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Approfondimento


La parola che nelle intenzioni dei progettisti dà forma e senso all’esposizione permanente di Vinadio è “movimento”, in opposizione al vecchio luogo comune delle Alpi statiche e ripiegate su se stesse, massima espressione – come scriveva Dino Buzzati – “della suprema quiete”.
D’altra parte lo stereotipo della montagna isolata e chiusa è smentito dalla storia, che ha visto le Alpi dare vita, in epoche diverse, a veri e propri nodi di scambio, crocevia di innovazione, crogiuoli di tecniche e di idee, punti di arrivo e punti di partenza.
Ma oggi, dopo la caduta delle frontiere europee e con la possibile riconquista di un ruolo di “cuore dell’Europa”, a superamento dell’innaturale funzione di frontiera assegnata loro dal Trattato di Utrecht e dalla stolta idea di spartiacque, le Alpi si presentano con vocazioni nuove, niente affatto conservatrici, affidate al difficile dialogo tra globale e locale, città e montagna, centro e periferia.
Basta leggere il documento sottoscritto a Prazzo, in Val Maira (una delle valli che appartennero al “Mondo dei vinti” di Nuto Revelli), il 12 febbraio 2006, all’apertura dei giochi olimpici invernali di Torino. Firmato da ventidue rappresentanti delle vallate, dunque ventidue “montanari”, si intitola “Patto delle Alpi piemontesi” e prende forza da questa premessa:
“In Piemonte ci troviamo di fronte a una situazione paradossale: una pianura quasi completamente antropizzata è circondata da un territorio che si sta sempre più desertificando e la linea di demarcazione tra queste due realtà corre poche centinaia di metri a monte della fascia pedemontana, zona tra le più densamente abitate, quasi una città diffusa che traccia il confine tra la Grande Pianura e le Alte Terre; in questo contesto vanno comprese alcune “porzioni di valli” che, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, hanno subito un “percorso di sviluppo” legato a un modello di turismo non sostenibile e nelle quali si sono riprodotte dinamiche tipiche dello sviluppo urbano.
Tale modello, pur avendo “arginato” in queste aree il fenomeno dello spopolamento favorendo l’inserimento di persone attratte dalle nuove opportunità economiche, ha lasciato impatti pesanti sul territorio compromettendone per sempre le qualità ambientali, naturalistiche e paesaggistiche.
La montagna era stata, se non fiorente, sicuramente forte quando le persone che la abitavano facevano riferimento anche a una seconda scala di valori oltre a quella personale, e una scala di valori comuni è ancora condivisa dalle comunità che vivono la montagna.
Per le popolazioni delle vallate alpine non è possibile accettare un approccio contrattuale alla vita, perché ci sono cose che sono sentite come patrimonio collettivo e che costituiscono l’essenza stessa e il motivo d’essere della comunità… Se l’approccio liberal ha funzionato in pianura, bene o male che sia, in montagna ha dimostrato tutti i suoi limiti…”.
Il linguaggio del “Patto delle Alpi piemontesi” è innovativo perché non si fonda sull’atavico vittimismo delle popolazioni alpine afflitte dalla prepotenza urbana, o sulla sterile difesa di una presunta tradizione rurale ormai più vicina al luogo comune che alla realtà della montagna, ma entra finalmente nel cuore del dibattito contemporaneo, citanto la (disattesa) Convenzione delle Alpi, sottolinenando i veri termini dello (sbilanciato) rapporto tra città e montagna, dichiarando soprattutto una vocazione alternativa di quest’ultima, decisa a respingere – più per ragioni storiche che ideologiche – l’approccio liberal della pianura, l’illusione dello sviluppo illimitato, la cultura del consumo che sovrasta ogni valore e ogni solidarietà.
È una lettura che, rovesciando molti stereotipi, potrebbe ricollocare la montagna al centro del dibattito contemporaneo, candidandola a sperimentare quello sviluppo sostenibile che non è riuscito alle città, e che di norma resta sulla bocca degli stessi politici e amministratori alpini, proponendo le Alpi come luogo di riflessione alta, onesta e riformista, reinventandone il ruolo nei termini di un “laboratorio di futuro”, giovane polmone dell’Europa che verrà e non stanca periferia dei vecchi stati nazionali. In due parole, trasformando l’immagine delle Alpi da terra abbandonata a territorio capace di innovazione, da luogo statico a regione propulsiva e dinamica, in continuo movimento verso la città e viceversa.
Montagna e città, locale e globale. Il geografo Eugenio Turri recentemente scomparso ha scritto:
“Difendere la valle, la sua identità oggi si può non tanto chiudendosi in una Heimat senza speranza, ma coltivando le passioni locali e nel contempo dialogando con l’esterno, quindi con la megalopoli. Come dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere nel difficile mondo della complessità che ci assedia”.
