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Finale di stagione

Mi trovo a Finale nel dicembre del lontano 1980: giorni chiarissimi, cieli d’alta montagna, la sera il calcare è d’oro. Per noi figli del granito, Finale è un posto esotico nonostante i mostruosi piloni dell’autostrada. Anzi, sono esotici anche i piloni. Si respira aria d’avventura, anche se gli itinerari storici sono tracciati e il “cantiere” è aperto. Finale sta per diventare la fabbrica dell’arrampicata sportiva italiana, riproduzione delle gole del Verdon e delle falesie provenzali, e gli scalatori di punta stanno per provare i tiri di corda estremi, ma nel 1980 contano ancora le vie lunghe che salgono i duecento metri di Pianarella: il Paretone. Ci sono passati gli inventori dell’arrampicata finalese, i fratelli Vaccari, Gianni Calcagno, Alessandro Grillo, tutta gente che veniva dalla montagna. A marzo i maestri Grillo, Oddone e Ivaldo hanno tracciato una linea audace sul filo della grande erosione di sinistra e l’hanno dedicata a Gianni Pajer, un ragazzo morto folgorato in un incidente di lavoro. La Pajer è l’ultima nata, piuttosto ambita e temuta.
Proviamo in sei: cinque buoni arrampicatori e un fuoriclasse: Marco Bernardi. Fino all’erosione va tutto bene: il tiro sul bordo è più impressionante che difficile. Bellissimo. Più in alto gli appigli smagriscono e il tetto si avvicina minaccioso. Sostiamo nel vuoto mentre Bernardi prova lo strapiombo. «Se tribola anche lui siamo fottuti» argomenta Franco Salino, eccellente scalatore. Marco studia con calma il passaggio e intuisce la soluzione. Alzando i piedi come un acrobata del futuro, sempre caricando gli arti inferiori, trova delle rughe che lo tengono a galla e gli permettono di lanciare la mano oltre il bordo del soffitto. L’8 dicembre 1980 Bernardi “libera” la Pajer. Nono grado inferiore, scriveranno i libri di storia dell’arrampicata.
Usciamo con l’ultimo sole sull’altopiano di Pianarella. La luce filtra nella macchia mediterranea, finché la notte ci prende con una carezza profumata. Più tardi, sull’autostrada, arriva la notizia: un pazzo ha sparato a John Lennon. John non ci canterà più: «Immagina non ci sia il Paradiso, prova, è facile. Nessun inferno sotto i piedi e sopra di noi solo il Cielo…» Muore un uomo, ma è molto di più. Abbiamo la netta sensazione che sia finita un’epoca e ne sia già cominciata un’altra. Il 1980 è uno spartiacque per la politica e la società, e anche per Finale.
Per tutti gli anni Settanta la saga dell’arrampicata finalese ha avuto un sapore pionieristico; le rocce dell’altipiano erano terra d’avventura geografica, oltre che alpinistica, e nonostante la vicinanza all’Aurelia e agli stabilimenti balneari, sembrava di esplorare un pezzo di Amazzonia nel cuore della modernità. Ovunque, camminando e scalando, s’incontravano i segni di vecchie civiltà, con tanto di coppelle, croci primitive, grotte, spelonche, altari e villaggi rupestri sommersi dalla macchia, ma per gli arrampicatori la pietra del Finale era una continua pazzesca sorpresa, e la domanda era sempre la stessa: «Come diavolo abbiamo fatto a non accorgercene prima?» Se n’erano accorti i popoli preistorici e i popoli contadini, ma non quello degli alpinisti. Sì, perché la roccia è ovunque sull’altipiano, il calcare fa parte del paesaggio e, come spiega Lorenza Russo, Finale è la pietra stessa, quella «sua pietra chiara che ha accolto i cacciatori del Paleolitico nelle grotte scavate dal carsismo, che ha offerto sassi stondati per i muretti a secco, che ancor prima i Romani avevano iniziato a coltivare e che poi è stata depredata nelle cave. Finale è le sue falesie. Se le spiagge e l’acqua sono così dipende, anche, da quel calcare morbido e impastato di sedimenti fossili e corallini che si è formato milioni di anni fa nel mare tiepido e poco profondo. Come le Dolomiti, anche il Finalese è un fondo marino emerso, ma in epoca più recente».
