo invisibile oltre un secolo di evoluzione espressiva. Théophile Gautier commentava cosi, poco dopo la metà dell’Ottocento, le prime fotografie panoramiche del Monte Bianco dei fratelli Bisson: «Nessuna descrizione di poeta, nemmeno il lirismo di lord Byron nel Manfredi, può dare l’idea di questo spettacolo che restituisce alla terra la sua bellezza d’astro sfregiato dall’uomo. I colori di un pittore, se un pittore salirà fin lassù, si eclisseranno sulla sua tavolozza. Ebbene, ciò che né lo scrittore né l’artista seppero fare, la fotografia lo ha realizzato» (“Vue de Savoie et de Suisse de MM. Bisson frères” in “Revue photographiquie”, 1862).
Gli fa eco l’alpinista inglese Doug Scott più di cento anni dopo: «Con una certa tristezza mi sono reso conto che il panorama dalla vetta dell’Everst che mi torna in mente non è più, probabilmente, la magnifica, pura, nuda visione di quel momento, ma quella a tinte forti delle diapositive che scattai in quel luogo e che da allora ho visto e rivisto tante volte. (“Fotografia” in C Bonington, “Everest, 33 giorni di scalata sulla parete sud ovest”, Rusconi, Milano 1977).
L’alpinismo è completamente cambiato ma i sentimenti no, e la fotografia ha mantenuto per un lunghissimo secolo il suo doppio ruolo di musa e di documento.
Ecco dunque l’originalità di Lino Marin. I suoi bianchi e neri non sono né icone né reportage.
Non gli servono a immortalare l’eterna epopea dell’alpinismo (di alpinisti ce ne sono quattro in tutto, microscopici, sperduti sotto un gendarme della cresta di Rochefort e su un terrazzino del Roi du Siam) e non gli servono a riprodurre sulla carta la morfologia del Monte Bianco, che è già stata riprodotta da tanti altri specialisti prima di lui – disegnatori, cartografi, fotografi, cineasti – e sarebbe perfino manchevole per l’assenza (mi pare) di alcuni tormentati recessi del versante italiano del Monte Bianco e di alcuni bacini glaciali sul versante svizzero. Eliminate anche le dimensioni – perché il gioco di Marini sta proprio nell’equiparare un qualunque pezzo di granito incontrato su una pietraia agli smisurati pilastri del Frêney, e un pezzo di ghiaccio scivolato da un candelotto gelato agli spaventosi seracchi pensili della Brenva – non resta altro che la materia nuda, cruda ed essenziale, animata soltanto dalle luci e dalle ombre del giorno, e qua e là da qualche brandello di nebbia che si insinua tra le geometrie della montagna.
Dove quasi tutti gli altri fotografi hanno sempre cercato di aggiungere qualche cosa – un pezzo di parete, una fetta di panorama, una nuvola, la scia di un aereo, il sole, la luna – per rendere l’immensità dell’ambiente tra i tre e i quattromila metri, Marini non ha fatto altro che togliere e togliere, e gettar via, conservando infine solo il nocciolo della montagna. Che per lui, per esempio nel caso emblematico del Grand Capucin, non è l’incredibile ma arcinota freccia di protogino svettante in mezzo alle guglie del Mont Blanc du Tacul, che sarebbe la prospettiva classica per chi attraversi la Vallée Blanche o per chi si avvicini al Col de la Fourche, ma sono, alternativamente, un cappuccio di pietra splendente appoggiato su una lavagna ghiacciata, o una quinta sfuggente come una sirena imprigionata dietro una fortezza di roccia, o ancora una serie di linee diagonali incisi nel granito spezzate dalle ombre geometriche degli strapiombi. Con un processo di scomposizione e di ricomposizione visiva, Marini ci offre un Grand Capucin lontano mille miglia dall’iconografia consueta, ma vicino, molto vicino, all’urlo minerale che un giorno lo ha generato e lo ha reso unico al mondo.
Non è un caso che Marini abbia scelto il granito, perché il granito è una roccia che parla a chi la sa ascoltare, e la pietra che racconta l’epopea delle montagne. Con le sue fratture, i suoi tagli le sue infinite sfumature cromatiche – dal grigio, al rosa, all’azzurro perfino – il protogino del Monte Bianco porta in sé l’interminabile e doloroso processo di formazione e di decomposizione della montagna.
Granito è la roccia esemplare, che anche in un micro frammento tappezzato di licheni, o spruzzato di impurità, sa rendere tutta la potenza della creazione e la tragedia della distruzione. In una scaglia di pietra e già racchiuso lo slancio possente di una parete di mille metri, nel bordo di un frammento c’è l’idea delle tormentate creste delle Aiguilles, nell’incisione di una pietra si cela lo stesso disegno dei diedri senza fine del Petit Dru. Le microfotografie presenti in questa mostra non sono altro che guglie, placche fessure in formato ridotto, con le stesse linee, gli stessi contrasti, la stessa personalità delle montagne a dimensione naturale.
