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Bivacco Comino. Passi nel silenzio


Non sempre i rifugi e i bivacchi assomigliano ai personaggi da cui prendono il nome. Per esempio il rifugio Bonatti è affacciato su un panorama meraviglioso, ma lo spirito avventuriero di Walter Bonatti sarebbe meglio rappresentato da un luogo più solitario e spartano. Il rifugio Gervasutti si trova esattamente in uno dei posti più amati dallo scalatore friulano, ai piedi della parere est delle Grandes Jorasses, anche se oggi il Gervasutti è una specie di siluro spaziale e c’è chi pensa che il vecchio Giusto non gradirebbe. Non lo sapremo mai, comunque Gervasutti non era un conservatore. Di sicuro il bivacco Comino in Val Ferret assomiglia a Gianni Comino anche geograficamente. Di nome e di fatto ricorda il fortissimo alpinista monregalese morto il 28 febbraio 1980 sui seracchi della Brenva, durante una scalata solitaria. Fuori di retorica il bivacco gli si confà: gli vestono bene il luogo, il percorso, l’avamposto isolato, l’orizzonte, perfino i non molti escursionisti che s’incontrano sul sentiero. Gli assomiglia quasi tutto, e per chi l’ha conosciuto e rimpianto non sarebbe poi così strano incontrare Gianni stesso dietro un sasso di granito, gentile e silenzioso com’era lui, e farsi accompagnare per un pezzo di strada in silenzio, giusto il nome di qualche cima, l’accenno a una scalata speciale, un abbozzo del Monte Bianco che amava.
Se siete stanchi delle solite mete provate l’escursione al bivacco Comino. Non ve ne pentirete. Al bivacco si sale in circa due ore di sentiero abbandonando la Val Ferret dei pullman e delle comitive, proprio davanti ai sentieri più battuti – i sentieri del rifugio Bonatti, del Bertone, dell’alta via –, incamminandosi sul lato scabroso della valle. Il geniale sentiero del Comino scala il bastione del Monte Greuvetta, dove i fiori crescono in mezzo alle rocce e le radure sono appese al vuoto. Salendo al bivacco non si guarda il Monte Bianco ma lo si sente in testa, alle spalle, nel cuore, dappertutto, mentre lo sguardo riposa sui pascoli di Malatrà e dell’alta Val Ferret. Non ci sono vere difficoltà alpinistiche, ma non è neanche un sentiero per tutti. Non bisogna sbagliare strada e soprattutto non bisogna spaventarsi se la traccia sembra morire contro un salto di granito dicendoti «hai sbagliato, gira i tacchi e torna indietro». Invece no, c’è sempre il modo di continuare. Qualche passo di arrampicata interrompe la salita e il paesaggio cambia di continuo pur restando fedele a se stesso, selvaggio e pittoresco allo stesso tempo. Il bivacco si vede solo da molto in basso o da molto in alto, quando ormai si è su, e per tutto il percorso lo si immagina abbarbicato e confinato in uno degli angoli più magici del massiccio, e dei meno turistici.
Un bellissimo posto, ma da scoprire, esattamente come Gianni Comino era una gran persona, ma da conoscere. Difficilmente si confidava, mai si lodava, in cambio sapeva ascoltare e sapeva tacere, e quel suo understatement naturale accentuava l’interesse e il mistero. La riservatezza un po’ sabauda attraeva perché nascondeva qualità come l’ispirazione, l’intuizione, l’ideazione, la volontà. Qualche volta Comino inquietava per via di certe pause lunghe e imbarazzanti, che sottendevano orizzonti imperscrutabili, profondità carsiche. Altre volte invece era attento e premuroso come un fratello maggiore. Nella sua baita in Val Ferret ospitava alpinisti e ragazzi sperduti, oppure fuoriclasse come lo sciatore estremo Stefano De Benedetti, che è stato il suo allievo più caro e l’ultimo che l’ha visto partire.
Il ghiaccio era il suo elemento. In tutte le forme: seracchi, goulotte, cascate, rigole, scivoli gelati. Credo gli piacesse il ghiaccio perché cambia di continuo e richiede ai corteggiatori lo stoico esercizio dell’attesa. Comino non temeva di dover aspettare il momento giusto, per lui non era tempo perso: era il suo dialogo con la montagna. Gian Piero Motti ha scritto che forse scelse il ghiaccio anche per sfuggire «al tentativo di quantificazione sportiva che invece ha intossicato il mondo della scalata su roccia; o forse perché nella severità ambientale delle grandi pareti nord, ombrose, fredde e repulsive, nel mondo austero ed epico dei couloir ghiacciati e in quello magico e fantastico delle cascate, Comino trovava ancora la vera espressione di una divinità respinta da un’umanità presuntuosa e volgare».
