Pubblicazione

Il grande polo museale di Bard

Con Margherita Bert

Il Forte
«Le glacier n’a pas voulu». Il motto, che ricalca un fortunato titolo di Saint-Loup, parla di un’altura – il monte di Bard – miracolosamente sopravvissuta alle glaciazioni, come un luogo predestinato da sempre a un futuro speciale. In fondo la strada romana, il castello medievale, i forti prima e dopo l’ira di Napoleone, altro non sono che il sigillo della storia su una roccia già di per sé eccezionale, sentinella naturale della valle, immenso cippo di confine, porta, difesa, faro.
L’altura di Bard si trova all’imbocco della Valle d’Aosta e domina una forra naturale che separa la Valle stessa dal Canavese, dal Piemonte e dal resto del mondo. Anche dal punto di vista linguistico Bard è un luogo di cerniera, un posto in cui si parlano la lingua piemontese e il patois valdostano, una frontiera della pianura chiusa dai monti, ma allo stesso tempo aperta verso i paesaggi delle Alpi.
La vocazione naturale e storica di Bard precedeva, e in un certo senso rendeva necessaria, la scelta di farne un polo museale che sapesse raccontare le Alpi nel loro complesso, e in particolare le Alpi intese come luogo di incontro e di dialogo tra civiltà, culture, punti di vista. Il visitatore del Forte di Bard segue il suo percorso senza dimenticare neanche per un momento di essere in un posto speciale, dove la natura e la storia hanno lavorato la roccia con l’acqua, il vento, la polvere da sparo, le braccia degli uomini, finché rupe e Forte sono diventati una cosa sola.
Rocce e mura, pietre e calce. Volumi appoggiati a volumi, contrafforti e feritoie, tetti, ponti, cortili: chi osserva il Forte di Bard scopre una massa architettonica immersa in un silenzio intriso di attesa. Il Forte è lì, vuoto e silenzioso, ha perso gli uomini, gli animali, la vita; ma non la storia. È come un pachiderma imbalsamato in un mondo che avanza: l’autostrada, i camion, i turisti che salgono verso le montagne, altri turisti che scendono in città.
In questa contrapposizione con l’intorno in trasformazione, il Forte manifesta il suo stato di “rovina”, nel senso nobile del termine, come ogni architettura che vede spezzarsi il sistema di funzioni e di significati simbolici che l’hanno generata. Bard ha esaurito progressivamente il ruolo di fortezza per cui era nato e si è dunque liberato dalle relazioni spaziali e funzionali che, secoli fa, ne determinarono il progetto architettonico. Come ogni altro edificio assurto alla condizione di “rovina”, il Forte presenta mura e volumi ormai liberati dagli originali significati simbolici, ornamentali e tecnici che li legavano tra loro. Come un burattino cui siano stati tagliati i fili, ora il Forte presenta spazi che sono parti compiute in sé, pronti a nuovi usi e nuove funzioni.
«Il riuso mette a contatto due logiche diverse: una esiste, l’altra vi si installa e vi interagisce» (Marco Biraghi, Miniere per la cultura). Due logiche rispetto alle quali occorreva tendere a una compenetrazione, in modo che i vincoli architettonici si trasformassero in valore aggiunto ai musei ospitati e che nel contempo il racconto museale si dispiegasse arricchendo le forme che lo ospitavano. Il problema si è manifestato in modo particolare nell’affrontare il tema dei flussi di visita: un museo, infatti, richiede percorsi fluidi, agevoli, in grado di convogliare il maggior numero di persone, con accessi ben segnalati; lo scopo primario di una fortificazione, al contrario, è quello di impedire l’accesso e la circolazione, di occultare e mimetizzare. È stato necessario cercare delle soluzioni che agevolassero i “nuovi” flussi senza sacrificare la logica architettonica originaria.
Il complesso museale di Bard non è dunque stato semplicemente concepito come un “contenitore” di storie, emozioni e saperi, ma come un luogo intrinsecamente simbolico, preliminarmente degno di attenzione, capace di evocare e raccontare molti dei piani visivi su cui si articolano le esposizioni. Ma nel contempo ogni locale, ogni piano, ogni “opera” è stata concepita come un inedito spazio architettonico, da reinterpretare secondo nuove vocazioni progettuali.
Inoltre si è tenuta in conto la peculiare posizione geografica del Forte all’imbocco della Valle d’Aosta, una “porta” naturale tra due mondi diversi e complementari. A sua volta la Valle d’Aosta, grazie alla presenza multiforme di emergenze storiche, culturali e ambientali, è diventata la “chiave” per allargare lo sguardo sulle Alpi cuore d’Europa, modello di complessità e serbatoio di biodiversità naturale e culturale.