Al granito Marini ha accostato l’altra faccia dell’alta montagna: la neve e il ghiaccio. Plastiche e fugaci forme d’acqua accanto alle dure forme della pietra, effimeri giochi contrapposti ai disegni apparentemente immutabili della roccia. Ma l’occhio del fotografo non cambia, e il campo gelato del Ghiaccialo della Lex Blanche, alla fine, ricorda il deserto verticale delle Aiguilles du Diable, così come le scaglie in controluce del Ghiacciaio del Miage sembrano un tappeto di protogino attraversato da un torrente di luce.
Il Glacier d’Argentiére gode di una doppia interpretazione. La prima risale a una ventina di anni fa e lo ritrae come un mare di neve solcato da un serpente di fuoco che si è fatto strada nel deserto congelato. La seconda, del 1996, sembra una fotografia scattata dal satellite, con il ghiacciaio ridotto a un plastico dalle rughe e dalle smagliature infinite, interrotte soltanto da due linee nere parallele. Due linee di pietra.
Pietra e ghiaccio, ghiaccio e pietra; nero e bianco, bianco e nero. C’è un’immagine emblematica di questa complementarietà, e si riferisce a uno dei luoghi più spaventosi di tutte le Alpi: l’itinerario della Poire, la “Pera” sul versante italiano della Brenva. La “Pera” è un gigantesco frutto di granito incastonato tra due triangoli di ghiaccio e due colatoi battuti dalle frane. Per rappresentarla Lino Marini ha usato il suo sistema abituale, che è quello di eliminare i contorni, isolando dal contesto una precisa porzione del paesaggio, così che la “Pera” e i suoi seracchi pensili appaiono come un gioco di scacchi – bianco e nero, regina tra gli alfieri – e non si afferra più chi è sospeso (i seracchi? la “Pera” stessa?), in precario equilibrio sull’abisso, e chi è saldamente ancorato alle fondamenta del Monte Bianco. Anche l’abisso a guardar bene non c’è più, perché appiattito e addomesticato dalla prospettiva del teleobiettivo, e quella freccia di roccia affondata nel ghiaccio la si può ruotare come si vuole, come dentro il tubo di un caleidoscopio, ottenendo sempre lo stesso gioco di bianchi e neri.
La prova? Un’altra fotografia della Brenva scattata probabilmente nello stesso momento (l’anno è sempre il 1991, è un giorno d’estate e anche le ombre si equivalgono), ma nella quale è il seracco di ghiaccio a infilarsi come una freccia tra gli spalti di granito.
Anche qui il senso della verticalità è annullato dal teleobiettivo, tanto che il seracco che precipita a valle come una cascata di ghiaccio irreparabilmente attratta dalla gravità, altro non è che una “Pera” rovesciata con il suo bel picciolo di neve cotta dal sole. Ribaltando l’immagine si ottiene un’altra “Poire”, ma in negativo.
Sono tanti gli effetti e le analogie che Lino Marini scatena con le sue inquadrature strette, senza contorni e senza orizzonte Prendiamo per esempio la lingua terminale del Ghiacciaio della Lex Blanche, cara alle scuole di alpinismo perché è il terreno più comodo per le loro esercitazioni, e cara anche agli escursionisti perché impreziosisce le passeggiate in Val Vény, ai piedi delle Pyramides Calcaires e dell’Aiguille des Glaciers.
Marini ritrae la Lex Blanche in modo monco, esasperando al massimo i contrasti delle luci e le spaccature dei crepacci, e ne ricava una grande lingua screpolata che sputa a valle rigagnoli d’acqua, come saliva.
Un bell’effetto, non c’è che dire, ma non certo un risultato casuale se risaliamo alla rappresentazione romantica dei ghiacciai e in particolare, al “Wilderwurm Gletscher” di H. G. Willink che alla fine dell’Ottocento ritrasse il suo drago di ghiaccio che sputa saliva, a ricordo delle antiche superstizioni alpine: «Nel 1680 ll naturalista Wagner non dubitava che le Alpi fossero abitate da draghi mostruosi. Conosceva anche un certo John Tinner che ne aveva incontrato e ucciso uno, una dozzina di anni prima. Secondo le parole di quest’uomo, il drago era lungo sette piedi, di colore grigio scuro, la testa somigliava a quella di un gatto e non aveva zampe. Secondo le leggende delle Alpi, certi draghi uscivano dal ghiacciai dopo le tempeste, in forma di serpenti alati. Quello del Willink ne è la riproduzione più fedele» (Paul Guichonnet, “Chamonix dalle origini alla conquista del Monte Bianco” in “Immagini e immaginario della montagna 1740-1840”, Museo Nazionale della Montagna, Torino 1989).
