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Gorret e il turismo alpino: una visione profetica


Ho provato a fare un gioco. Nel dicembre scorso sono stato invitato a Saint-Nicolas dalla Regione Valle d’Aosta, per partecipare a un colloquio sul tema “Vivre la culture et la tradition pour, avec et au-delà du tourisme”. Bene, mi sono detto, proviamo a confrontare le riflessioni di dicembre, cioè di oggi, con le idee di Amé Gorret circa il turismo e, più in generale, i rapporti tra città e montagna. Tenendo presente che è passato oltre un secolo.
La mia relazione di Saint-Nicolas iniziava con una citazione del documento sottoscritto a Prazzo, in Val Maira (una delle valli che appartennero al “Mondo dei vinti” di Nuto Revelli), il 12 febbraio 2006, all’apertura dei giochi olimpici invernali di Torino. Firmato da ventidue rappresentanti delle vallate, dunque ventidue “montanari”, si intitola “Patto delle Alpi piemontesi” e prende forza da questa premessa:
«In Piemonte ci troviamo di fronte a una situazione paradossale: una pianura quasi completamente antropizzata è circondata da un territorio che si sta sempre più desertificando e la linea di demarcazione tra queste due realtà corre poche centinaia di metri a monte della fascia pedemontana, zona tra le più densamente abitate, quasi una città diffusa che traccia il confine tra la Grande Pianura e le Alte Terre; in questo contesto vanno comprese alcune “porzioni di valli” che, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, hanno subito un “percorso di sviluppo” legato a un modello di turismo non sostenibile e nelle quali si sono riprodotte dinamiche tipiche dello sviluppo urbano.
Tale modello, pur avendo “arginato” in queste aree il fenomeno dello spopolamento favorendo l’inserimento di persone attratte dalle nuove opportunità economiche, ha lasciato impatti pesanti sul territorio compromettendone per sempre le qualità ambientali, naturalistiche e paesaggistiche.
Per le popolazioni delle vallate alpine non è possibile accettare un approccio contrattuale alla vita, perché ci sono cose che sono sentite come patrimonio collettivo e che costituiscono l’essenza stessa e il motivo d’essere della comunità… Se l’approccio liberal ha funzionato in pianura, bene o male che sia, in montagna ha dimostrato tutti i suoi limiti…».
A questo punto citavo Gorret, che scriveva con lungimiranza:
«Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato». Gorret è stato testimone di una civiltà alpina ancora ben radicata sul territorio, in buona parte povera ed emarginata, e giustamente individuava le grandi differenze dalla civiltà urbana; ma aveva capito perfettamente che, non foss’altro che per ragioni economiche, non si può proporre al turista una “copia” (bella o brutta che sia) del suo stesso mondo, cioè della città.
Ma anche la visione opposta, cioè quella di un mondo “vergine” e “incontaminato”, porta in sé un’insanabile contraddizione, come avrebbero osservato molti anni dopo gli studiosi dei flussi turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta. Perché il turismo “mangia” se stesso, nel senso che consuma e distrugge ciò che cerca: «La vacanza turistica è un’attività che si alimenta del mito della verginità da svelare e dell’incontaminato da contaminare. Più il turismo sale, più il valore edenico di un luogo scende» scrive l’antropologo Duccio Canestrini.
Nessun luogo può rappresentare meglio delle Alpi questo paradosso, perché nessun luogo si è nutrito più a lungo e più in profondità di orizzonti puri, ideali assoluti, altezze liberatorie, natura rigeneratrice, tutti valori annientati dal turismo di massa fondato sul modello consumistico.
Il turismo non è un fenomeno diverso dalle altre attività commerciali, e come tale si basa sul consumo: di beni immateriali come la bellezza (dell’ambiente), la spettacolarità (delle montagne), il silenzio, la “genuinità”, la “tradizione”; di attrattive folcloriche che, adeguatamente pilotate, rispondano alle aspettative dei cittadini romantici e orfani del passato. In tal modo ogni località, ogni valle, ogni comprensorio alpino si è visto costretto a ridefinire se stesso e a “reinventarsi” a uso e consumo del turismo, con processi di ridefinizione e di rappresentazione che spesso non coincidono con un’anima identitaria, ma sono il frutto dell’adattamento a modelli governati dalle regole del mercato.
Ma allora – mi chiedevo a Saint-Nicolas – se non si può proporre la “città in montagna” e neppure la falsificazione della montagna romantica, del bel tempo che fu, della wilderness lontana dal mondo reale, su quali contenuti può basarsi un turismo responsabile e capace di futuro?
