Pubblicazione

Il giornalismo di montagna

Atti del convegno, Museo Montagna, Torino 11-12 aprile 2002

Credo che il giornalismo di montagna, inteso come specifica professionale, come scuola di mestiere, sia un fenomeno relativamente recente e non vada confuso con la straordinaria partecipazione di alcuni grandi cronisti del passato all’epopea dell’alpinismo. Paradossalmente, quando l’alpinismo trovava spazio in prima pagina, non esisteva un vero giornalismo di montagna, ma dei cronisti di sport e costume che, saltuariamente, si occupavano di imprese e personaggi della montagna, unendo passione, competenza e classe.
Qualche nome esemplare? Vittorio Varale, Guido Tonella, Dino Buzzati. Varale e Tonella hanno scritto di alpinismo per decenni, prima e dopo la seconda guerra mondiale, soffiando sul mito della montagna e ricavandone articoli di interesse popolare. Lo stesso Buzzati ha fatto molto per la divulgazione dell’alpinismo, anche se in un certo senso è stato “trattenuto” dalla propria passione, troppo coinvolto per lavorare obiettivamente al servizio dell’informazione. Come può testimoniare Emanuele Cassarà, forse l’ultimo cronista di alpinismo, la passione ci vuole, insieme alla competenza, ma bisogna comunque restare spettatori, mantenere il giusto distacco, non sovrapporsi mai ai protagonisti. E invece Buzzati si sovrappose, confessando il suo sogno infranto di entrare a far parte del Club alpino accademico, oppure – in quella pagina struggente dedicata a Ettore Zapparoli – fondendo le proprie nostalgie (e le proprie angosce) con quelle dell’alpinista mantovano scomparso sulla parete est del Monte Rosa.
Se poi si allarga lo sguardo sulla montagna, allora bisogna ricordare quei giornalisti che – per sensibilità personale e per scelta culturale (condivisa naturalmente dai loro direttori) – hanno raccontato la vita dei montanari, dei contadini, degli “ultimi”, soprattutto negli anni del boom industriale. Se dovessi fare un nome fra tutti direi Aldo Gorfer, che con il fotografo Flavio Faganello ci ha lasciato un contributo di inchieste e testimonianze senza paragoni nella pubblicistica alpina. Per circa due decenni Gorfer e Faganello hanno fatto luce sulla mutevole realtà delle valli trentine e sudtirolesi, descrivendo il lento e inesorabile disgregarsi della cultura tradizionale soppiantata dai modelli urbani. E anche quelli sono stati “anni irripetibili”.
Ma un po’ per esperienza personale, un po’ per provocazione, vorrei lasciarmi dietro il periodo aureo dell’alpinismo e del giornalismo, i “giorni grandi” di Walter Bonatti, il tempo degli eroi, per occuparmi invece di un alpinismo e di un giornalismo “ripetibile”, figlio di un tirocinio professionale, di grandi e piccole notizie, di prosaiche esigenze di mercato. Perché proprio in coincidenza con il tramonto dei grandi personaggi delle cime, e con il passaggio da una visione mitica a una visione laica, emergono i primi giornalisti di montagna a tempo pieno. Probabilmente era necessario scendere dalle vette e uscire dalla leggenda per creare le basi di una professione.
La prima esperienza è milanese e si chiama Rassegna Alpina. Nasce e si consuma a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, in mezzo a nostalgie e polemiche, sospesa tra il vecchio mito degli alpini e un’utopica montagna vissuta come protesi dell’ideologia sessantottina, che doveva fare piazza pulita di tutte le lotte e i lottatori dell’Alpe. Rassegna Alpina resta una meteora, un intermezzo sperimentale, la fugace provocazione di quattro o cinque giovani alpinisti che – con l’eccezione di Claudio Cima, la migliore penna del gruppo – hanno già in mente di dedicarsi ad altri più remunerativi mestieri.
A Torino, intanto, l’antica fucina della Rivista Mensile del Club Alpino ha formato una piccola scuola di dilettanti-artigiani, persone in grado di redigere accurate monografie, di commentare gli avvenimenti sociali, di raccontare le gite e le ascensioni, e recensire le pubblicazioni. Il redattore è Giovanni Bertoglio, uomo colto e autore prolifico, che ospita sulla Rivista Mensile interventi assai tradizionali accanto ad articoli profetici, come il famoso “Assassinio dell’impossibile” di Reinhold Messner, del 1968.
Ma vivaci fermenti culturali scuotono il mondo dell’alpinismo torinese, sempre ricettivo nei confronti dell’innovazione, e maturano i tempi per una rivista “laica” che prenda educatamente le distanze dagli organi istituzionali del CAI e si avvii verso il professionismo. La Rivista della Montagna nasce nel 1970 grazie all’iniziativa di un pugno di amici appassionati, squattrinati e con idee molto chiare sull’informazione:
