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Anni fa ho cercato di descrivere il “mal di montagna” con queste parole, che naturalmente valgono anche per me:
«La montagna è una febbre che ti prende da giovane e ti resta dentro, anche se il mondo va cambiando intorno a te, anche se i muscoli un giorno dicono basta e la famiglia reclama i suoi spazi, e forse altre ragioni di vita vengono a sovrapporsi nel corso del tempo. Nonostante tutto alpinisti si resta, e da alpinisti, fino all’ultimo, si continua a osservare le montagne con sguardo obliquo, cercando vie di salita, vagliando i colori e la grana della roccia, soppesando le condizioni del ghiaccio nell’algida luce di un’alba o nel riverbero di un tramonto. Perfino di fronte alla morte di un compagno, anche dopo una ragionevole scelta di abbandono dettata dal buon senso o dalla necessità, il cuore resta imprigionato nella passione originaria, esclusiva, come un amore dell’adolescenza mai del tutto consumato, un dolce rimpianto che fa male fino alla fine».
Io non so spiegare la passione. So solo che da bambino alzavo la testa in alto e mi incantavo. Ero stregato dai profili delle creste disegnati nel cielo, ma anche da dettagli meno spettacolari. Purché fossero alti e lontani. Misteriosi. Quando i miei scelsero Valtournenche per le vacanze comprarono un piccolo alloggio che affacciava una grande vetrata sulla Tersiva e i dirupi del Pancherot. Molto prima di scoprire il Cervino mi sono innamorato della centrale idroelettrica di Promoron, che butta l’acqua sulle turbine di Maen. A cinque anni dicono che passassi il mio tempo a fissare quel rifugio arroccato al versante; quando il buio nascondeva le rocce e accendeva le fantasie la centrale diventava un mito della notte. La prima montagna che ho amato con tutta l’anima è stata la centrale appesa.
Anni dopo ho provato a scalare la centrale seguendo il condotto. Il tubo che pompava l’acqua su Maen era affiancato da un piano inclinato e dal cavo del carrello di servizio. Il tubo era magico: poggiando l’orecchio si sentiva correre l’acqua. Era la voce dei ghiacciai. La condotta idraulica raggiungeva pendenze di trentacinque gradi e dalla piattaforma della centrale s’inabissava con uno scivolo di pietre e cemento. È stata la mia prima avventura, in scarpe da ginnastica.
Il libro che ha acceso l’immaginazione è La piccola guida alpina di James Ramsey Ullman. Era un cartonato per ragazzi che mi portavo su un albero per leggere e sognare in sana pace. Sulla copertina di taglio hollywoodiano campeggiavano un montanaro biondo con gli occhi azzurri, piccozza in pugno e corda a tracolla, e un picco roccioso su cui sventolava una bandiera rossa. Era una versione romanzata della conquista del Cervino, con personaggi inventati e riferimenti alla vera storia. Il protagonista era inventato, si chiamava Rudi Matt ed era lo stesso ragazzo aitante della copertina. Nel primo capitolo del libro Rudi tirava fuori un certo John Winter, alias Edward Whymper, dal fondo di un orrendo crepaccio. L’indomito figlio della montagna annodava la camicia al bastone ferrato per sollevare l’incauto straniero precipitato nel buco di ghiaccio, e siccome camicia e bastone non bastavano si toglieva anche i pantaloni e si sporgeva nel vuoto seminudo e stravolto, a pancia molle sulla neve. Era una scena irresistibile, carnale.
A dieci anni credevo che scalare le montagne fosse l’unico sistema per diventare grande e volevo farlo in fretta. Sognavo di salire la cresta del Grand Tournalin sopra Cheneil. Mio padre, paziente, si offrì di accompagnarmi anche se ai tempi bisognava farsela a piedi da Valtournenche. Partimmo da casa di notte, salimmo il bosco di Promindoz alle prime luci e sbucammo nella conca di Cheneil, dove il Tournalin si mostra come una sirena. C’era odore di rododendro nell’aria, io fremevo. La mulattiera ci portò sopra il balzo roccioso che sorregge la Becca Trecare, bevemmo alla sorgente e continuammo sulla morena, nel vallone, verso i nevai. Dopo l’ultimo strappo toccammo il colle e finalmente ci arrampicammo sulla montagna, avvicinandoci al “mauvais pas”, il cattivo passo. Dalla Val d’Ayas emersero batuffoli di nebbia sollevati dalle correnti; i gracchi si tuffavano nel precipizio.