Era ovvio che prima o poi gli scalatori andassero a mettere il naso. La data era scritta: maggio 1968! Proprio nel mese cruciale della contestazione, un gruppetto di arrampicatori genovesi inventa la prima via sul siluro di Rocca di Corno: la Titomanlio, dal cognome del primo salitore. Roberto sale con i terribili fratelli Eugenio e Gian Luigi Vaccari, che in cima esclamano entusiasti: «Ma qui c’è da arrampicare per una vita!» Poco dopo, il solo Gian Luigi e l’amico Titomanlio aprono una via splendida: il diedro Rosso sulle erosioni di Monte Cucco.
L’altra coppia di esploratori storici è composta da Gianni Calcagno e Alessandro Grillo, due che non si tirano facilmente indietro. «Fin dai primi mesi del 1968 andammo a Finale – ricorda Grillo –. Gianni rimase sorpreso dall’aspetto vertiginoso di quelle pareti. Io ne fui letteralmente atterrito». Poi viene la confidenza: «Era un’esperienza da sogno, non desideravo altro, mi bastava una via su una qualsiasi parete per poterne subito immaginare un’altra come in un gioco senza fine». Nel 1969 si scatenano sulle rocce compattissime di Monte Cucco e, nel cuore della parete, aprono la classica delle classiche: la via del Tetto. Davanti Calcagno e Piotti, dietro Grillo in cordata separata.
Il periodo dell’esplorazione alpinistica del Finalese appartiene a uomini temerari come Gianni Calcagno, uno dei più grandi alpinisti italiani, perché salire le rocce compatte e sporgenti di Monte Cucco, Monte Sordo e Pianarella con gli scarponi e i chiodi tradizionali richiede più coraggio e abilità che scalare le vie difficili in montagna. Ancora oggi, chi ripete le grandi classiche dei primordi si chiede come abbiano fatto a pensarci, prima di tutto, e poi a superarle con quei mezzi. La roccia di Finale è fatta a gocce, buchi ed erosioni, quasi sempre verticali e spesso strapiombanti; le fessure chiodabili sono rare e sulle placche bisogna immaginare l’appiglio, crederci, osare tanto. È una scalata nuova, prima ancora di esserlo. I pionieri cercano le linee più logiche ed evidenti, dove una spaccatura o un camino naturale indicano l’itinerario, ma la progressione è psicologicamente difficile, se non estrema, perché la roccia è tenera e i chiodi tradizionali sono spesso inadatti, e nelle fessure larghe si ricorre ai cunei di legno, che sono ancora più aleatori. Poi c’è la vertigine, il vuoto che prende alla pancia, perché a Finale basta salire pochi metri per non scorgere più la base della parete. Dal 1968 al 1979 si susseguono le grandi classiche, dalla geniale Vaccari al Paretone di Pianarella (1972) alla Marcia dell’Amicizia a Monte Sordo (1973), dall’incredibile erosione a strapiombo della Grimonett (Grillo-Simonetti), ancora a Pianarella (1975), alla via dell’Ottico a Monte Cucco (1979), che anticipa l’“ottica” moderna. «Se cado mi spiaccico sulla cengia – ricorda Andrea Parodi, primo salitore con Guido Coppo –. Sentii l’adrenalina entrare nelle vene e mi lanciai in su per afferrare la terrazza d’uscita…». Parodi, autore con Grillo della guida che nel 1983 rese famosa la roccia di Finale in mezza Europa, è un altro degli esploratori che operarono a cavallo tra il periodo pionieristico e l’avvento della scalata collettiva, prima ancora che sportiva:
«La scintilla divenne un fuoco, un incendio – testimonia Grillo –. A poco a poco, centinaia, migliaia di alpinisti (allora si chiamavano così gli arrampicatori) si riversarono su quelle rocce, sino ad allora solo nostre. E come disse Gianni (Calcagno), assieme alla quantità arrivò anche la qualità: Berhault, Bernardi, Grassi, Casarotto, Bassi, Mariacher, Manolo, Gullich e tanti altri, sino ai giorni nostri… Ora l’alpinista è un climber, si arrampica free…».
Gli fa eco Gianni Calcagno:
«L’afflusso aumentò toccando punte vertiginose in primavera. Roccia splendida, itinerari superbi e ambiente affascinante… I chiodi cambiarono nome e vennero chiamati “protezioni” e i moschettoni “rinvii”, le staffe sparirono lasciano il posto a un’arrampicata più tecnica e raffinata. Capelli lunghi, vistosi nastri colorati sulla fronte, pantaloni corti e torso nudo, il sacchetto della magnesite appeso alla cintura: queste le nuove regole…».
