Pubblicazione

Chi te lo fa fare?

“Spunti” n. 15: semestrale per la ricerca e l’azione nelle organizzazioni, Studio APS, novembre 2012, anno XIII – www.studioaps.it

Ci sono molte buone ragioni per le quali l’alpinismo dovrebbe interessare la psicologia, anche se i collegamenti tra le due discipline non sono frequenti e spesso mancano di approfondimento. Lo stesso vale per le scienze sociali, nel senso che l’alpinismo è una disciplina carica di metafore – dal legame della cordata alla liturgia della scalata – e dunque ben si presta a rappresentare le dinamiche collettive di un gruppo destinato a elaborare delle scelte e condividere un obiettivo.
La rappresentazione simbolica della montagna funziona se disgiunta da motivazioni utilitaristiche. Infatti l’alpinismo è un’attività spontanea, “gratuita”, tanto da snaturarsi quando viene strumentalizzato o mercificato da ideologie politiche o da convenienze economiche. Ancora oggi, dopo oltre duecento anni di storia, gli alpinisti restano persone di matrice romantico-anarchico-sportiva, poco propense a impegnarsi nella vita sociale codificata e ancora meno disposte a farsi applicare regole o etichette. Dunque, senza scivolare in una facile e abusata retorica, gli alpinisti sono individui liberi e solidali in seno alla loro comunità, che scelgono una vita rischiosa.
La passione verso una meta immateriale ma dai forti contenuti simbolici (la parete, la vetta, la vittoria sulle proprie paure) permette di accettare e addirittura di godere dei rischi e delle fatiche, perché l’alpinista si proietta oltre, vede “più in su”. Visione e passione sono i due primi ingredienti della pratica alpinistica, quelle strane molle che fanno amare anche la sofferenza. Spesso i non alpinisti domandano a chi va in montagna “che cosa ve lo fa fare?”, e hanno ragione da un punto di vista freddo e razionale. Il fatto è che i non innamorati non vedono il senso di tante pene, non ne colgono la valenza immaginifica, e dunque – giustamente – bollano l’alpinismo come masochismo.
Il rischio è la seconda variabile determinante dell’attività alpinistica, anche se l’arrampicata sportiva ha dimostrato che si può benissimo scalare eliminando la componente del pericolo. Ma quello non è alpinismo, è sport. In una società dove le incognite e i rischi sono ridotti al minimo, l’alpinismo – pur molto cambiato e in qualche modo “addomesticato” dalle previsioni meteorologiche, dalla tecnologia, dagli elicotteri e dai telefoni cellulari – resta un’attività dagli elevati contenuti di imponderabilità, e tali contenuti aumentano tanto più ci si allontana dalle regioni note e dagli itinerari battuti.
Qui interviene la terza componente fondamentale, che è quella della ricerca. Evidentemente si può fare alpinismo tutta la vita affidandosi a internet e alle raccolte preconfezionate di scalate classiche, ma molti alpinisti conservano e coltivano il desiderio della scoperta, sul terreno e dentro di sé. Geograficamente si può dire che l’alpinismo sia un’esplorazione in verticale, una delle ultime esplorazioni geografiche possibili, ma poi esiste un altro tipo di esplorazione – quella introspettiva – di cui gli alpinisti non hanno mai taciuto l’importanza, se non addirittura la necessità.
Il legame della cordata, sporadicamente indagato anche come metafora aziendale e spesso idealizzato, “obbliga” gli alpinisti a unirsi, letteralmente a “legarsi insieme”, e a collaborare nella buona e nella cattiva sorte. Si tratta di una metafora della vita di relazione, particolarmente significativa nei tempi ormai lontani in cui le guide valligiane collaboravano con gli intellettuali di città per cercare nuove vie sulle montagne, ma notevole ancora oggi in virtù del fatto che di solito esiste un primo e un secondo di cordata, con relativi ruoli, tensioni, vantaggi, svantaggi, sottomissioni, ribellioni, codici di comportamento. La cordata è una piccola società che lavora per un obiettivo.
Tutto questo si trova in abbondanza nelle relazioni e nelle autobiografie degli alpinisti, di cui sono piene le biblioteche e le librerie. Infatti l’alpinismo è speciale anche perché nessuna attività umana è forse mai stata così raccontata dai protagonisti, in ogni epoca storica e in ogni ambiente culturale: è come se la scalata avesse bisogno di essere “colata” nell’inchiostro per diventare vera. Dunque disponiamo di una letteratura quasi sterminata sulla scalata delle montagne, seppure ingombra di simulazioni, cadute agiografiche, esagerazioni, omissioni, rimozioni, aggiustamenti di comodo. Ma il materiale è immenso e non resta che scavare, scegliere, scartare, insomma lavorarci sopra.