La stessa ambientazione si ripresenta in un’altra bellissima fotografia di Lino Marini – Glacier des Bossons, 1978 -, ma questa volta la fronte del ghiacciaio, più che un mostro cattivo, sembra una lingua di zucchero candito. La composizione è più o meno la stessa, ma sembrano passati secoli e la paura dei ghiacciai ha lasciato il posto al piacere estetico. L’orrido è diventato sublime.
Forse consapevolmente o forse no, Marini attinge da almeno duecento anni di frequentazioni e rappresentazioni colte del territorio alpino, cresciute di pari passo con l’esplorazione alpinistica. Così nel suo Mont Blanc del 1978 possiamo intravedere, come le ha probabilmente intraviste lui, le due sagome lillipuziane del dottor Paccard e di Jacques Balmat che arrancano verso il Grand Plateau e, con gli occhi accecati dal sole dei quattromila metri, cercano fiduciosamente un passaggio nel dedalo di seracchi presso la calotta del Monte Bianco. Oppure, con un salto di due secoli, possiamo immaginare Walter Bonatti che si apre la sua via a forza di chiodi sulle fessure verticali della Chandelle du Tacul, proprio in faccia allo sguardo inquisitore del Trident (Trident e Chandelle du Tacul, 1987).
E perchè non aggiungere la sagoma d Armand Charlet, con il suo cappello basco di traverso, sulle forbici di granito delle Aiguilles du Diable? O l’atletico ardore di Giusto Gervasutti, pochi istanti prima di precipitare, sul pilastro meraviglioso del Mont Blanc du Tacul? O ancora la rassicurante silhouette dl Gaston Rébuffat, pipa nella bocca e piccozza in pugno, sui merletti di ghiaccio della cresta Midi-Plan, e la grinta di Knubel e Young sulle fughe di granito rosso della parete Est del Grépon, e il solitario coraggio di Desmaison e Flematti sperduti in pieno inverno sullo scivolo di ghiaccio del Linceul? E ancora, e ancora, e ancora…
Credo che tutti gli avvenimenti che hanno fatto vivere le pareti del Monte Bianco siano in qualche modo presenti dietro le inquadrature di Marini, anche se poi l’uomo non c’è mai e le pareti, i ghiacciai, le creste e i pilastri devono arrangiarsi a parlare da soli. E forse proprio perchè l’uomo non appare, il mito dell’alpinismo ritrova quel respiro dell’immaginazione smarrito in questo tempo di commercio e di inflazione delle immagini, dopo che ci è stato mostrato di tutto e non siamo più capaci a sognare nulla.
Una fotografia straordinaria riproduce un particolare della parete Nord Est delle Droites, di piatto, illuminata dal sole del mattino. Sembra un quadro. Probabilmente un profano non ci vede nient’altro che un confuso mélange di chiaroscuri, un disumano caos di rocce spezzate e aggrappate agli scivoli gelati della parete. Un alpinista dotato di gusto estetico, invece, può leggervi una promessa di ascensione sui nastri di ghiaccio che si infilano tra i pilastri di granito, o sulle fessure rocciose che, sfidando la gravità, portano verso quel cielo liberatorio che il taglio della foto preclude agli occhi dell’osservatore.
Ancora una volta credo che Lino Marini abbia fatto proprio lo sguardo dell’alpinista, per poi superarlo con uno sguardo nuovo che, negando la prospettiva del piano di base (il Glacier d’Argentière) e della linea di cielo (la cresta dell’Aiguille des Droites), e negando le aperture laterali verso Les Courtes e l’Aiguille du Triolet, confeziona una parete mai vista prima: né da chi l’ha ammirata dai vetri del refuge d’Argentière, aspettando il minestrone, né da chi ci ha piantato le sue piccozze scalando la via Lagarde, o la via Jackson, o un altro dei temuti itinerari.
In fondo, cos’altro sono, le montagne, se non il prodotto dei cento, mille, diecimila sguardi che le hanno scrutate, interrogate, temute, amate, cantate, narrate o fotografate? Sono solo mucchi di sassi privi di valore estetico.
La lettura di un paesaggio non è mai un procedimento oggettivo uguale per tutti, e ogni paesaggio, soprattutto un paesaggio di alta montagna così povero di tracce umane, altro non è che un riflesso scaturito dagli occhi dell’osservatore, un’interpretazione simbolica che si evolve con i tempi, uno sguardo che cambia continuamente.
Ma c’è un presupposto che lo stesso Marini ha definito così: «Il bello, che indubbiamente io cerco, deve continuare ad apparire vero (…). E’ il vero profondo, che si può anche osare di ricordare».
E di fotografare, evidentemente.