Fu così che fiutai il fetore del vuoto che genera impotenza e panico. In una parola: vertigine. Mentre le mani si aggrappavano goffe agli spuntoni di roccia, la piana di Champoluc, Cheneil e la cresta del Tournalin vorticavano in un sabba sfrenato, e quando provai a scacciare il panico con uno sforzo di volontà scoprii che non ero solo orrendamente spaventato, ma anche oscenamente attratto dal precipizio. Infine, vedendo il mio sguardo impietrito da gattino sul cornicione, mio padre capì che la paura aveva superato l’ambizione di salire il Grand Tournalin, mi prese per mano come un invalido e disse «torneremo un’altra volta».
La mia vita quel giorno è cambiata. Ora ero un piccolo Ulisse sotto il monte di Calipso: perdutamente attratto e dannatamente prigioniero. Di notte sognavo le cime e di giorno ne fuggivo. Mi sentivo nato per la montagna, scalavo ogni roccia che trovavo, correvo come un furetto sulle pietraie, saltavo crepacci e torrenti in piena, ma davanti al vuoto mi paralizzavo e tornavo sconfitto.
Poi vennero due incontri importanti: due incontri di pianura.
Sul ponte di corso Regina a Torino mi imbattei in un misterioso uomo di frontiera, un po’ barbone e un po’ profeta, che vedendomi perso tra le nuvole volle fermarsi a parlare. Sporgendosi come Siddharta sulle acque del Po chiese:
«Come ti chiami?»
«Enrico.»
«Bene Enrico: che cosa vuoi fare?»
«Quando?»
«Domani, tra dieci anni…»
«Vorrei scalare le montagne.»
«E allora?»
«Non ci riesco. Ho paura del vuoto.»
Mi puntò con gli occhi scuri e disse che se sapevo quello che volevo ero già in cima, e che tutto il resto non contava niente. Sul momento non gli credetti perché erano gli anni dell’utopia al potere, e ogni disgraziato parlava da filosofo e t’insegnava a vivere o a tirare avanti; però il barbone lasciò il segno.
Il secondo incontro fu Primo di cordata di Roger Frison-Roche. Mi ero innamorato dell’edizione tascabile Garzanti con la guida alpina in copertina, completo grigio e calzettoni chiari, un uomo elegante che vola sul crepaccio a braccia spalancate. A giugno, finita la scuola, prendevo in mano il libro dell’uomo che salta e mi arrampicavo sul solito castagno in mezzo al bosco. Sull’albero il vuoto era sotto controllo e nessuno veniva a disturbare le mie fughe con gli eroi della montagna.
Il protagonista del romanzo era un certo Pierre Servettaz, bloccato dalle vertigini dopo una caduta dal Petit Dru. Ogni suo tentativo di recuperare la sicurezza perduta ricordava le mie patetiche prove sul bordo del precipizio:
«Ma che aspetti Pierre? L’avrai fatto venti volte questo passaggio! Basta un passo, ti sporgi in avanti, ti aggrappi all’orlo ed è fatta! Potresti saltare anche a occhi chiusi.»
Pierre si sporge, piega le ginocchia, prende lo slancio ma all’ultimo momento si blocca. Tende le braccia senza decidersi a saltare, il cuore sale alle labbra e preso dal panico si accascia sulla cornice. Steso a pancia in giù sulle pietre calde piange come un bambino. Il racconto di Servettaz era la mia medicina perché alla fine lui vinceva le vertigini e saliva da capocordata la parete nord dell’Aiguille Verte. Anche mio padre lesse il libro e osservò con spirito razionalista:
«Vedi, è la dimostrazione che con la volontà si ottiene tutto.»
Il barbone aveva detto un’altra cosa, dunque decisi di pensarci su.