Dopo un lungo e severo tirocinio sulle Alpi Marittime e Liguri, con salite solitarie, invernali, pareti difficili, vie nuove e lunghe traversate di cresta, Comino si legò con successo a Gian Carlo Grassi, il folletto dell’alta montagna, anche se Grassi era il contrario di lui. O forse proprio per quello. Gianni e Gian Carlo inseguirono gli stessi sogni su strade parallele, associando lucidità e fantasia, determinazione ed entusiasmo, spiritualità e passione. Lo fecero sulle goulotte scozzesi e all’Ypercouloir delle Grandes Jorasses nel 1978, al Dôme du Mulinet nel 1979 e sugli iceberg sospesi della Poire e del Col Maudit nel 1979: i due esploratori dell’effimero solcarono i mari estremi, cercando l’attimo in cui il ghiaccio si manifesta. Spesso Comino andò solo: nel 1978 al Supercouloir del Mont Blanc du Tacul, il mitico nastro ghiacciato di Boivin e Gabarrou, l’inverno seguente sulla via di Boivin e Vallençant alla parete nord dell’Aiguille Verte e, nel 1979, sulla Nord del Grand Pilier d’Angle lungo la spettacolare combinazione Fréhel-Dufour e Boivin-Vallençant. A rileggere la cronaca si scopre che infranse tutte le barriere tecniche e psicologiche dell’arrampicata su ghiaccio in due sole memorabili stagioni: 1978 e 1979.
L’ho frequentato per alcuni anni e mi ha sempre messo soggezione. Si capiva che aveva una testa speciale, ma non era un compagnone. A me piaceva per quello, anche se celava garbatamente i suoi misteri e non regalava risposte comode. Nella vita feriale Gianni aveva la faccia dell’uomo qualunque e l’anima del compositore. Le portava senza contraddizione riparandosi dietro la riservatezza. Frequentava la facoltà di Medicina a Torino, e non lo sapeva nessuno; veniva da una famiglia colta e importante di Mondovì, e non lo dava a vedere; coltivava una personale ricerca religiosa, e non ne parlava quasi mai; era impegnato nell’attività sociale, e l’abbiamo saputo solo dopo la sua morte. Comino era una di quelle persone che sperimentano su di sé prima di parlare, commentare, criticare. Lui non criticava mai, salvo se stesso. Era inflessibile con se stesso, cercava di migliorarsi ogni giorno. Nel mondo dei social sarebbe un marziano.
Salendo al bivacco Comino, che sembra lì e non arriva mai, si scopre che il Monte Bianco è immenso. Una barriera di roccia senza fine. Il terrazzino dove è posato e ancorato il bivacco non è altro che la cima dello zoccolo su cui poggiano pilastri titanici. Lì comincia l’alta montagna, e in particolare i ciclopici salti del Monte Greuvetta, meno famoso delle vicine Grandes Jorasses ma ugualmente difficile e severo. Il bivacco è la soglia del domestico, la frontiera del pittoresco: di lì in avanti si snodano itinerari chilometrici e l’alpinista è solo più un punto perso in mezzo alla montagna. Non c’è riposo sui pianori di ghiaccio, perché il versante valdostano del Monte Bianco è un’interrotta sfilata di creste, pareti e colonne di protogino, tra le quali si annidano le cascate gelate. Dal bivacco Comino e dagli altri recessi del massiccio si sentono precipitare i seracchi. Di giorno il sole addolcisce la severità dell’ambiente, di notte si risvegliano le forze della natura. Il bivacco è al sicuro su un pulpito di granito, ma tutt’intorno sale un respiro primordiale.
Di giorno sembra un’astronave atterrata in un posto non comune. Fuori dal bivacco comanda il vuoto, dentro l’atmosfera è protetta, quasi religiosa. Chi entra nel piccolo locale di metallo rivestito nota innanzi tutto il silenzio, poi gli spiragli di luce che filtrano a fatica, infine lo scritto del papà di Gianni Comino, quasi una poesia. Si legge che non c’è cosa più atroce che perdere un figlio, eppure sarebbe ancora più spaventoso pensare che quel figlio non abbia potuto percorrere la propria strada, inseguire le sue luci. Vivere come piaceva a lui.
Gianni amava la vita nel senso più alto e conosceva perfettamente i rischi cui andava incontro. Era un computer in questo. Si potrebbe pensare che volesse misurarsi fino in fondo prima dei trent’anni, mettendo a frutto il proprio genio, e poi sarebbe stato capace di rinunciare all’alpinismo estremo per dedicarsi a curare gli altri. Studiava da medico, dopo tutto. Certo conosceva bene i limiti della sua e nostra passione, e si difendeva progettando e sognando. Il 28 febbraio 1980 è partito tutto solo verso una visione chimerica e folle: la cascata di seracchi sospesa sulla Brenva, tra gli speroni della Poire e della Major. Un piccolo uomo, una debole luce, uno spaventoso imbuto di ghiaccio battuto dal vento e dalle scariche. L’eccezionale preparazione tecnica e la forza interiore gli hanno permesso di destreggiarsi nel dedalo di seracchi incollati alla parete, gelida rappresentazione del disordine, finché un blocco l’ha trascinato via.
In questo senso il bivacco non gli assomiglia, perché l’orizzonte è dolcissimo e non ci si deve difendere dai seracchi. O forse gli assomiglia definitivamente, se come penso lui cercava la pace, dopo tutto, e considerava quel rischiare, quel correre, quell’azzardare la vita come il modo giusto per diventare uomo, non per trovarne il senso. Gianni Comino era una guida così rispettosa che forse con gli anni gli sarebbe bastato far felici i compagni di cordata, oppure avrebbe voltato le spalle alla montagna estrema archiviandola come una malattia di gioventù. A ventisei anni puoi essere maturo fin che vuoi, ma il tuo tempo deve ancora venire.