Pubblicazione

Bagnar le labbra alla coppa della morte

Centro S. Chiara, Trento 4-16 maggio 1987

Morire non è una prerogativa degli alpinisti, come non lo è degli artisti, degli idealisti e dei rivoluzionari, ma la morte fa pienamente parte del gioco. Senza indulgere in facili conclusioni psicoanalitiche, nessuno può negare che un alpinista di alto livello – un alpinista ad alto rischio sotto fondati punti di vista – abbia un rapporto complesso con la la propria esistenza quotidiana e si affidi a esperienze limite per affermare la propria personalità, la propria ricerca, anche la propria voglia di vivere. Il suo confine tra la vita e la morte è molto differente da quello, ad esempio, di un impiegato di banca o di un professore universitario.
Nella storia della letteratura alpinistica si può individuare una chiara evoluzione del concetto di vita e di morte in montagna, specie in considerazione del fatto che la morte (e la vita intesa come sua premessa e suo contrario) è una presenza centrale nella letteratura stessa.
La prima fase della tradizione alpinistica parla inglese, o meglio parla la lingua degli alpinisti d’oltre Manica associata a quella delle prime guide alpine valligiane: ma sono gli inglesi che la raccontano. Per loro la morte è una presenza da trattare con distacco e se, possibile, da ridurre a un discorso di probabilità. La stessa passione per la montagna, che animava un Whymper nelle sue folli scalate sul Cervino o spingeva un Mummery a un impossibile tentativo al Nanga Parbat, sfumava tra l’autoironia etica rigorosa, con un rifiuto dichiarato verso ogni «inutile approfondimento psicologico».
Secondo una logica pienamente dialettica, e secondo tradizioni culturali che affondavano le radici nei secoli, la fase a cavallo tra ‘800 e ‘900 volta completamente le carte con l’affermazione della scuola tedesca. Guido Eugenio Lammer scrive “Fontana di giovinezza” il manifesto di cultura alpinistica che fa del gesto eroico fino alla morte l’unico mezzo per un vero riscatto dell’uomo: «Grazie a voi, esseri misteriosi, che avete il dominio sul mio destino, che al mio piccolo io parlate con potenti arcani incitamenti. Grazie, ché mi avete fatto sorseggiare il più dolce di tutti i dolci godimenti che la vita può offrire: di aver bagnato le mie labbra alla coppa della morte!».
Su questo modello, stemperate da un romanticismo più umano e da un idealismo più nostalgico, si innestano le opere di alpinisti «mediterranei» come il torinese Guido Rey e triestino Julius Kugy. Entrambi profondamente legati alle loro guide e malinconicamente delusi da una tradizione borghese che li ha condotti così lontano dall’invidiabile condizione «naturale» dei loro amici montanari, partecipano con commozione alle gioie elargite dalle vette e agli inevitabili lutti che derivano dalla pratica alpinistica. Non rifiutano la morte, non la idealizzano oltre misura, ma vi attribuiscono una funzione catartica e liberatrice. Per loro la morte fa comunque parte del ciclo della vita, ma assume un valore immensamente superiore se nasce dalla «lotta con l’Alpe» o dalla guerra in difesa della patria.

Con la prima guerra mondiale e con l’affermazione di regimi totalitari in buona parte dell’Europa, il clima alpinistico slitta rapidamente dal romantico all’eroico, con inevitabili condizionamenti di matrice irredentista e nazionalista. Tra un Emilio Comici, culturalmente figlio della Trieste del primo dopoguerra, e un Walter Bonatti, esponente della rinascita lombarda del secondo dopoguerra, si può disegnare un percorso mitico ed eroico che pass ail testimone da est verso ovest attraverso la simbolica figura di Giusto Gervasutti: nato e maturato in terra friulana, si stabilì a Torino e vi inaugurò una tradizione alpinistica di stampo tipicamente «occidentale». Almeno rileggere i loro scritti, anche se sostanzialmente differenti, per un Gervasutti o un Bonatti un’ascensione non aveva interesse se non impegnava il protagonista al limite delle sue possibilità: tempeste, situazioni drammatiche e miracolose sono all’ordine del giorno. Da due personaggi così diversi tra loro – introverso e sognatore Gervasutti, aperto e polemico Bonatti – emerge all’esterno l’immagine di un alpinismo sempre ai limiti dell’umano: una condizione ben distante dalla realtà dei comuni mortali, dove vittorie e tragedie non potevano che essere trasfigurate.

Il nuovo verbo degli anni Sessanta viene dall’America, tanto che ancora oggi si identifica spesso l’arrampicata sportiva modema con il concetto di free-climbing esportato dalla California. La rottura con gli stereotipi del passato è netta, perché personaggi emblematici come Gary Hemming o John Harlin sono innanzitutto cittadini del mondo che portano sulle montagne le speranze e le contraddizioni della loro generazione. Le loro esperienze di vita e di morte si inseriscono a pieno titolo nel clima della società in cui vivono e, per la prima volta, assistiamo a un alpinista – Gary Hemming appunto – che racconta le tragiche vicende di un salvataggio sui Drus inframmezzandole a richiami altrettanto drammatici alla guerra del Vietnam: «…Una caduta. Una lunga caduta. In basso. Colori, suoni, movimento. Discesa verso la terra. Ritorno verso l’ «in Turchia i soccorritori cercano tra le rovine» e «quaranta i morti sulle strade questo week-end» e «gli Stati Uniti invaderanno il Vietnam del Nord quest’autunno?» (Paris-Match, 3 settembre 1966).
Gli anni che seguono la stagione studentesca del ’68 sono rivoluzionari anche in montagna: sono gli anni del coinvolgimento nel sociale e della revisione introspettiva che mette in discussione antiche certezze e falsi valori. In Italia, personaggi come Guido Machetto, Alessandro Gogna o Reinhold Messner parlano la stessa lingua quando analizzano le motivazioni del proprio alpinismo o si soffermano lucidi e coinvolti, di fronte all’inutilità di una morte in parete. Poi l’ideologia dominante, in montagna come nella vita di tutti i giorni, si trasforma nuovamente e nell’alpinismo subentrano concetti praticamente assenti nella tradizione: la logica del «bon ton», l’etica della competizione a viso scoperto, il vangelo della leggerezza e della velocità. Le morti in montagna rimangono, e numerose, ma la letteratura di settore cambia voce per l’ennesima volta: Eric Escoffier, che nel 1985 torna dal K2 dopo aver «seppellito» il suo compagno Lacroix, racconta di tutto meno che del dramma da poco consumato; e ancora al K2, l’anno seguente, muoiono ben 13 alpinisti in differenti occasioni: se ne parla, è vero, ma mancano le parole per descrivere il senso della tragedia, Che la storia si ripeta e che si ritorni ai valori etici e morali che spinsero i primi inglesi sulle Alpi? Può anche darsi, in parte, ma la storia non si riproduce mai eguale a se stessa: il vago senso di imbarazzo che si percepisce oggi è molto diverso dalle convinte astrazioni di Whymper.