Così, mentre gli alpinisti si sentono sempre più a disagio, si fanno strada una nuova filosofia e una diversa forma di scoperta. L’arrampicata sportiva introduce fondamentali innovazioni tecniche come gli spit, che sono tasselli da roccia inamovibili e sicuri, e l’attrezzatura delle vie dall’alto, che vuol dire calarsi sulla corda per mettere i tasselli nel posto giusto. Gli spit offrono sicurezza a prova di bomba e tagliano definitivamente il cordone ombelicale con l’alpinismo. Lo scopo non è più aprire la via seguendo i punti deboli della roccia, ma salire una placca o uno strapiombo in arrampicata “libera”, usando gli ancoraggi solo per protezione. In altre parole, è vietato tirarsi a braccia sui chiodi. La caduta non è più un tabù. Al contrario. Un buon arrampicatore sportivo è abituato a “volare” molte volte per risolvere un passaggio, nella certezza di non farsi male. È proprio la possibilità di cadere che gli consente di alzare il livello della performance.
Finale è il laboratorio della nuova era e i protagonisti sono tanti; su tutti spiccano due ragazzi colti e innovatori: Andrea Gallo e Giovanni Massari, detto Giovannino. Quest’ultimo scrive: «Si giunge all’epoca del disimpegno totale, o forse sarebbe meglio dire del massimo e totale impegno personale e creativo in una sorta di fuga da un sogno di eguaglianza irrealizzato e forse irrealizzabile».
L’avventura continua con mentalità sportiva e preparazione atletica. Non è la fine dell’esplorazione, ma l’inizio di una nuova, avvincente creazione. Talvolta senza rendersi conto, si scalano vie di difficoltà inimmaginabile, superando placche spaventose e strapiombi mozzafiato, che poi sono le vere caratteristiche della pietra di Finale. Il top dell’evoluzione si tocca nel 1985 con i Nuovi guerrieri di Massari e Gallo a Rocca di Perti, e nel 1986 con la mitica Hyaena all’Alveare di Monte Sordo, liberata infine dallo stesso Gallo dopo molti tentativi. Con quella e altre prestazioni, il torinese diventa il principale interprete e divulgatore della nuova scalata sull’altipiano, aprendo itinerari futuristici e scrivendo guide fondamentali, sempre più spesse come spessa è la mole delle vie, che da decine diventano centinaia, e da centinaia migliaia, fino a curare e pubblicare su un numero speciale di Alp, nel 1998, la prima vera storia dell’arrampicata finalese.
«Più si va su gradi alti – ricorda Gallo nei mitici Ottanta – più i buchi si chiudono per lasciare il posto a microappigli sovente di difficile interpretazione. I tempi per realizzare una via si dilatano, giorni e giorni a cercare la giusta combinazione di appigli, con la consapevolezza di tentare qualcosa di difficile, ma senza sapere esattamente di che cosa si tratti».
Avanti così, giocando su linee sempre più incredibili, con una ricerca atletica e gestuale che forse non è ancora finita e non finirà mai. Intanto l’arrampicata è diventata sport, gara, spettacolo e anche disciplina di massa, un magnifico sport all’aperto, con l’impatto ambientale e il conformismo mentale che inevitabilmente ne derivano. Nessuno dimentica la prima esibizione pubblica a metà degli anni Ottanta, quando il fuoriclasse francese Patrick Bérhault e il savonese Nico Ivaldo danzarono sullo strapiombo di Coralie davanti a 1500 persone, illuminati come le star:
«Il fascio luminoso si animava lentamente e di presa in presa – racconta Bérhault – e ci trasportava in parete. La concentrazione sui pochi metri quadrati di roccia che ci circondavano si era propagata alla folla che sentivamo vivere dietro di noi. Ogni gesto era sottolineato da degli “Oh!”, la cui ampiezza riproduceva esattamente quella del movimento. Un’altra vita fatta di centinaia di vite partecipava intensamente all’arrampicata e questa comunione così istintiva amplificava enormemente le emozioni».
Se il vecchio alpinismo era fondato sul riserbo, il nuovo arrampicatore si nutre di relazioni e la nuova Finale è un grande, immenso ritrovo di sportivi. Ancora oggi si continuano a cercare e chiodare settori dimenticati, spesso disboscando e strappando la roccia alla vegetazione. Tutti vorremmo salvare un po’ del mistero originario e tutti rivendichiamo nuove vie per divertirci. Come negarlo: viviamo di contraddizioni.