Il fatto interessante è che tutto l’alpinismo è potenzialmente significativo, non bisogna limitarsi all’alpinismo di punta. Dal punto di vista psicologico e della dinamica di gruppo si può trovare la stessa “dedizione” e lo stesso coinvolgimento incondizionato sia tra chi vive di alpinismo a tempo pieno sia tra i cosiddetti “alpinisti della domenica”. Assai più delle capacità individuali, infatti, contano il coinvolgimento emotivo e la passione.
La pratica alpinistica è una passione (dipendenza?) a tutto tondo, che mal si presta a mediazioni e mezze misure. Lo sanno bene le mogli dei “malati di montagna” (o i mariti, quando l’alpinista è donna), che si devono accontentare dei residui di tempo e sentimento, e che inevitabilmente, a volte per tutta la vita, devono accettare la concorrenza di una musa esclusiva, una diabolica amante che non invecchia mai: la montagna. In definitiva l’alpinismo è la rappresentazione di un amore adolescenziale mai consumato fino in fondo, proiezione infantile di sogni, speranze, capricci, egoismi, illusioni, che mal si compendiano con le feriali incombenze della vita quotidiana. Proprio per questo si tratta di una pratica interessante e a suo modo unica, perché libera da molti condizionamenti esterni (per esempio il denaro, a parte certo professionismo esasperato) eppure dipendente dalle dinamiche di coppia, di gerarchia, di gruppo. Affrancata da molte consuetudini della società contemporanea (per esempio la safe security: la sicurezza garantita) e per converso dipendente da valori inattuali come il rischio, l’incertezza, la fatica, la passione.
Chi non è mai stato veramente innamorato non può capire certi gesti apparentemente insensati, il desiderio che ti brucia e ti consuma dentro, l’attesa che ti ruba il sonno, l’orgasmo di ogni incontro che – anziché pacificare – dischiude le porte a nuove ansie e nuove attese. L’alpinismo come il viaggio, quello vero, è il gioco dell’avventura ma è anche la nevrosi del partire e del ritornare. Il torinese Gian Piero Motti, filosofo dell’arrampicata, ha chiamato il suo più bel viaggio in parete “Itaca nel sole”, a memoria di Ulisse e dell’utopia della scoperta. Motti sapeva che nessun luogo sa trasmettere meglio delle montagne l’idea della contrapposizione tra l’orizzontale e il verticale, il caldo e il freddo, il domestico e il selvatico, l’idillio e la tempesta, la contemplazione e l’azione. Citando Rousseau, uno dei padri del romanticismo alpino, «pareva che anche la natura si compiacesse di contraddire se stessa; da tanto era diversa nello stesso luogo, sotto i vari aspetti! A levante i fiori della primavera, a mezzogiorno i frutti dell’autunno, a settentrione i ghiacci dell’inverno: riuniva tutte le stagioni nello stesso momento».
Anche da questo contrasto amato e cercato dagli alpinisti di ogni tempo si può ricavare una riflessione sulla società contemporanea, fondata su un modernismo tecnologico che tende a livellare riti e stagioni, caldo e freddo, domestico e selvatico. I termosifoni hanno annullato l’inverno e i condizionatori hanno ridicolizzato l’estate, eppure continuiamo ad avere un gran bisogno dei riti, perché scandiscono i ritmi della vita e danno un senso al fluire del tempo. Senza rimpiangere anacronisticamente le liturgie della civiltà contadina, in cui le stagioni erano tutto per i raccolti e la vita delle persone, dobbiamo ritrovare il senso della ciclicità, unico antidoto all’alienazione di un mondo senza tempo, e forse anche qui gli alpinisti ci possono essere di qualche aiuto.
La storia stessa dell’alpinismo è caratterizzata da un andamento ciclico, che con terminologia marxista si potrebbe definire dialettico. Nel 1974 Pier Paolo Pasolini scriveva su Il Tempo:
«Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: “sviluppo” e “progresso”. Sono due sinonimi? O indicano due momenti diversi dello stesso fenomeno? Oppure due fenomeni “opposti” fra loro? È evidente: a volere lo “sviluppo”, e questo sviluppo in particolare, sono gli industriali che producono beni. La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di un’industrializzazione praticamente illimitata… I consumatori di beni sono da parte loro irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo. Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare… Il “progresso” è una nozione ideale, là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico».