«Non vedo strade diverse –mi rispondevo – da quella del dialogo tra le due culture, perché la città stessa si convinca dei valori che ha perduto cercando, in montagna, di individuare nuove soluzioni, imparare altre visioni, differenti rapporti con il territorio, diversi e più lungimiranti modelli di sviluppo. La montagna di domani sarà il risultato di un lungo e delicato processo di relazione e scambio con il modello urbano, e potrà candidarsi come risposta convincente e durevole proprio se saprà proporsi in alternativa alle patologie di un consumismo illimitato e senza futuro».
Ecco le mie considerazioni dell’anno scorso, ed ecco il pensiero di Gorret che ho raccolto rivisitandone la biografia. Siamo ormai nella seconda parte della sua vita, in uno degli ultimi rimbalzi di parrocchia in parrocchia che ne hanno fatto un uomo sempre più amareggiato e solo. Tra il 1876 e il 1880 c’è un vuoto nella sua attività giornalistica. Si è interrotta la corrispondenza con il “Touriste” dell’amico Budden e, morto il re, è improvvisamente maturato l’impegno per il “Victor-Emmanuel sur les Alpes”. Si racconta che per onorare la promessa del libro Gorret si sia fatto rinchiudere con molto vino nella sala del Club Alpino di Aosta: Così me ne andrò solo quando avrò finito! Il volumetto esce per tempo nella primavera del 1878 e la prima pagina porta in calce: Amé Gorret, Gignod, 19 marzo.
Appena due anni prima, nel 1876, la stessa libreria Casanova di Torino aveva dato alle stampe la madre di tutte le guide – “Guide illustré de la Vallée d’Aoste” – firmata a due mani con il barone Claude-Nicolas Bich:
«Era penoso per un italiano che volesse conoscere i valichi e le cime della sua valle, il dover ricorrere ogni volta a una guida straniera e il veder sfigurare il proprio paese come un’appendice della Svizzera o un angolo sperduto d’Italia. Dunque aiutato e incoraggiato da qualche amico, che è anche amico della Vallée, mi sono deciso a colmare questo vuoto scrivendo una guida che ha lo scopo di far conoscere la nostra valle ai viaggiatori, che aumentano ogni anno, e di fornire loro tutte quelle indicazioni che trovano senza difficoltà negli altri paesi, in Svizzera soprattutto».
Vari studiosi si occuparono dei capitoli introduttivi, ma la ricerca sul campo fu tutta di Gorret:
«Ho dedicato dieci anni della mia vita ad attraversare in lungo e in largo la mia valle, con una costanza e un accanimento che mi hanno fruttato il titolo di “abitante della strada”. Sono stato il solo valdostano a fare questo. Quando infine la Guida è uscita, i primi commenti dei due giornali locali sono stati piuttosto di critica che di incoraggiamento; tutti avevano visto solo quello che mancava».
In mezzo a tanto scrivere ci fu tempo per il misterioso vicariato di Gignod, nella Valle del Gran San Bernardo. Forse Gignod non era abbastanza lontano dalla vita di provincia, «dalla futile assemblea di comari come sono e saranno sempre le piccole città senza segni di attività industriale dove, isolati dal mondo, si va cercando nelle discussioni politiche le leve di Archimede per sollevare la Terra, riesumando a profitto del proprio sterile orgoglio il ricordo delle grandi azioni dei padri».
Nel suo fervore divulgativo Gorret preferì sempre le alte valli alla romana Augusta, sede del potere e delle vanità:
«Ambizione, ambizione, quanto sei ingannatrice! Quanti pensieri, quanti fastidi, quanti sogni, quante illusioni, quante pene per soddisfarti, e adesso? Ambizione, ambizione, tu mi rendi sterile!»
Non era un illuminista. Se il divino anelito della trasgressione lo spingeva verso il cambiamento, il suo istinto difensivo restava conservatore. Pensava da montanaro.
Aveva capito in tempo che sviluppo e progresso non sono la stessa cosa. Certo gioì quando il 4 luglio 1886 il primo treno entrò trionfalmente nella stazione di Aosta e monsignor Duc benedisse la locomotiva a vapore, ma vent’anni dopo scrisse:
«I turisti partono con il treno più diretto e vanno al gran galoppo fino ai piedi delle montagne; per strada non vedono niente, perché non possono perdere tempo».
E quando tutti invocarono una moderna strada per Cogne, confessò:
«Non mi rammaricherei se le difficoltà finanziarie impedissero la realizzazione del progetto. Questo vale per i turisti e non per gli imprenditori, naturalmente. Ma la montagna bisogna meritarsela».