Il Museo delle Alpi
Il Museo delle Alpi del Forte di Bard non è nato come un museo della nostalgia, memoria di un fantastico mondo del passato resuscitato artificialmente nelle stanze della fortezza ottocentesca, ma, al contrario, vuole essere l’interpretazione e il racconto delle Alpi contemporanee che incorporano la storia e la tradizione alpina.
Il gruppo di progettazione dei musei di Bard, fortissimamente voluti dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta per ridar vita al Forte e marcare una presenza culturale in valle, è nato nell’estate 2003 dall’incontro di un giornalista – Enrico Camanni – con gli architetti Luisella Italia e Massimo Venegoni. Dunque uno studioso e divulgatore delle tematiche alpine, e due progettisti specializzati in allestimenti museografici. Al terzetto si è affiancato, ma solo nella fase preliminare del concorso, il gruppo Event di Londra, affermato in tecniche multimediali.
Da subito il lavoro di elaborazione progettuale si è concentrato sul Museo delle Alpi, ambizioso «luogo» di ridefinizione delle Alpi stesse, la cui apertura era legata all’evento olimpico di Torino 2006. Le Alpi rappresentavano la prima sfida di Bard, faraonico lavoro di restauro fondato sull’idea di un «Pianeta montagna» da costruire e far vivere all’interno degli angusti locali del forte postnapoleonico, là dove un tempo i soldati invecchiavano nell’attesa di un nemico che non arrivava mai.
Il Museo delle Alpi è cresciuto intorno alla volontà, o meglio alla necessità, di frantumare ogni stereotipo per abbozzare, elaborare e infine divulgare una nuova idea del territorio alpino, sulla scia di quegli studi geografici e antropologici che, sul finire del Novecento, hanno restituito dignità e verità al passato della montagna consentendo di immaginare un futuro emancipato dalla città, ma in stretta interrelazione con essa. Per far questo non era possibile separare in alcun modo le esigenze scientifiche dal progetto allestitivo, perché si sarebbe ricaduti nella spirale dei modelli preconfezionati e perdenti. Era necessario che la trama del museo nascesse da un lungo lavoro di sintesi, scomposizione e ricomposizione, e poi ancora sintesi, fino a creare un impasto in cui la linea di demarcazione tra contenuti e apparati scenici non si distinguesse più.
Per due intensi anni si è lavorato gomito a gomito tra esperti di montagna e architetti, avvalendosi per la parte scientifica dei ricercatori più aperti e aggiornati, allo scopo di trasferire i concetti accademici sul piano allestitivo adeguato all’idea di Alpi che, faticosamente ma incessantemente, andava via via delineandosi sul doppio tavolo di progettazione. L’impianto museografico è cresciuto in ventiquattro mesi, provando e riprovando, impostando e smantellando, smontando e ricominciando ancora, per coniugare e armonizzare fino all’ultimo dettaglio le informazioni, le storie e le emozioni.
Innanzi tutto si dovevano grattar via le risposte facili e scontate, così come nel restauro del forte andavano eliminati gli intonaci fasulli per portare alla luce l’architettura originaria, e mettere a fuoco le Alpi che stanno «dietro la cartolina», cioè oltre quel fondale immutabile e falso che per duecento anni ha distorto l’immagine della montagna, popolandola di eroi e personaggi improbabili, e allontanando il grande pubblico dal mondo alpino.
È stato un po’ come passare dai contenuti di un saggio a quelli di un film, anche se al posto della pellicola c’erano trenta sale da riempire, e le sale facevano parte di una costruzione straordinariamente seducente ma di arduo accesso, e l’arco alpino misurava oltre mille chilometri di estensione, e il film alla fine era il concentrato di almeno 10.000 anni di storia raccontata dagli specialisti a chi specialista non è.
Il risultato finale è un delicato dosaggio di apparati divulgativi e invenzioni spettacolari, con l’uso delle moderne tecniche di ricostruzione virtuale affiancate a frequenti citazioni dei più noti musei alpini tradizionali e a ogni altro mezzo – tecnologico, artistico, fisico – capace di raccontare un concetto e generare un’emozione. Anche la musica di Luigi Venegoni è entrata a pieno titolo nel percorso museale, creando in ogni sala un’atmosfera sonora diversa.
Nella progettazione si è proceduto in continuo dialogo tra presente e passato, nella certezza che si tratti dell’unico modo per capire e costruire un futuro. Inoltre si è dialogato costantemente tra natura e cultura, approccio umanistico e approccio scientifico, consapevoli che – almeno sotto i tremila metri di quota – non esista più un paesaggio «naturale» alpino, ma ogni paesaggio sia frutto delle secolari interazioni tra i montanari e il loro ambiente di vita. Infine il Museo delle Alpi rispetta un continuo scambio tra locale e globale, tra piccolo e grande, dove ogni esperienza specifica serve per ragionare sulla complessità alpina e le Alpi, a loro volta, diventano un caso esemplare delle catene montuose del pianeta.
Ma soprattutto si è pensato a un museo delle persone, dei protagonisti, degli autori, dei testimoni, nella convinzione che la montagna esista se esistono le donne e gli uomini che la abitano o la sanno raccontare. Le sale si avvalgono dell’opera di artisti di diversa estrazione, e ogni tema è “svelato” e divulgato da un osservatore (il naturalista, il geografo, l’antropologo, lo storico) che, dietro lo schermo di un monitor, comunica la propria esperienza-conoscenza al visitatore.