“Un gruppo di giovani alpinisti piemontesi – si legge sul primo numero – ha recentemente costituito a Torino un Centro di Documentazione Alpina, per la raccolta e lo studio del materiale utile alla conoscenza di ogni aspetto della montagna. Tra le altre iniziative essi hanno pensato a una rivista, su cui pubblicare i risultati più interessanti delle proprie ricerche, dedicata in modo particolare agli alpinisti che intendono la pratica della montagna come una forma di arricchimento culturale, oltre che un fatto sportivo o una piacevole forma di evasione contemplativa”. Accanto all’editoriale non appare un “duro” arrampicatore armato di martello e chiodi, ma tre portatrici di fieno sullo sfondo delle Levanne. Il direttore è Piero Dematteis, che mette a disposizione i piccoli spazi della sua libreria per la redazione dei primi numeri; il grafico è Luciano Muzzarini, impeccabile specialista del bianco e nero; la Rivista annovera firme prestigiose come Paolo Gobetti, Marziano Di Maio, Gian Piero Motti. La redazione è soprattutto un vivacissimo laboratorio di idee, che, in un tempo in cui le Alpi non sono ancora “terra” completamente divulgata, partoriscono selezionati articoli sulla cultura e l’economia alpina ed esemplari monografie escursionistiche, alpinistiche e scialpinistiche. Un giusto insieme di spirito critico, approfondimento scientifico e intento divulgativo, che si evolve sotto la direzione di Alberto Rosso e poi di Giorgio Daidola, nel tempo della Rivista a colori.
Alla fine del decennio il quadro è già completamente cambiato. È l’alba dell’alpinismo sportivo, e le riviste devono tenere il passo degli alpinisti. In Italia il 1980 segna l’avvento di Airone, il mensile patinato di divulgazione naturalistica che farà scuola a tutto il settore. In Francia i mensili Alpinisme et Randonnée e Montagnes Magazine rivoluzionano la grafica e il modo di raccontare la montagna. Lo stesso alpinismo stenta a riconoscersi: irrompono gli exploit e le immagini dell’arrampicata sportiva, i futuristici concatenamenti di cime e pareti alpine, le galoppate sugli ottomila himalaiani. E così, mentre già si mormora del sacrilegio dei sacrilegi – la gara di arrampicata -, la Rivista della Montagna si trova improvvisamente in difficoltà, incapace – date le sue dimensioni artigianali – di compiere il salto verso la grande distribuzione.
Il mensile Alp nasce sull’onda di rinnovamento, unendo alcune professionalità cresciute nel Centro di Documentazione Alpina (la mia e quella di Furio Chiaretta, in particolare) a una firma nota del giornalismo ambientalista (Walter Giuliano) e a un editore (Giorgio Vivalda) dotato di mezzi e ambizioni. Il resto lo fa un grafico di talento come Pier Vincenzo Livio, che trasforma la vecchia concezione del giornale di montagna in un prodotto completamente aggiornato, elaborato e competitivo non con le altre riviste di settore, ma con i sempre più numerosi periodici che assiepano le edicole.
Credo che l’innovazione di Alp sia stata semplicemente (ma che fatica, e che scandalo!) quella di raccontare i fatti della montagna con gli strumenti giornalistici ed estetici delle altre riviste (Airone insegnava), senza rifluire nelle logiche sempre più asfittiche della comunità alpinistica. Sul primo editoriale scrivevo:
“La montagna di Alp non è il solito mondo al di fuori dal mondo, dove i cittadini buoni rincorrono antichi sentimenti e i poveri montanari, gli ultimi, custodiscono le loro secolari tradizioni”.
Siamo riusciti in due imprese inedite e talvolta impopolari: raccontare l’alpinismo con le parole e le immagini giuste, da giornale sportivo, e affrontare senza condizionamenti i grandi problemi della montagna: l’ambiente, lo sfruttamento turistico, il degrado, le politiche dei parchi. Siamo stati aiutati dalla nascita del creativo movimento degli alpinisti Mountain Wilderness e dalle provocazioni di Reinhold Messner, fresco salitore dei quattordici ottomila. Messner, più o meno consapevolmente, ha rivestito due ruoli antitetici: è stato l’ultimo mito dell’alpinismo e contemporaneamente l’anti-mito, il secolarizzatore, quello che sventolava fazzoletti sulle cime al posto delle bandiere e si lasciava riprendere in televisione con Raffaella Carrà.
Sicuramente la concorrenza tra Alp e la Rivista, diretta per lungo tempo da Roberto Mantovani, è servita a creare una nuova figura di giornalista di montagna, molto più giornalista che alpinista, o niente affatto alpinista. Finalmente il pregiudizio, il pettegolezzo e i vincoli di appartenenza alla comunità alpinistica sono stati sostituiti, o almeno tenuti a freno, dalla competenza giornalistica e dalla professionalità, anche se si è rivelata una vera impresa, direi un decimo grado di allora, essere accettati come testimoni indipendenti dalle regole del “branco”. Ne hanno beneficiato anche le testate istituzionali come La Rivista del CAI e Lo Scarpone.
Poi gli anni Novanta, una specie di centrifuga che ha omologato i prodotti e le idee. L’aspetto più rilevante, accanto al successo destabilizzatore di Internet, alla nascita delle riviste di sola arrampicata e a un insufficiente ricambio delle firme dovuto alla contrazione del mercato, è il progressivo avvicinamento dei periodici verso la formula monografica, che li rende più simili a fascicoli da collezione che a fogli di informazione. Sempre più libri, sempre meno giornali. Il fenomeno è giustificato almeno in parte da un alpinismo in crisi e da un mercato sovraffollato e ripetitivo, ma certo non giova al giornalismo di montagna. Si sente il bisogno di una scossa salutare che aiuti tutti noi a riprendere quota, sull’esempio di quei cronisti che raccontavano fatti irripetibili anche perché, con il loro mestiere, sapevano renderli tali.
Credo che dall’omologazione si esca solo con una buona informazione: non c’è un’altra strada.