L’idea di turismo in cui Gorret riponeva tutte le speranze per il futuro della montagna valdostana ricordò sempre l’approccio morbido, misurato e colto dei primi viaggiatori, che non contavano le ore e amavano andare a piedi. Turisti e viaggiatori: è stata la sua intuizione più profetica:
«Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato. Si può viaggiare per studio, per svago o per lusso. Chi viaggia per lusso dovrebbe dirigersi verso i grandi centri di acque mediche e termali. Ma chi viaggia per studio o per svago può trarre piacere anche dalle privazioni, e si adatta facilmente per raggiungere il suo scopo».
Il viaggiatore, secondo il viaggiatore Amé, resta magnetizzato da un paese solo se riesce a respirarne il soffio delle origini:
«Io credo ancora all’anima della terra e alla sua azione su di noi; può trattarsi dell’anima spirituale, o di un’altra entità indefinibile, ma è quel sentimento che infine sa rendere tutta la poesia del viaggiare, questo atto altrimenti ridicolo, questa gara tra due piedi per passar sempre uno davanti all’altro».
C’è già l’incolmabile contrapposizione tra la vocazione elitaria del viaggio interiore e l’infinità riproducibilità del gesto turistico. Si è già arrivati al bivio:
«Il vero viaggiatore si distigue a occhio, dalla sobrietà delle sue parole, dalle ridotte dimensioni dello zaino, dalla regolarità del passo e dal calcolo riflessivo e coraggioso dei rischi di un’escursione o di una scalata. Il turista novellino, invece, si fa notare per il numero e il volume dei suoi bauli, per il clamore dei suoi programmi e dei preparativi per la partenza, per le osservazioni scientifiche fuori misura, per il panico o la vanitosa imprudenza davanti al pericolo».
Passano altri anni e il vecchio Gorret viene infine confinato nella cappellania di Saint-Jacques. Bene o male supera la boa del secolo, ma nel 1902 comincia a non vederci più. Gli diagnosticano una cateratta senile e viene operato l’anno dopo, all’ospedale oftalmico di Torino.
Sopporta la convalescenza in una casa di cura. Qualche amico alpinista gli è ancora vicino e Guido Rey lo va a trovare. Ecco il dialogo che ho immaginato tra loro, utilizzando pezzi di frasi effettivamente documentate:
«Mio caro Amato, come va?»
«Amato…, amato da chi mio buon Guido?»
Con tenerezza e imbarazzo parlano del Cervino, i due reduci, e il poeta gli rivela i suoi timori:
«Ciò che più di tutto mi preoccupa per il nostro caro Breuil è il sostituirsi delle antiche colture con le nuove imprese di cittadini che non conoscono la grande bellezza naturale dei monti, tesoro delicatissimo che non ritorna più quando sia distrutto».
«A sentire certi racconti il Cervino è diventato una passeggiata per dandy e signorine» ironizza Gorret.
«Eppure ci criticano di voler le montagne solo per noi alpinisti, senza agi e senza mondanità».
Gorret: «La montagna bisogna sapersela guadagnare, e non serve portarsi dietro la città».
Rey: «Oggi i viaggiatori vogliono conoscere ogni cosa, dove si mangia, dove si dorme, quando si alza il sole. Tra un po’ faranno a meno anche delle guide e i nostri valenti montanari verranno rimpiazzati dai baedeker…»
Gorret: «Si possono descrivere le valli, i paesi, gli abitanti, ma per la grande montagna i libri non bastano più. Per il Cervino ci vogliono le guide vere!»
Rey: «Sai, io non credo neppure alla possibilità di descrivere un itinerario con vera fedeltà. Si potrà forse rendere conto delle emozioni, o delle visioni meravigliose, ma le rupi fredde che avremo stretto fra le nostre braccia rimarranno per sempre un mistero».
Gorret: «Qui sta il punto: bisogna ben lasciare della libertà a chi verrà dopo di noi. Altrimenti ci accuseranno anche di aver annullato l’imprevisto».
Rey: «Ma i giovani rifuggono sempre più i virili cimenti con l’Alpe, caro il mio abate!»
Gorret: «Suvvia, non essere così pessimista. Vedrai che i turisti ritroveranno la via delle montagne e quei damerini imbacuccati, così amici dei piaceri e così nemici dei sacrifici, quelle frittatine dalla carne flaccida, impareranno a sopportare la sete e la fatica, il sole e il temporale, e alla fine diventeranno degli uomini».
Rey: «Forse è ingiusto che io rimpianga l’antica semplicità dei monti e maledica la nuova vita che sale dal piano. Forse non è altro che il sentimentale lamento di un retrogado egoista».