Ecco il punto fondamentale: una cultura sola non basta più. Chi si illude di salvare e rilanciare la montagna con una pur nobile difesa della sua memoria, della sua autonomia, delle sue tradizioni, della sua staticità, ignora che il nostro mondo – almeno il mondo europeo – vive ormai di un’unica cultura, quella urbana, e che ogni alternativa può nascere solo all’interno di essa e non a chimerica difesa di un passato autarchico che non esiste più (o non è mai esistito affatto). In altre parole l’identità alpina non può porsi come un “locale” ancorato alla pietra e impermeabile al “globale” in movimento, ma può rivendicare forza e dignità solo se impara a uscire dai suoi confini misurandosi con il “mondo di fuori”, facendone emergere i limiti e le contraddizioni.
Chi saranno i “montanari” di domani? Ecco un altro punto cruciale: valligiani disillusi che sognano la strada della città, oppure cittadini intraprendenti che decidono di salire in montagna per rilanciare “vecchie” attività con idee nuove, beneficiando delle tecnologie – computer e modem – che riducono i tempi e le distanze. Sono forse più “montanari” questi pionieri che scelgono di vivere in un ambiente difficile spinti da una forte motivazione etica ed ecologica, o i nativi che sognano di scappare via? Si è montanari per nascita o per vocazione?
Credo che nel prossimo futuro, per il bene delle persone e per il bene della montagna, si sarà sempre più montanari per scelta.
Anche in riferimento alla “tradizione” bisogna spostare i termini della questione, perché “tradizione” non è un concetto statico, la tradizione non si può congelare, ma appartiene a una realtà culturale in continuo divenire attraverso scambi, condizionamenti e contributi esterni. Per esempio, riferendoci alla realtà alpina contemporanea, si può notare come il turismo faccia già parte della cultura alpina ottocentesca, e nel Novecento sia diventato “tradizione” esso stesso, cioè cultura locale motivata e condizionata da spinte esterne.
Con grande lungimiranza l’abbé Gorret scriveva: “Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato”. Gorret ragionava ancora nei termini dei “due mondi” contrapposti – città e montagna –, ma aveva capito perfettamente che, non foss’altro che per ragioni economiche, non si può proporre al turista una “copia” (bella o brutta che sia) del suo stesso mondo, cioè della città.
Ma anche la visione opposta, cioè quella di un mondo “vergine” e “incontaminato”, porta in sé un’insanabile contraddizione, come avrebbero osservato molti anni dopo gli studiosi dei flussi turistici diretti verso i paradisi esotici del pianeta. Perché il turismo “mangia” se stesso, nel senso che consuma e distrugge ciò che cerca: “La vacanza turistica è un’attività che si alimenta del mito della verginità da svelare e dell’incontaminato da contaminare. Più il turismo sale, più il valore edenico di un luogo scende” scrive l’antropologo Duccio Canestrini.
Nessun luogo può rappresentare meglio delle Alpi questo paradosso, perché nessun luogo si è nutrito più a lungo e più in profondità di orizzonti puri, ideali assoluti, altezze liberatorie, natura rigeneratrice, tutti valori annientati dal turismo di massa fondato sul modello consumistico.
Il turismo non è un fenomeno diverso dalle altre attività commerciali, e come tale si basa sul consumo: di beni immateriali come la bellezza (dell’ambiente), la spettacolarità (delle montagne), il silenzio, la “genuinità”, la “tradizione”; di attrattive folcloriche che, adeguatamente pilotate, rispondano alle aspettative dei cittadini romantici e orfani del passato. In tal modo ogni località, ogni valle, ogni comprensorio alpino si è visto costretto a ridefinire se stesso e a “reinventarsi” a uso e consumo del turismo, con processi di rappresentazione che spesso non coincidono con un’anima identitaria, ma sono il frutto dell’adattamento a modelli governati dalle regole del mercato. Una falsificazione, insomma.
Ma allora, se non si può proporre la “città in montagna” e neppure la falsificazione della montagna romantica, del bel tempo che fu, della wilderness lontana dal mondo reale, su quali contenuti può basarsi un turismo responsabile e capace di futuro?
Non esistono strade diverse da quella del dialogo tra le due culture, dunque ancora movimento di persone e di idee, perché la città stessa si convinca dei valori che ha perduto cercando, in montagna, di individuare nuove soluzioni, imparare altre visioni, differenti rapporti con il territorio, diversi e più lungimiranti modelli di sviluppo. La montagna di domani sarà il risultato di un lungo e delicato processo di relazione e scambio con il modello urbano, e potrà candidarsi come risposta convincente e durevole proprio se saprà proporsi in alternativa alle patologie di un consumismo illimitato e senza futuro.
In questa prospettiva vanno riconsiderati i rapporti tra montagna e città, dunque tra montanari e turisti. Non nei termini di un incontro tra passato e presente, o fra tradizione e innovazione, ma in quelli (molto diversi) di un mondo fragile ed eccezionale che incontra un mondo (apparentemente) più solido e sicuro di sé, ma che di fatto – proprio in funzione delle sue fragilità – può indicare alla pianura il senso del limite, il valore del tempo, un diverso modo di intendere lo “sviluppo”, meno schiavo del consumo e più interessato alla qualità della vita.