Ci sono voluti alcuni anni: quattro per l’esattezza. Che cosa è successo precisamente? Come ho sconfitto il drago dentro di me? Non saprei dire, forse perché non è successo niente. Un giorno qualsiasi in un posto qualsiasi, che so?, una di quelle giornate opache e assonnate in cui il mondo sembra uno stagno immobile, su una cresta senza nome e senza storia, nel mezzo di uno dei miei ingloriosi e masochistici giochi, il vortice ha smesso inaspettatamente di vorticare, le sirene si sono zittite, l’aria s’è fatta leggera, calma, solidale, e poi si è trasformata in corrente ascensionale. Senza avere neanche il tempo di stupirmi, come i gracchi senza peso della Val d’Ayas sono salito sulla cima proibita tra le braccia di fata vertigine.
Da allora ho scalato un sacco di montagne e ho incontrato un sacco di alpinisti. Ho scalato con alpinisti famosi e no, uomini e donne, giovani e anzianotti. Adesso so che non sono persone migliori delle altre, solo un po’ più appassionate e testone. Chi è generoso in montagna lo è anche in pianura, altrimenti è solo una messa in scena. I miei migliori amici sono quasi tutti alpinisti, quindi penso che sì, la montagna aiuti l’amicizia, ma non credo che esista un sentimento universale della montagna, perché ognuno la vive a modo suo. Invece esistono alcuni ingredienti che la rendono speciale, e sono la ripidezza, la fatica, il vuoto. Geologicamente la montagna è una ribellione alla forza di gravità, e chi sfida la gravità va sempre in direzione contraria. Questo è il senso profondo, quindi un alpinismo conformista non ha senso.
Anche se lo stereotipo le vorrebbe isolate e arcaiche, un posto per vecchi, le Alpi sono montagne giovani e oggetto di giovani desideri. Due o tre secoli, non di più. I pionieri che le hanno popolate erano giovani come gli alpinisti che le hanno esplorate e scalate. Perfino i soldati che persero la speranza e la vita sulle Alpi nel Quindicidiciotto erano ragazzi di vent’anni. È su quei giovani che dei vecchi hanno costruito il mito dell’Alpe eroica, della morte giusta, della distruzione legalizzata, ed è su altri giovani che altri vecchi hanno cucito il vestito della montagna da consumare.
Gli unici aggettivi capaci di futuro sopra i mille metri d’altezza sono giovane e nuovo, infatti gli scenari della ribellione appartengono già ai nuovi abitanti. I valligiani Doc hanno rinunciato da tempo all’indignazione e allo stupore, mostrandosi cittadini compiacenti e consumatori ubbidienti. Intanto tutto si mescola e ogni cosa si confonde. Vecchio e nuovo, indigeno e forestiero, montanaro e cittadino, autentico e falso sono opposizioni destinate a dissolversi come neve al sole. Il mondo al tempo di internet è piccolo come una scatola di cioccolatini e le persone si spostano più freneticamente delle palline del flipper. Nessuno è più condannato a vivere dove viene al mondo, semmai a partire, sperimentare e scegliere. Siamo tutti montanari; tutti cittadini; tutti sulla stessa barca.
Ogni ambiente pone problemi diversi, naturalmente. Chi vive sulle Alpi ha bisogno di servizi urbani, dalla banda larga alla scuola per i bambini; chi vive in città ha bisogno di aria e acqua pulite, due benedizioni che scendono dalla montagna. L’interscambio è evidente, di solito a vantaggio della città, ma la montagna ha un vantaggio: anticipa le novità. Le terre più ripide ed estreme sono degli acceleratori di cambiamento, infallibile cartina di tornasole per sperimentare le trasformazioni in arrivo.
L’allarme scende dalle Alpi. Quasi tutti i fenomeni naturali che interessano le valli e le pianure – frane, squilibri idrogeologici, alluvioni, siccità – hanno origine sulle montagne, che informano le terre basse sul loro destino. Lo storico dell’Ottocento Jules Michelet scriveva che «i ghiacciai sono un termometro formidabile su cui occorre sia sempre puntato l’occhio del mondo intero, del mondo morale come del mondo politico», e che «il destino che verrà, la sorte dell’Europa, i tempi di pace e i bruschi cataclismi che rovesciano gli imperi e travolgono le dinastie si leggono sulla fronte del Monte Bianco». Michelet aveva ragione, anche se ai suoi tempi non c’era ancora il riscaldamento globale. Adesso avrebbe ancora più ragione.