Gorret: «E allora resta pure un retrogrado, caro Guido, ma fai conoscere le nostre belle montagne… E non dimenticarti di questo fossile di alpinista che non ci vede neanche più».
Dopo settimane riapre gli occhi su una Torino animata e giovane come non si era vista mai. Il gelido understatement della vecchia capitale sabauda è sbocciato nella primavera della Belle Epoque e la città favorevole ai piaceri, dirà Guido Gozzano, ha scoperto di sapersi divertire. La piccola Parigi ora si muove frettolosa e operosa dietro il faro della modernità e la gente assiepa i tranvai, compra, traffica, lavora, sogna, e aspetta la sera.
Ma Gorret parte di nuovo. Anche se l’operazione non gli ha ridato gli occhi di prima, risale stoicamente all’eremo di Saint-Jacques dove resisterà per un altro lunghissimo anno, «come impagliato, come una mummia alpina».
Nel 1905 non ce la fa più e lo trasferiscono in bassa valle, al Priorato di Saint-Pierre. Il vecchio ospizio mauriziano è circondato da un grande prato pianeggiante e ospita i preti anziani e soli come Gorret, il canonico Menabrea, parroco ribelle di Courmayeur, e l’abate Cerlogne, trovatore dialettale. La meridiana del 1699 non lascia speranze: «Obscuratus est sol, tenebrae factae sunt». Gorret conosce bene il panorama, con la sentinella prismatica dell’Emilius a sinistra, il Rutor sulla destra e la Grivola che spunta appena nel mezzo, con le due ali di ghiaccio. Sono quei profili distanti che da giovane lo lasciavano irrequieto e smanioso di misurarsi e di salire. Ora la lontananza non gli importa più, ha imparato a camminare in piano.
Il riposo gli fa bene, e ogni giorno mette insieme un pranzo e una cena da cristiani. Nelle sere di tramontana, quando il cielo della Val d’Aosta si accende di promesse, prova le nostalgie degli uomini di pianura:
«Noi, montanari, noi abbiamo perso quella freschezza, quel candore, quel profumo dell’emozione; gioiamo, sì, ma non di quell’orgasmo che prende l’animo dei poeti condannati dal dovere a fughe furtive e passeggere».
Poi scoppia l’affare dell’ascensore del Cervino. Gorret scrive un articolo indignato per la Revue Alpine di Lione: “I deliri dell’ammalato”.
«Maledizione! Patatras a tutti i miei vecchi entusiasmi!! Mi hanno informato di un progetto di cremagliera sul Monte Cervino. Orrore! La scienza si è inaridita fino al punto di distruggere, uccidendo la bellezza e la poesia? Orrore!».
Subito dopo scrive a Guido Rey:
«Ti senti come me? Ho avuto un sussulto di indignazione quando mi hanno detto della ferrovia sul Cervino. Che profanazione! Togliere alla mia cara montagna il suo prestigio, la sua estetica e la sua poesia! Ti scriverò in un giorno più sereno».
Sollecitato da Rey, lo scrittore Charles Gos lo tranquillizza: in Svizzera c’è un forte movimento di opposizione al progetto e la gente per fortuna non ne vuole sapere. Allora Gorret gli risponde il 7 di settembre 1907:
«Sono stato felice di sapere che la sottoscrizione per impedire il deturpamento del nostro caro Cervino e conservargli il fascino e la bellezza abbia già raggiunto le 40.000 adesioni. Ma vorrei aggiungere un’altra cosa.
Il Cervino appartiene all’Italia come alla Svizzera; può essere un limite, se volete, ma anche un legame tra i due paesi. In questo momento mi domando come il governo svizzero abbia potuto autorizzare qualche nemico della poesia, della filosofia e del sentimento, qualche ingegnere speculatore e calcolatore, a disporre a proprio piacimento di una proprietà divisoria senza l’assenso dell’altro proprietario. Voi capite la questione internazionale.
Lascio da parte le considerazioni più pratiche: le tempeste improvvise, il fulmine e il metallo, la rottura dei cavi, eccetera. Ma c’è dell’altro, tra il triste e il faceto. Triste: le vittime di un funesto incidente sul percorso non potrebbero aspettarsi nessuna compassione: se lo sarebbero cercato! Comico: un signore e una ricca dama architettano di spedire i loro cappelli sulla montagna senza neppure scomodarsi e poi, nei salotti d’inverno, vanno a mostrare il cappello dicendo: «Questo è stato sul Cervino!», come se ci fossero stati anche loro…»
Nessuno spedì il suo cappello sul Cervino, perché vinse il buon senso e a primavera la Becca fu dichiarata salva. Ma Gorret morì nel dubbio il 4 novembre 1907, dopo breve malattia.