Ebbene, la storia dell’alpinismo incarna in modo singolare la contrapposizione pasoliniana, anche se non esistono produttori e compratori di montagne (o forse sì: i clienti delle spedizioni commerciali himalayane, che oggi pagano centomila dollari per la cima dell’Everest). Di certo esistono alpinisti-apritori che “fabbricano” vie e alpinisti-consumatori che, ripetendo gli itinerari, li usano.
Se nella categoria “sviluppo” andiamo a collocare i reiterati tentativi di addomesticare la montagna con la tecnologia, a uso e consumo dei ripetitori, e nella categoria “progresso” inseriamo le idee e le azioni che, per salvare l’alpinismo, si sono storicamente ribellate alla prepotenza della tecnica, otteniamo una sorta di metafora della società contemporanea.
Talvolta i seguaci dello “sviluppo” hanno cercato di trasformare la montagna in bene collettivo, facilmente godibile dalla comunità alpinistica (si pensi alle vie ferrate, alle falesie attrezzate dell’ultima generazione, alle stesse spedizioni commerciali), altre volte si sono limitati a fiaccare la resistenza della parete attraverso un uso poco lungimirante del chiodo e degli altri artifici tecnici, impedendo alle future generazioni di cimentarsi con “mezzi leali”. Ogni volta sono stati contestati e rallentati dai difensori dell’arrampicata libera, nel nome di una presunta purezza originaria.
La storia dell’alpinismo è una continua linea sinusoidale. Quando il profilo della curva sale troppo in alto, arriva un idealista bollato di conservatorismo che lo riporta in basso, in modo che l’avventura possa ricominciare. È una commedia non scritta in cui due attori recitano la parte, e si direbbe che gli uni e gli altri confidino in una reazione della parte dialetticamente avversa per salvare la comune passione: la montagna.
Alfred Frederick Mummery immaginava che il Dente del Gigante sarebbe stato prima o poi violato da scalatori più “ferrati” di lui; i Maquignaz e i Sella recitarono la parte con pioli e scale. Paul Preuss incarnava il ruolo del pazzo visionario che disdegnava i chiodi e scalava senza corda; la guida fassana Tita Piaz – pur ammirandolo – rispondeva a colpi di pragmatismo. L’artificialista Cesare Maestri trasgrediva con le vie a goccia d’acqua negli anni sessanta del Novecento, poi il Maestri purista rimetteva le cose a posto scendendo slegato dalla via delle Guide al Crozzon di Brenta.
“Siete dei trogloditi!” gridano da cent’anni e più gli “innovatori” dell’arrampicata.
“Solo togliendo avrete di più!”, replicano i “conservatori”. E così il gioco continua.
L’alpinismo è ancora vivo perché gli uni e gli altri hanno avuto modo di fare, sbagliare, pentirsi e correggersi; ma anche perché gli idealisti – almeno in montagna – sono stati ascoltati. Il fatto è che la crescita tecnologica tende a cannibalizzare la ragion d’essere dell’alpinismo, esattamente come succede all’economia illimitata del capitalismo avanzato, che consumando il suolo, l’ossigeno e le risorse terrestri uccide se stessa. Ma a differenza della città globale, lanciata senza freni verso il punto di non ritorno, la piccola comunità alpinistica ha saputo evolvere secondo natura, conservando i riti originari e usandoli come antidoto. Non è stata una crescita lineare, ma circolare. Ciclica, appunto.
Nel metodo ciclico è insito l’anelito originario dell’alpinismo, che accetta, anzi ricerca e preserva l’incognita come molla insostituibile del progresso creativo. Gli alpinisti sanno che bisogna sempre perdersi per ritrovarsi, mollare gli ormeggi, tentare vie nuove. Anche se esistono mezzi sicuri e itinerari certi perché già percorsi da altri prima, il buon alpinista sa che il suo percorso deve mostrare sempre originalità e coraggio, altrimenti la passione si spegne e le montagne tornano a essere un mucchio di sassi senza significato.
Questo può essere un utile insegnamento per un mondo e una società in cui ci si illude di programmare tutto ma non si riesce più a immaginare un futuro portatore di speranza. L’alpinismo insegna che le vie e i mondi nuovi nascono dal rischio creativo, che non coincide affatto con il pericolo insensato, ma significa – al contrario – cercare il senso attraverso la piena accettazione di un progetto e delle sue incognite, nell’immedesimarsi e compromettersi fino in fondo. In una parola: crederci.